Webgiornale 16 aprile – 15 maggio 2024
L’aggressione iraniana a Israele e il diritto internazionale
Nella notte tra il 13 e il 14 aprile, l’Iran ha condotto un attacco armato
contro Tel Aviv, mediante il lancio di un’ingente quantità di missili balistici
e droni. Alcuni di essi sarebbero provenuti anche dal territorio libanese,
attribuiti a Hezbollah.
Secondo le prime dichiarazioni dello Stato iraniano, si tratterebbe
dell’esercizio del diritto naturale di legittima difesa ai sensi dell’art. 51
della Carta delle Nazioni Unite in risposta alle continue aggressioni
israeliane, culminate nell’attacco alla sede diplomatica della Repubblica
dell’Iran a Damasco, in Siria, e nel “martirio”- secondo quanto riportato – dei
consiglieri militari iraniani presenti. Il ministro degli Esteri iraniano evoca
anche una responsabilità del suo Stato connessa al suo ruolo funzionale al
mantenimento della stabilità nell’area regionale a fronte di Israele, accusato,
tra l’altro, di portare avanti un regime di apartheid nei territori occupati e
una “campagna genocidaria” nei confronti del popolo palestinese.
Fonti di intelligence avevano preannunciato l’imminente attacco da parte
dell’Iran, cui Israele ha risposto efficacemente. Grazie al sistema Iron Dome e
al supporto difensivo fornito dagli assetti navali statunitensi presenti nel
Mar Rosso, tra cui l’ammiraglia portaerei della marina statunitense USS
Eisenhower, gli effetti dell’attacco iraniano non hanno prodotto effetti
devastanti.
Numerose le dichiarazioni di supporto manifestate pubblicamente a Israele e
di condanna all’aggressione da parte dell’Iran, compresa quella italiana. La
prima reazione del Segretario Generale dell’ONU, limitata a un invito
all’immediata cessazione delle ostilità per evitare “un’altra guerra”, è stata
piuttosto flebile, in linea con l’orientamento scarsamente decisionista dei
tempi più recenti. Nella giornata del 14 aprile, è attesa una riunione del
Consiglio di Sicurezza, dopo circa 24 ore dall’avvenuto.
L’aggressione iraniana e il punto di vista giuridico
L’azione militare dell’Iran rivolta contro Israele tramite ingenti
operazioni aeree pare difficilmente riconducibile a un esercizio della
legittima difesa ai sensi dell’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite a fronte
dell’attacco dell’ambasciata iraniana in Siria. In primo luogo, sotto il profilo
temporale, essa non segue a un attacco armato attuale o imminente, essendosi
concluso da giorni quello richiamato. In secondo luogo, Israele non ha
rivendicato questo attacco, ma è stato attribuito allo stesso dall’Iran.
Peraltro, esso ha colpito una sede diplomatica iraniana ma sita sul territorio
di uno Stato terzo, la Siria.
Per contro, l’azione iraniana condotta il 13 aprile potrebbe avere i
caratteri di un’aggressione ai sensi dell’art. 2 par.4 della Carta dell’Onu, in
quanto chiaramente e dichiaratamente un massiccio attacco armato è partito dal
territorio della Repubblica islamica dell’Iran nei confronti di un altro Stato
sovrano. La risposta israeliana sembra, invece, configurabile come un’azione in
legittima difesa a fronte di un attacco armato attuale e finalizzata a
respingerlo secondo criteri di proporzionalità, in conformità all’art. 51 della
Carta delle Nazioni Unite. Il supporto statunitense o di altri Stati nella
difesa pare a sua volta configurabile come un’ipotesi di intervento in legittima
difesa collettiva.
Da un punto di vista formale – per quanto sin dalle prime battute del
conflitto armato tra Israele e Hamas si sia ipotizzato un coinvolgimento, non
dimostrato, della repubblica islamica dell’Iran a supporto di quest’ultimo
oppure degli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso -, si trattava di un
appoggio non incontroverso e di natura logistica. Un coinvolgimento indiretto
nel conflitto armato, tramite il supporto di gruppi armati, ma senza un
intervento diretto, generalmente non è ritenuto idoneo a far qualificare uno
Stato come parte dello stesso. Risultava pertanto da escludere un
coinvolgimento diretto dell’Iran come parte belligerante di un conflitto armato
internazionale. Dal punto di vista giuridico, gli eventi recenti sono invece
configurabili come un atto di aggressione, come definito in maniera condivisa a
livello internazionale, contro la sovranità di un altro Stato, tale da dare
origine a un conflitto armato internazionale. In tal caso, apparirebbe
incontrovertibile la sussistenza di un animus bellandi, tale da far qualificare
quest’ultimo come “guerra” dal punto di vista giuridico.
I bombardamenti iraniani, pertanto, hanno rappresentato certamente
un’esclalation sotto il profilo militare, ma anche un momento di svolta, rendendo
chiara e diretta la contrapposizione armata tra Israele e la Repubblica
islamica dell’Iran.
Soltanto un’intensa attività diplomatica, in ogni sede, potrebbe attenuare
il deterioramento della crisi nell’area mediorientale, che, allo stato attuale,
appare destabilizzata in maniera critica, senza dimenticare che c’è il sospetto
del possesso dell’arma nucleare tra le parti al conflitto.
Le imminenti riunioni del G7 e del Consiglio di sicurezza dell’ONU, già
convocate, unitamente alle reazioni di supporto a Israele provenute da un ampio
novero di attori, inclusa la NATO, testimoniano la preoccupazione della
Comunità internazionale rispetto alla destabilizzazione dell’area. Valeria
Eboli, AffInt 15
Patto europeo sui migranti richiedenti asilo e rifugiati: il fallimento
della solidarietà europea
Il Patto europeo
sui migranti richiedenti asilo e rifugiati, approvato oggi al Parlamento
europeo a Bruxelles, avrebbe dovuto modificare le regole di Dublino, favorire
la protezione internazionale in Europa di persone in fuga da disastri
ambientali, guerre, vittime di tratta e di sfruttamento, persone schiacciate
dalla miseria, con un impegno solidale di tutti i Paesi membri dell’Unione
europea nell’accoglienza, il ritorno alla protezione temporanea come si era
visto con gli 8 milioni di migranti in fuga dall’Ucraina, un monitoraggio
condiviso tra società civili e Istituzioni del mar Mediterraneo per salvare
vite nel Mediterraneo.
Invece l’Europa –
mentre continuano le tragedie nel Mediterraneo – a maggioranza di voti si
chiude in se stessa, trascura i drammi dei migranti in fuga, sostituisce la
vera accoglienza con un pagamento in denaro. E pretende ancora di più dai Paesi
di frontiera, come l’Italia: controlli più veloci, ritorni nel primo Paese di
sbarco di chi si muove in Europa senza un titolo di protezione internazionale,
rimpatri facilitati in Paesi terzi non sicuri, chiudendo gli occhi su
esternalizzazioni dei migranti. Indebolendo, non da ultimo, la tutela delle
famiglie e dei minori.
Il Patto europeo
sui migranti richiedenti asilo e rifugiati segna così una deriva nella politica
europea dell’asilo e il fallimento della solidarietà europea, che sembra
infrangersi come le onde contro i barconi della speranza. Confidiamo che l’art.
10 della nostra Costituzione rimanga come presidio sicuro per tutelare i
richiedenti asilo.
Le prossime
elezioni europee saranno un banco di prova importante per rigenerare l’Europa a
partire dalle sue radici solidali e non piegarla a nazionalismi e populismi che
rischiano di dimenticare la nostra comune storia europea. Gian Carlo Perego,
migrantes 11
I migranti e l'Europa più forte
Il nuovo accordo:
con il Patto la Ue compie un piccolo ma importante passo in avanti in termini
di sovranità condivisa - di Maurizio Ferrera
Non è stato un
bello spettacolo, ma alla fine il Parlamento europeo ha votato sì: tutte e
dieci le misure del nuovo Patto sull’Immigrazione e l’Asilo sono state
approvate l’altro ieri. Le reazioni sono state molto diverse, dal trionfalismo
acritico alla condanna senza appello. Succede sempre così nel caso di pacchetti
articolati e complessi, su temi delicati. Per un giudizio ragionato di sintesi
conviene utilizzare criteri, per così dire, di sistema. Ad essere in gioco sono
infatti elementi costitutivi di ogni comunità politica (inclusa la Ue, dunque):
i confini territoriali e il loro controllo. In che misura il Patto rafforza la
condivisione di sovranità su questo delicato fronte, sotto la guida della Ue?
Sappiamo che, per
quanto riguarda il movimento delle persone, la Ue ha progressivamente
neutralizzato le frontiere fra i Paesi membri: pensiamo all’area Schengen. Gli
ingressi dall’esterno sono invece controllati dai governi nazionali, ai quali
spetta di determinare i flussi regolari e di gestire quelli irregolari. La
pressione migratoria colpisce i vari Paesi in modo asimmetrico. La rotta
mediterranea è oggi quella di gran lunga prevalente e il famigerato Regolamento
di Dublino scarica ogni responsabilità sui Paesi più esposti: l’Italia, la
Grecia e in misura minore la Spagna. Un caso evidente di quanto la sovranità
puramente nazionale possa causare svantaggi immeritati, in base a ciò che
accade al di fuori dell’Europa.
Il Patto approvato
mercoledì non abolisce Dublino, ma lo tempera sotto almeno tre profili. Primo,
uniforma per tutti i Paesi le procedure di screening alle frontiere esterne,
rendendole più veloci ed efficaci. Secondo, crea un sistema di condivisione
degli oneri: una quota di irregolari «in eccesso» può essere trasferita da un
Paese ad un altro. Se quest’ultimo non è disponibile, deve almeno fornire un
contributo finanziario. Terzo, l’Ue stipula (ha già iniziato) dei partenariati
con Paesi terzi, in modo da facilitare i rimpatri. Insieme alle operazioni
della già vigente Guardia costiera comune, con il Patto la Ue compie un piccolo
ma importante passo in avanti in termini di sovranità condivisa.
Le nuove misure
chiudono poi una spaccatura politica profonda che si era aperta a metà del
decennio scorso proprio sul tema dei confini. Il massiccio incremento di
rifugiati provocato dalle crisi libica e la guerra in Siria aveva messo a nudo
due drammatiche impossibilità: quella di una gestione puramente nazionale delle
frontiere e quella di procedere verso una gestione più centralizzata.
L’Ungheria di Orbán, appoggiata da Polonia, Cechia e Slovacchia, approfittò del
momento per lanciare un guanto di sfida all’autorità di Bruxelles. Si rifiutò
di applicare una decisione sul ricollocamento dei rifugiati fra Paesi,
organizzò un referendum nazionale «contro l’Europa» (cui partecipò meno del 40%
degli elettori) e attaccò apertamente il principio della supremazia del diritto
europeo. Fu la pagina più buia dell’ Europa post-allargamento, che peraltro
alimentò una vera e propria ondata di xenofobia ed euroscetticismo in molti
Paesi (Italia compresa).
Va dato atto a
Ursula von der Leyen di aver saputo ricucire gli strappi, dando il via a un
lungo e paziente negoziato a partire dal 2020. Il tema esplosivo dell’immigrazione
esterna è stato trasformato da una questione di principio difficilmente
sanabile (l’opposizione binaria fra sovranità nazionale o condivisa) ad un
confronto più maneggevole e costruttivo sui termini specifici della gestione in
comune.
Vi è infine un
terzo aspetto. La percentuale di voti a favore delle dieci misure del Patto è
stata piuttosto risicata. Ciò che conta è però che, nel complesso, abbia tenuto
la maggioranza fra socialisti, popolari e liberali, senza frantumarsi lungo
linee territoriali. Il Parlamento non esprime la volontà dei Paesi membri ma
quella dei cittadini, rappresentati dai partiti in base a obiettivi e valori
condivisi. Si tratta di una distinzione importante, che definisce la natura di
un regime politico, la sua capacità di essere qualcosa di più di una
confederazione tra stati sovrani che difendono solo i propri interessi.
L’imminenza delle elezioni ha creato tuttavia qualche disturbo agli
allineamenti partitici: ci sono state defezioni, per fortuna non decisive, da
parte di alcune delegazioni nazionali. Per limitarci al caso italiano,
all’interno del gruppo conservatore Fratelli d’Italia ha votato a favore
(allineandosi ai popolari e dunque a Forza Italia) tranne che sulla misura
riguardante la condivisione degli oneri, la più osteggiata da Orbán. Fra i
socialisti, il Pd ha votato in modo quasi speculare al partito di Meloni,
schierandosi a favore solo sulla condivisione degli oneri. Per come funziona il
Parlamento europeo, le defezioni di chi fa parte della maggioranza fanno più danni
di quelle in direzione contraria. I socialisti e democratici si sono sempre
distinti per la capacità di votare uniti, componendo ex ante eventuali
differenze di orientamenti. Speriamo si tratti solo di un incidente di
percorso: è importante che la tradizione continui. CdS 12
Putin e quel disperato bisogno di guerra all’Ucraina
L’importanza delle
elezioni presidenziali in Russia svoltesi il 15-17 marzo non riguarda il loro
esito bensì quel che ci dicono sulla traiettoria della Russia e della guerra in
Ucraina.
La vittoria di
Putin non è frutto di una competizione elettorale
Che Vladimir Putin
avrebbe stravinto le elezioni, assegnandosi un quinto mandato e divenendo così
il leader russo più longevo dai tempi di Josef Stalin, era una delle pochissime
certezze di questo periodo di profondi sconvolgimenti. L’elezione di Putin non
è mai stata un cigno nero, piuttosto un gigantesco rinoceronte grigio che tutti
avvistavano nitidamente da lontano. In Russia non c’è stata alcuna competizione
elettorale. I tre contendenti ufficiali di Putin – Leonid Slutsky, Nikolai
Kharitonov e Vladislav Davankov – sono sostenitori del presidente. L’unica voce
fuori dal coro, Boris Nadezhdin – con un approccio più critico nei confronti
non tanto di Putin quanto della sua guerra in Ucraina – è stato squalificato
dalla contesa elettorale, mentre l’unica vera minaccia al potere di Putin è
stata assassinata. Come noto, infatti, il leader dell’opposizione democratica
Alexey Navalnhy è stato ucciso a febbraio nella colonia penale artica di Kharp.
Al netto dei brogli, della propaganda e dell’intimidazione, è difficile non
stravincere quando non c’è competizione. Insomma, l’operazione elettorale
speciale in Russia, con la vittoria schiacciante di Putin, è andata come voluto
e ampiamente previsto.
Cosa ci dice
questo 87%
Eppure queste
elezioni ci dicono molto sia sulla Russia sia sulla sua guerra contro
l’Ucraina. Il fatto che non siano state elezioni democratiche non rende
irrilevante la vittoria di Putin con l’87% dei voti, ossia ben 10 punti
percentuali in più rispetto alla sua ultima vittoria nel 2018. Lo stesso
aumento ha caratterizzato anche l’affluenza, un dato tanto (o forse più)
significativo di quello sull’esito, specie in un sistema autoritario. Questo,
tuttavia, non significa che non ci sia una reale opposizione a Putin: le lunghe
file ai seggi a mezzogiorno di domenica 17 marzo in Russia e davanti alle
ambasciate russe in diverse città europee e del Caucaso, di cittadini russi che
coraggiosamente e silenziosamente hanno aderito all’appello dell’opposizione
democratica a presentarsi alle urne a quell’ora in segno di protesta, ci
parlano di un’opposizione che resiste, nonostante la violenza e la repressione.
Tuttavia, è probabile che anche se questa opposizione avesse avuto piena libertà
di esprimersi e votare liberamente il proprio candidato, Putin avrebbe comunque
vinto seppur non con l’87% dei voti. Sarebbe fuorviante, infatti, dedurre che
alla luce dei brogli e della repressione Putin non goda di un reale sostegno
della maggioranza nel suo Paese. Non è una novità che la maggioranza dei russi
sia profondamente nazionalista e anti occidentale, amante dell’uomo forte al
potere e dell’idea – mai veramente abbandonata – di essere un impero,
considerando i Paesi limitrofi indegni di sovranità. Oppure, più banalmente,
questa maggioranza vuole tenersi alla larga dalla politica e sarebbe disposta a
votare chiunque le venga suggerito o imposto. Putin rappresenta perfettamente
questa maggioranza.
Putin ha bisogno
della guerra in Ucraina
L’esito delle
elezioni in Russia ci dice inoltre che la guerra per Putin sta svolgendo la
funzione voluta in casa. Negli ultimi due anni, il leader russo ha trasformato
la narrazione e la legittimazione del conflitto nel suo Paese: l’invasione
dell’Ucraina non ha più solo o principalmente lo scopo di denazificare e
demilitarizzare il Paese, alla vigilia di una sua ipotetica entrata nella Nato,
ma è diventata una nuova grande guerra patriottica contro l’Occidente. Questa è
una narrazione che ha molta più presa sull’opinione pubblica russa e le
elezioni, nonché il terribile attacco al Crocus City Hall di
Mosca del 22 marzo scorso, lo dimostrano. Non a caso Putin è ingaggiato nel
tentativo maldestro di scaricare la responsabilità indiretta dell’attacco su
Kyiv.
Se la prosecuzione
della guerra funziona così bene per Putin, anzi se Putin ne ha bisogno per
alimentare il suo consenso interno, perché mai dovrebbe porvi fine con un
cessate il fuoco e una trattativa? Le elezioni in Russia e
l’attacco al Crocus City Hall confermano ciò che è evidente da tempo:
della guerra Putin ha e continuerà sempre più ad avere un disperato bisogno. A
noi trarne le dovute conseguenze. Nathalie Tocci, AffInt 8
Ucraina. La Germania schiera truppe in Lituania
Il Cremlino:
"Così aumentano tensioni". Scambio di accuse Mosca-Kiev per l'attacco
alla centrale che ha danneggiato un reattore. Grossi: "Rischio grave
incidente nucleare"
La Germania invia
soldati in Lituania e la tensione con la Russia aumenta. Il ministro della
Difesa tedesco, Boris Pistorius, ha annunciato oggi l'inizio del dispiegamento
di una brigata in Lituania: "E' un giorno importante per la Bundeswehr. E'
la prima volta che dispieghiamo in forma permanente un'unità di questo tipo
fuori dalla Germania", ha dichiarato nel corso di una cerimonia in
occasione della partenza di un primo distaccamento formato da una ventina di
militari, che saranno poi raggiunti dagli altri a partire dai prossimi mesi.
Dopo l'attacco
russo contro l'Ucraina, il governo tedesco si è impegnato a schierare in
Lituania un'unità pronta al combattimento con capacità indipendenti. La brigata
dovrebbe essere operativa entro il 2027. È prevista una presenza permanente di
circa 4.800 soldati e circa 200 civili della Bundeswehr, che potranno portare
con sé le proprie famiglie.
Il primo
distaccamento è partito oggi per il Paese baltico insieme al capo di Stato
maggiore dell'esercito, il tenente generale Alfons Mais. A Vilnius, i primi
membri della brigata saranno ricevuti dal ministro della Difesa lituano
Laurynas Kasciunas. Questo comando iniziale dovrebbe crescere fino a
raggiungere una forza di circa 150 unità entro il quarto trimestre del 2024. Le
altre unità cominceranno a schierarsi dopo l'entrata in servizio ufficiale
della brigata - che prenderà il nome di Panzerbrigade 45 - nel 2025.
Cremlino:
"Truppe tedesche in Lituania aggraveranno tensioni"
Il dispiegamento
di una brigata tedesca in Lituania ''aggraverà le tensioni già in crescita'', ha
dichiarato il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. ''Si tratta di aumentare
una tensione già in crescita, creare situazioni di pericolo per noi ai nostri
confini e ci richiede di adottare misure speciali per garantire la nostra
sicurezza", ha detto Peskov rispondendo alle domande dei giornalisti sui
piani della Germania di creare una base militare in Lituania.
Allarme per
rischio incidente nucleare a Zaporizhzhia
Intanto cresce
l'allarme per il rischio di un incidente nucleare a Zaporizhzhia. L'involucro
del reattore dell'impianto è stato danneggiato dagli attacchi con droni
lanciati nelle scorse ore dalla Russia,ha dichiarato il direttore generale
dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea), Rafael Mariano
Grossi, parlando di ''almeno tre colpi diretti contro il reattore'' e di
''grave incidente che ha messo in pericolo la sicurezza nucleare''.
L'attacco alla
centrale, si legge in una nota dell'Aiea, rappresenta una chiara violazione dei
cinque principi fondamentali per la protezione dell’impianto illustrati da
Grossi al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel maggio dello scorso
anno. Su X, l’Aiea ha comunque sottolineato che il danno all’impianto
controllato dalla Russia "non ha compromesso la sicurezza nucleare".
In ogni caso"'si tratta di una grave escalation dei rischi per la
sicurezza nucleare che la centrale nucleare di Zaporizhzhya deve affrontare.
Tali attacchi sconsiderati aumentano significativamente il rischio di un grave
incidente nucleare e devono cessare immediatamente'', ha affermato Grossi in
una nota.
Mosca nega
di essere responsabile dell'attacco e accusa Kiev. E' stata una
"provocazione molto pericolosa", ha dichiarato Peskov. "I
dipendenti dell'Aiea che sono sul posto hanno avuto l'opportunità di assistere
a questi attacchi. Questa è una tattica molto pericolosa che avrà conseguenze
molto negative a lungo termine. Il regime di Kiev, purtroppo, continua le sue
attività terroristiche" ha sottolineato il portavoce del Cremlino citato
dalla Tass.
Nelle ultime 24
ore i russi hanno colpito "357 volte" otto centri abitati nella
regione di Zaporizhzhia, ha reso noto il capo dell'amministrazione regionale,
Ivan Federov, secondo il quale tre persone sono morte e tre sono rimaste
ferite.
Zelensky:
"Kharkiv attaccata giorno e notte, alleati ci aiutino a proteggerla"
''Kharkiv. Ogni
giorno e ogni notte la città è soggetta a atroci attacchi russi. Stiamo facendo
ogni sforzo per fornirgli una migliore protezione. I nostri alleati possono
fornire assistenza nella difesa aerea ed esercitare pressioni sulla Russia''.
Lo ha scritto in un tweet il presidente ucraino Volodymyr Zelensky dicendo di
voler ''ringraziare tutti coloro che già stanno assistendo. Ringrazio tutti
coloro che a Kharkiv salvano vite umane e fanno tutto il possibile per
sostenere la città in questo momento difficile''. Zelensky ha aggiunto che
''ogni comunità ucraina che ora sta aiutando Kharkiv, ogni città che sta al
fianco di Kharkiv e ogni combattente che difende la regione di Kharkiv stanno
tutti proteggendo l’Ucraina''.
10mila bambini
russi evacuati da area Belgorod
Sono circa 10mila
i bambini evacuati dalla regione russa al confine con l'Ucraina di Belgorod in
seguito agli attacchi dell'Ucraina, ha reso noto il governatore Vyacheslav
Gladkov. Presto, i ragazzini saranno trasferiti in campi in Ossezia del Nord. E
nelle regioni di Pskov, Ivanovo, Kostroma e Bashkiria. Molti genitori hanno
lamentato le condizioni di viaggio dei bambini e le loro sistemazioni.
Lavrov a Pechino,
incontro con Wang
Il ministro degli
Esteri russo Sergei Lavrov è arrivati oggi a Pechino per una visita di due
giorni durante la quale incontrerà il collega cinese Wang Yi. Alla vigilia
della partenza, il ministero degli Esteri russo aveva sottolineato che
obiettivo dei colloqui è di discutere di "un'ampia gamma di temi di
cooperazione bilaterale così come l'interazione in ambito internazionale".
E' poi previsto "uno scambio dettagliato di opinioni su una serie di 'temi
caldi' e questioni regionali, tra cui la crisi in Ucraina e la situazione nella
regione Asia-Pacifico".
Non è escluso che
Lavrov e Wang - che si sono incontrati l'ultima volta a Pechino in ottobre -
parlino anche della possibilità di una visita in Cina del presidente russo
Vladimir Putin, che secondo indiscrezioni recenti potrebbe avvenire a maggio.
Adnkronos 8
Italia e Germania insieme alle Fosse Ardeatine
ROMA - Nella
mattina di ieri, 24 marzo, in occasione dell’ottantesimo anniversario della
strage delle Fosse Ardeatine, la ministra di Stato per la Cultura e i Media del
Governo federale della Germania, Claudia Roth, e il ministro italiano della
Cultura, Gennaro Sangiuliano, si sono recati insieme al Mausoleo delle Fosse
Ardeatine per deporre una corona di fiori davanti alla lapide commemorativa
dell’eccidio.
Presente anche il
ministro dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste,
Francesco Lollobrigida, i ministri Roth e Sangiuliano, accompagnati dal capo
dell'Ufficio per la tutela della cultura e della memoria della Difesa, generale
di divisione dei Carabinieri Diego Paulet, hanno visitato il Mausoleo.
Roth e Sangiuliano
si sono poi recati al Portico D’Ottavia, alla Sinagoga e al Museo Ebraico dove
hanno deposto una corona di fiori. Ad accoglierli il rabbino capo di Roma,
Riccardo Di Segni, insieme al presidente della Comunità ebraica di Roma, Victor
Fadlun, il presidente della Fondazione Museo Shoah, Mario Venezia, il
presidente della Fondazione per il Museo Ebraico di Roma, Alessandra Di Castro,
e gli assessori della Comunità ebraica ai Rapporti istituzionali, Alessandro
Luzon, ai Rapporti internazionali, Johanna Arbib, e alla Memoria, Daniele
Regard.
“È stata una
giornata densa di significati, con gesti che vogliono affermare i valori dei
diritti individuali della persona e della concordia tra i popoli”, ha
commentato Sangiuliano. “Ottant’anni fa si consumava l’eccidio delle Fosse
Ardeatine: 335 persone, tra militari e civili e molti cittadini di religione
ebraica, furono trucidate dalle truppe di occupazione naziste con la feroce
collaborazione dei fascisti”.
“A mia memoria,
credo che mai tre ministri, fra cui uno tedesco, si siano recati insieme al sacrario
delle Fosse Ardeatine”, ha osservato Sangiuliano. “La memoria è fondamentale
affinché nelle coscienze si radichi il rifiuto del male. Significativa e
rilevante è stata anche la presenza al Portico d'Ottavia nel punto in cui
furono rastrellati gli ebrei romani”.
Il ministro ha
ringraziato “gli amici fraterni della comunità ebraica per averci accolto in un
momento tragico nel quale, dopo l’attacco del 7 ottobre, riappare il demone
dell’antisemitismo. Sia pur nella tragicità degli eventi rievocati”, ha aggiunto,
“sono stati momenti positivi di ricostruzione morale”. (aise/dip 25.3.)
Berlino - È stato
presentato venerdì scorso, 15 marzo, dall’ambasciatore d’Italia a Berlino,
Armando Varricchio, il ricco programma di “Destinazione Francoforte”: eventi
con incontri, festival e rassegne in avvicinamento alla partecipazione
dell’Italia come “Ospite d’onore” alla Fiera del Libro di Francoforte 2024.
Decine di autori e libri italiani si alterneranno nei maggiori eventi letterari
ed editoriali tedeschi, grazie all’azione degli Istituti Italiani di Cultura in
Germania e il coordinamento dell’Ambasciata d’Italia a Berlino.
“Destinazione
Francoforte” inizierà a marzo con gli incontri previsti alla Stuttgarter
Kriminächte e alla Leipziger Buchmesse, per proseguire nei mesi successivi con
ILfest di Monaco, Europäisches Festival des Debütromans di Kiel, Literatursommer
Schleswig-Holstein, Poetische Quellen a Bad Oeynhausen, Internationaler Graphic
Novel Salon di Amburgo, Globale Festival di Brema, il Krimifestival di Amburgo,
Stuttgarter Buchwochen e molti altri appuntamenti letterari.
Curato dai cinque
Istituti Italiani di Cultura che operano in Germania (Berlino, Amburgo,
Colonia, Monaco di Baviera e Stoccarda), in collaborazione con AIE e con il
coordinamento dell’Ambasciata a Berlino, il percorso di “Destinazione
Francoforte” permetterà sia di ampliare notevolmente il numero degli autori
italiani che nel 2024 avranno la possibilità di presentare le loro opere in
Germania, sia di anticipare alcuni dei filoni e dei focus che saranno
protagonisti a ottobre alla Fiera del Libro di Francoforte.
“Il 2024 è un anno
che ci consente di presentare agli amici tedeschi molteplici volti della
cultura italiana”, ha detto l’ambasciatore Armando Varricchio. “Arriveremo a
ottobre alla Fiera del Libro, dopo le tappe in molteplici festival letterari,
sparsi su tutto il territorio. “Destinazione Francoforte” sarà infatti un vero
e proprio “Giro della Germania” intrapreso da autori e editori italiani,
toccando le grandi metropoli e le piccole città, i festival letterari e le
fiere tematiche. Presenteremo in Germania la creatività e l’innovazione che
sono gli elementi centrali della cultura italiana, così come le nostre capacità
nell’economia, nella scienza e in tutti i settori in cui operiamo”.
La Fiera del Libro
di Francoforte, in programma dal 16 al 20 ottobre, rappresenta un appuntamento
di grande importanza internazionale che vede impegnate tutte le istituzioni
coinvolte nel progetto: il Ministero della Cultura con il Centro per il libro e
la lettura, il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione
Internazionale, l’Ambasciata d’Italia a Berlino, ICE-Agenzia per la promozione
all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane. L’AIE –
Associazione Italiana Editori curerà il programma editoriale. Il Commissario
straordinario Mauro Mazza assume la responsabilità complessiva di questa
iniziativa.
A tenere traccia
del percorso di Destinazione Francoforte, con approfondimenti, informazioni e
calendari, è il sito https://italiafrancoforte2024.com/ aise/dip 19.3.
L'interscambio Italia-Germania nel 2023. La Germania primo partner
economico dell'Italia
La Camera di
Commercio Italo-Germanica (AHK Italien) ha presentato oggi, 20 marzo, i dati di
interscambio commerciale italo-tedesco 2023, con approfondimenti territoriali,
settoriali e relativi al contesto internazionale e macroeconomico.
Secondi i dati
Istat, la Germania rimane il principale partner economico dell'Italia, sia in
termini di export (74,6 miliardi) sia di import (89,7 miliardi), con una
partnership complessiva che nel 2023 ha raggiunto il valore di 164,3 miliardi.
Si rileva così un calo del 3,7% dell’export e dell’1,4% per l’import, con una
diminuzione della partnership commerciale pari al 2,5% rispetto al 2022.
Anche per il 2023,
il distacco della Germania rispetto al secondo partner commerciale italiano, la
Francia, resta netto, con ben 54 miliardi di differenza.
"Pur
registrando un calo rispetto al 2022, restiamo in anni globalmente di crescita
per la partnership economica italo-tedesca", ha dichiarato il Consigliere
Delegato AHK Italien, Jörg Buck. "Anche in un contesto di recessione,
rileviamo come gli anni post-pandemici abbiano dato sempre più evidenza di un
rapporto di co-produzione strutturale tra i nostri due Paesi, con risultati ben
superiori rispetto ai 127 miliardi del 2019. Il 2023 ci restituisce così il
secondo risultato più alto di sempre. Se consideriamo, inoltre, che lo scorso
anno l’inflazione è calata rispetto al 2022 e la diminuzione dell’interscambio
è stata molto contenuta, possiamo continuare a fare affidamento sulla solidità
dei legami commerciali costruiti con la Germania".
Per quanto
riguarda i territori, non si rilevano cambiamenti nella gerarchia delle regioni
italiane più attive commercialmente con la Germania. La Lombardia continua a
svolgere un ruolo di traino: da sempre al primo posto e con un peso che è
aumentato negli ultimi anni, anche nel 2023 la regione ha registrato un valore
(53,8 miliardi) più che doppio rispetto al Veneto e all’Emilia-Romagna, che
occupano rispettivamente la seconda e terza posizione con 24,6 e 18,9 miliardi
di euro.
L’interscambio è
invece più distribuito nel caso dei Länder tedeschi, con valori più omogenei
tra i territori. A fare da traino in Germania sono il Baden-Württemberg, che
con 31,9 miliardi conferma la prima posizione registrata già nel 2022, la
Baviera (29 miliardi) e il Nordrhein-Westfalen (26,2 miliardi).
A livello
settoriale, si conferma il ruolo fondamentale dei settori da sempre al centro
dei rapporti italo-tedeschi. Troviamo al primo posto il chimico farmaceutico,
con 25,8 miliardi, seguito dall’automotive con 25,76 miliardi, dunque in
sostanziale parità; al terzo posto i macchinari con 22,33 miliardi, mentre la
siderurgia vale complessivamente 21,27 miliardi.
Osserviamo come
nel 2023 a crescere sia soprattutto l’automotive: + 14% nell’export e +17%
nell’import, trainato tuttavia a livello di volumi soprattutto dall’import
(+16%). Anche i macchinari registrano crescite considerevoli, del 7%
nell’export e del 11,6% nell’import, un aumento che ritroviamo anche nei
volumi, dove l’import cresce del 26,7%. Dinamiche più diversificate, invece,
per siderurgia e chimico-farmaceutico, dove i cali percentuali del valore non
rispecchiano i cali di volume, molto più contenuti.
"I dati
dimostrano la strutturalità dei rapporti italo-tedeschi pur nel contesto del
rallentamento tedesco", afferma la Presidente di AHK Italien, Monica
Poggio. "Stiamo attraversando una fase di rimodulazione dei nostri sistemi
produttivi e la priorità per Italia e Germania sarà portare a termine
trasformazioni decisive per coniugare sostenibilità, innovazione e
competitività. La prossima legislatura europea sarà quindi fondamentale per
rinforzare il mercato interno e proseguire sul percorso di transizione
ambientale e di integrazione produttiva europea e i nostri due Paesi possono
svolgere un ruolo determinante in questo processo". (aise/dip 20.3.)
Lucio Blandini, un’eccellenza italiana in Germania
Scorrendo il suo
curriculum, il catanese Lucio Blandini è un globetrotter dei tempi moderni.
Oggi più di ieri, chi vuole affermarsi in settori professionali e artistici di
alto profilo, ha bisogno di accumulare esperienze all’estero.
È il caso
dell’ingegnere Blandini, professore ordinario di Strutture Leggere
all’Università di Stoccarda ed esperto di facciate e architettura sostenibile.
Dopo gli studi di
Ingegneria Strutturale presso le Università di Catania e Bologna, il giovane
Lucio si trasferisce a Stoccarda dove nel 2002 consegue il dottorato su
Strutture a guscio in vetro, sviluppando e costruendo la “Volta di Stoccarda”
come prototipo in vetro.
Queste sue due
grandi capacità innovative lo portano all’Università di Filadelfia in
Pennsylvania e all’Architectural Association di Londra. Successivamente torna a
Stoccarda per affrontare le sfide di Project Manager presso la Werner Sobek AG,
azienda leader nel settore dell’ingegneria, design e sostenibilità che dà
lavoro a 400 dipendenti.
Tra i progetti più
importanti realizzati da Lucio Blandini spiccano il Museo Ferrari di Modena, le
facciate speciali della Japan Post Tower di Tokyo, l’Etihad Museum di Dubai, le
facciate a Cavi del Grand Egyptian Museum del Cairo, la Casa della Storia
Europea di Bruxelles, il Terminal 2 dell’Aeroporto Internazionale del Kuwait e
la Stazione Centrale di Stoccarda 21. Tutte queste importanti esperienze ed
interessanti sfide l’hanno fatto assurgere a Ordinario di Strutture Leggere
presso l’Università di Stoccarda che, in termini più semplici, il Prof. Dr.
Ing. M. Arch. Lucio Blandini ci spiega così:
“Significa che ho
la responsabilità accademica per questo settore. Dirigo un dipartimento con
oltre 40 persone e composto da altri due professori, tre ricercatori, molti
dottorandi e altro personale. Insieme definiamo le linee guida per la ricerca
scientifica e l’insegnamento. In questo modo riesco a spingere per rendere il
mondo delle costruzioni più sostenibile”.
Oggi si parla
sempre più dell’utilizzo di risorse naturali per incrementare la sostenibilità
ambientale nel settore delle facciate e strutture edili. In concreto, di che
cosa si tratta?
Il mondo delle
costruzioni è responsabile per oltre il 60% dell’utilizzo di materie prime, il
50% della produzione di “spazzatura” e il 50% delle emissioni nocive per il
clima. È necessario quindi trovare un equilibrio diverso attraverso una
trasformazione radicale dei processi costruttivi. Sostenibilità ambientale per
me significa ridurre drasticamente l’uso di materie prime non solo attraverso
l’uso di sistemi più leggeri, ma anche attraverso processi di riuso e
recycling. Significa anche prolungare l’utilizzo di strutture esistenti e
ridurre l’uso di processi e tecnologie ad alto impatto ambientale. La mia
visione mira a sviluppare degli approcci che possano dimezzare l’uso di materie
prime e la produzione di spazzatura in modo da azzerare le emissioni nocive per
il clima.
In che cosa
consistono le innovazioni?
Nel mondo della
ricerca ci occupiamo, tra le altre cose, di materiali simili al calcestruzzo,
dove grazie a dei batteri -totalmente innocui- possiamo in prospettiva azzerare
la produzione di C02 (il calcestruzzo è responsabile dell’8% della produzione
mondiale di anidride carbonica). Sviluppiamo dei metodi digitali di
progettazione e produzioni di componenti strutturali, che comportano un
dimezzamento nell’uso delle risorse naturali. Lavoriamo a dei sistemi di
strutture e facciate adattive che abbattono l’utilizzo di risorse e consentono
un incremento del comfort. Tra queste tecnologie per le facciate, ne cito una
ad esempio che consente di assorbire l’acqua piovana attraverso dei particolari
tessuti tridimensionali, così da ridurre notevolmente l’uso di acqua potabile.
In estate, inoltre, l’acqua raccolta può essere riutilizzata per rinfrescare
gli spazi urbani (abbiamo dimostrato che differenze di oltre 20°C sono
realizzabili). Questi sono alcuni esempi delle innovazioni a cui lavoriamo.
Quali sono i
progetti realizzati per i quali ti senti più orgoglioso e professionalmente
appagato?
Al di là dei
progetti di ricerca e dell’attività di didattica svolta negli ultimi anni con
studenti di Ingegneria e Architettura, sono orgoglioso dell’attività
professionale svolta a partire dal 2003. Ho realizzato strutture e facciate
innovative in quasi tutti i continenti. Tra questi, mi rendono particolarmente
fiero il Museo delle Ferrari a Modena, le facciate del Grand Egyptian Museum
che rivelano le piramidi di Giza, l’Etihad Museum che documenta la fondazione
degli Emirati Arabi, il nuovo aeroporto in Kuwait e le strutture per la
stazione ferroviaria “Stuttgart 21”.
Quali esperienze
professionali sei riuscito a fare in Italia prima di varcare le Alpi?
Ho fatto un po’ di
insegnamento all’Università, ma sono partito sei mesi dopo la laurea. La
pratica professionale in Italia è stata più “facile” una volta che mi ero
qualificato all’estero.
Perché hai scelto
di trasferirti in Germania, e proprio a Stoccarda?
A Stoccarda c’è
una tradizione unica al mondo nell’approccio interdisciplinare ai temi
dell’architettura e dell’ingegneria, che ha il suo culmine nel campo dei
sistemi leggeri. Sono partito da questa constatazione e ho fatto domanda per un
dottorato all’istituto che adesso dirigo.
Che cosa
rappresenta per te la Germania?
La Germania è
stata un’occasione unica di crescita professionale e umana. Ho imparato molto
dall’approccio tedesco alla precisione e dall’interesse per le tecnologie in
generale; ma è stato per me fondamentale il connubio tra questa dimensione e la
ricerca del bello, che è tipica della nostra cultura. Umanamente ho imparato a
mettere da parte tutto ciò che è superfluo per concentrarmi su ciò che merita
cura, attenzione e amore.
È stato difficile
convincere la tua famiglia a trasferirsi in terra sveva?
Ho lasciato la mia
famiglia di origine in Sicilia, ma ne ho creata una nuova a Stoccarda 18 anni
fa. Ed è stato per me fondamentale mantenere i legami con l’Italia e la sua
tradizione culturale. Ormai i miei due figli sono perfettamente bilingui e si
sentono parte di entrambe le comunità. È una grande occasione per loro, ma
anche un chiaro segno di integrazione.
Hai dei rimpianti?
E chi non ne ha?
Un percorso come il mio richiede anche parecchi sacrifici.
Qual è l’indice
d’integrazione anche sociale e culturale che hai raggiunto a Stoccarda?
L’integrazione è
oramai molto alta; ma non è sempre stata una passeggiata. Ho dovuto sudare per
conquistarmi ogni traguardo. Ma in Germania ho trovato sempre uno spazio per
dimostrare cosa ero in grado di fare.
Hai rapporti anche
con la nostra collettività che nella sola Stoccarda conta oltre 16mila
connazionali?
Ho avuto diversi
contatti in passato a titolo personale. Negli ultimi anni però si sono aggiunti
anche i contatti istituzionali. E sono stato ben contento di alcune iniziative
con il COM.IT.ES e con il Consolato.
C’è anche una tua
mano nel megaprogetto Stuttgart 21 ovvero nella realizzazione della Stazione
Centrale sotterranea?
Oltre 10 anni fa
mi sono occupato di sviluppare un nuovo sistema digitale di progettazione e di
calcolo per la realizzazione dei “calici” in calcestruzzo armato che sostengono
la Stazione Centrale. È un’incredibile emozione vedere adesso questi spazi
finalmente realizzati e coglierne l’atmosfera particolare. A mio avviso si può
considerare (in un contesto laico) una cattedrale dei nostri tempi.
Come mai questi
enormi ritardi nell’esecuzione dei lavori?
I motivi sono
molteplici: tra i vari aspetti vedo molti margini per ottimizzare in futuro i
processi di decisione e autorizzazione (ai vari livelli necessari).
Qual è la data più
realistica dell’inaugurazione?
Non sono più
coinvolto in questa fase, quindi non mi avventuro in prognostici… ma il più è
fatto.
In questo mondo
del lavoro e di esperienze senza confini, che posto occupa la tua terra natia?
Sono le mie
radici. Le decisioni più impegnative le ho sempre prese in silenzio davanti al
“mio” mare. Tony Màzzaro, CdI marzo
Giorgio Brignola: 47 anni di impegno per il Corriere d’Italia di
Francoforte
È con grande
emozione e profondo rispetto che vogliamo dedicare un momento speciale per
ringraziare Giorgio Brignola per la sua straordinaria dedizione e impegno nel
campo del giornalismo di emigrazione.
Dopo 47 anni di
ininterrotta collaborazione, Giorgio Brignola lascia il Corriere d’Italia con
un’eredità di professionalità e passione senza pari.
Caro Giorgio, da
oltre cinquant’anni hai dedicato la tua vita al giornalismo, con una
particolare attenzione al mondo dell’emigrazione italiana.
Da ben 47 anni hai
portato avanti il tuo servizio con il Corriere d’Italia, contribuendo in modo
significativo a fornire informazioni molto utili ai nostri connazionali
all’estero.
Quando ti chiedono
come sia nata questa tua passione, tu stesso la definisci „servizio“. Hai
sempre creduto che i nostri connazionali all’estero avessero il diritto di
ricevere un’informazione specifica e mirata, un diritto che hai cercato di
garantire con impegno e dedizione.
La tua rubrica
sociale, presente sul Corriere d’Italia dal 1977, è diventata un punto di
riferimento per molti italiani in Germania. È nata da una tua proposta all’EPI,
che la dirigenza ha accolto con entusiasmo, dando così inizio a un servizio che
ha arricchito la vita di tanti.
Le domande che hai
ricevuto dai lettori spaziano dall’ambito socio/previdenziale a quello politico
e personale.
Con pazienza e
professionalità hai sempre cercato di rispondere a ogni interrogativo, fornendo
informazioni precise e chiare rassicurazioni ai lettori.
Nonostante le
sfide e le difficoltà, hai continuato a svolgere il tuo lavoro con entusiasmo,
dimostrando sensibilità e rispetto nei confronti dei bisogni dei nostri
connazionali all’estero. Le istituzioni italiane, purtroppo, non sempre sono
sensibili a queste esigenze, ma tu hai saputo colmare questa lacuna con il tuo
impegno instancabile.
Le telefonate e le
lettere ricevute sono state numerose e talvolta anche pressanti, ma per te sono
state anche un segno di fiducia e riconoscimento da parte dei lettori.
Il tuo motto,
„Servire gli italiani, non servirsene”, rispecchia perfettamente la tua visione
del giornalismo e del tuo ruolo nella società. La tua lunga e illustre carriera
è stata caratterizzata da un impegno costante a favore della comunità italiana
nel mondo, senza mai perdere di vista l’importanza del servizio e della
solidarietà.
Caro Giorgio,
grazie di cuore per tutto quello che hai fatto e continui a fare per i nostri
connazionali all’estero. La tua eredità rimarrà sempre viva nei cuori di coloro
che hai toccato con il tuo lavoro e la tua generosità.
Ti auguriamo ogni
bene e tanta salute per il futuro, consapevoli che il tuo contributo resterà
indelebile nella storia del Corriere d’Italia.
Don Gregorio
Milone, editore del CdI, Licia Linardi, direttrice del CdI. (CdI marzo)
Giuseppe Assandri a Dortmund (il 28 aprile) ed a Bochum (il 29)
Dortmund - Il 28
aprile, alle ore 17, il zib Zentrum für Information Bildung di Dortmund
ospiterà una conversazione con Giuseppe Assandri, autore del libro “Berlino
1936 - La storia di Luz Long e Jesse Owens” (Editore San Paolo, 2023).
L’evento,
organizzato da Il Mitte | Quotidiano di Berlino per italofoni e dal Comites
Dortmund, sarà moderato da Lucia Conti, direttore de Il Mitte, con letture a
cura di Clelia Tollot. L’entrata sarà libera.
Due atleti, due
nazioni, un’amicizia contro ogni previsione e quelle Olimpiadi entrate nella
storia, nell’era più buia della Germania e dell’Europa. Aneddoti, curiosità,
informazioni poco note: la conversazione con Giuseppe Assandri sarà un viaggio
appassionante che porterà i presenti ad assistere alle Olimpiadi di Berlino del
1936 e alla vittoria dell’atleta afroamericano Jesse Owens, il “fulmine” nero
che, guadagnando ben quattro medaglie d’oro e segnando il record di 8.06 m. nel
salto in lungo, trionfò sulle tesi suprematiste della Germania nazista.
C’è di più, però.
C’è un’amicizia inaspettata, quella tra Jesse Owens e l’atleta tedesco Luz
Long, un’amicizia fatta di lealtà sportiva e di quello che gli uomini possono
darsi quando interagiscono al di fuori delle categorie dell’odio e del
pregiudizio.
Si parlerà,
dunque, delle luci di questo incontro storico, mentre già si addensavano
all’orizzonte le ombre dei terribili eventi che si sarebbero verificati a breve
in Europa, in tutto il loro orrore, e parleremo anche di come Owens, dopo le
Olimpiadi, tornò a fronteggiare un’altra vergogna, quella della segregazione
razziale negli Stati Uniti dell’epoca. La forza di quella vittoria e di quel
legame, però, restò per sempre nella memoria dei due atleti e del mondo.
L’indomani, lunedì
29 aprile, Giuseppe Assandri sarà ospite della Ruhr-Universität Bochum per un
incontro con gli studenti del seminario di romanistica di Irene Gallerani.
Questo secondo incontro è organizzato in collaborazione con Italienverein
Centro di promozione linguistico culturale.
Nato ad Acqui e
laureato in filosofia a Genova, Giuseppe Assandri ha lavorato come insegnante e
dirigente scolastico. In Germania, è stato addetto scolastico al Consolato
italiano di Dortmund e ha collaborato con l’Internationale Jugendibliothek di
Monaco di Baviera. Collabora come formatore con Ali – Associazione Literacy
Italia. Scrive da oltre vent’anni per il Pepeverde – letture e letterature per
ragazzi. Lavora come autore per Zanichelli Editore, con cui ha pubblicato varie
antologie per la scuola media, e con Sanoma Italia. Con San Paolo ha pubblicato
“La rosa bianca di Sophie” (2020, selezione “White Ravens” 2021) e “Berlino
1936, La storia di Luz Long e Jesse Owens” (2023).
(aise/dip 11)
Le recenti puntate di Cosmo italiano, x Radio Colonia
15.03.2024 I guai
del calcio tedesco e italiano alla vigilia degli Europei
Ha preso il via a
Francoforte il processo per evasione fiscale a carico di tre ex funzionari
della Federcalcio tedesca. Un procedimento che potrebbe far luce anche
sull'assegnazione dei Mondiali del 2006 proprio alla Germania. Agnese
Franceschini ci spiega i dettagli della vicenda. Con il giornalista sportivo
Riccardo Cucchi parliamo, invece, dei nuovi scandali nel calcio italiano, ma
facciamo anche il punto della situazione su previsioni e aspettative per gli
Europei di calcio che inizieranno tra meno di tre mesi proprio qui, in
Germania.
14.03.2024
Speciale: Stefano Cassetti, attore di film e serie tv
La passione di
Stefano Cassetti era il design, ma poi un casting fatto per caso e per curiosità
lo hanno trasformato nell’attore dagli occhi di ghiaccio che tutti conosciamo e
che lo rendono il cattivo perfetto o per lo meno il tragico outsider, come nel
film "Der Fall Collini", ma non solo. Vive e lavora tra Parigi,
Berlino e l’Italia e recita in più lingue per cinema, tv e per le principali
piattaforme di streaming. Ripercorriamo la sua storia con Agnese Franceschini,
e parliamo con lui della sua vita di attore tra tre paesi e dei ruoli che
interpreta.
13.03.2024 Tutti i
guai di Tesla in Germania.La Gigafactory di Tesla in Germania incontra
difficoltà e polemiche a non finire. Migliaia di nuovi posti di lavoro non
bastano per convincere cittadini e ambientalisti ad accettare l’ampliamento
della fabbrica. E un attentato terroristico ha alzato i toni della polemica,
diffondendo paura e insicurezza. Ma Elon Musk promette: “Nessuno ci fermerà!”
12.03.2024 L'AfD
vuole eliminare i corsi di lingua e cultura d’origine
Alternative für
Deutschland della Renania Palatinato ha proposto la cancellazione dei corsi di
lingua e cultura finora offerti ai bambini delle diverse comunità straniere in
Germania. Per AfD questi corsi sarebbero costosi e controproduttivi per
l'integrazione dei piccoli stranieri. Di come funzionino questi corsi, quali
obiettivi abbiano e di quanto siano diffusi in Germania ne parliamo con la
collega Agnese Franceschini. Mentre l'insegnante Marisa Varriale di Düsseldorf
ci racconta la sua esperienza e il politico SPD, Manuel Liguori, spiega perché
la proposta di AfD sia “semplicemente assurda”.
11.03.2024 Lo
scandalo delle intercettazioni militari in Germania
È polemica dopo la
diffusione da parte russa della intercettazione di un colloquio tra alti
ufficiali dell’esercito tedesco sul sostegno militare all’Ucraina, ce ne parla
Agnese Franceschini. Sul confronto NATO-Russia abbiamo sentito Francesca
Giovannini, esperta di geopolitica della Harvard Kennedy School.
08.03.2024
Parlando di femminismo, e tanto altro, con Paola Cortellesi
La regista e
attrice Paola Cortellesi sta presentando in Germania il suo film "C'è
ancora domani" che in Italia ha riscosso un enorme successo di critica e
di pubblico. Il film, ambientato nella Roma del 1946, parla di temi
attualissimi, come la violenza di genere, il patriarcato e la lotta per
l'emancipazione femminile. Francesco Marzano ha intervistato per noi Paola
Cortellesi. Ma nella Giornata Internazionale della donna facciamo anche il
punto sulla condizione femminile nel mondo del lavoro tedesco: numeri e dati
raccolti da Cristina Giordano.
07.03.2024 La
Calabria vista da lontano, e da chi torna
Terra di
emigrazione e immigrazione, e meta turistica che a fatica si fa conoscere in
Germania: oggi parliamo di Calabria con il cantautore Peppe Voltarelli, che sta
presentando in Germania il suo ultimo album e che da decenni esplora e canta il
mondo in musica all'insegna delle contaminazioni. Spesso in dialetto, con uno
sguardo alle sue radici. L'astrofisica Sandra Savaglio, invece, è tornata a
lavorare in Calabria dopo anni in Germania e negli Stati Uniti: qual è il suo
bilancio oggi?
06.03.2024 L'odio
in rete minaccia la democrazia? Una minoranza che nei social media alza la
voce, insulta e discrimina può spingere molte categorie a ritirarsi nel silenzio
e distorcere così il dibattito pubblico: lo sottolinea uno studio presentato di
recente in Germania sull'odio in rete. Ce ne parla Enzo Savignano. Il dibattito
nel mondo digitale è strettamente collegato a quello reale, sottolinea anche la
ministra della famiglia Lisa Paus (Grüne). E preoccupa il successo del partito
di estrema destra e populista AfD su TikTok.
05.03.2024 La
lunga latitanza dell'ex RAF Klette e i rapporti con l'Italia
Ha suscitato
enorme scalpore la cattura di Daniela Klette, l'ex terrorista della RAF
ricercata da oltre 30 anni. Mentre prosegue la caccia ai suoi complici, in
questo podcast proviamo a ricostruire la carriera criminale di Klette e la sua
latitanza con l'aiuto di Cristina Giordano. Mentre con il giornalista e storico
Giovanni Fasanella parliamo degli stretti rapporti intercorsi tra RAF e
Brigate rosse e ci chiediamo su che aiuti possano contare gli ex terroristi in
clandestinità.
04.03.2024 La
Germania legalizza la cannabis. A partire dal primo aprile dovrebbero entrare
in vigore una serie di misure che depenalizzano il consumo e la coltivazione
della cannabis sul suolo tedesco, tutti i dettagli da Cristina Giordano. Per
alcuni esponenti delle forze di polizia però, si tratta di una riforma che non
aiuta a combattere il mercato nero. L'intervista a Steffen Geyer della
federazione che riunisce i CSC (Cannabis Social Club) che saranno tra i primi a
chiedere il permesso di coltivare la cannabis a norma di legge.
Musica italiana
non stop Il nostro web channel COSMO Italia inoltre ti offre due ore di musica
non stop, che puoi ascoltare 24 ore su 24 sulla nostra pagina internet, sulla
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Cosmo/de.it.press
L’ambasciatore Varricchio alla Fiera del Libro di Lipsia
LIPSIA - Nella
giornata di ieri, 21 marzo, l’ambasciatore d’Italia in Germania, Armando
Varricchio, ha visitato la Fiera del Libro di Lipsia, che si svolge sino a
domenica, 24 marzo. Si tratta del primo grande appuntamento editoriale
dell’anno in Germania, che riunisce lettori, autori, editori e media.
L’Italia è
presente alla Fiera con uno stand e con un programma denso di appuntamenti,
proposto e curato dall’Istituto Italiano di Cultura di Berlino in
collaborazione con il Centro interdisciplinare di Cultura italiana (CiCi) e
l’Associazione Italiana Editori (AIE). Il programma fa parte di “Destinazione
Francoforte”, il percorso di attività legate alla partecipazione dell’Italia
come Ospite d’Onore alla Fiera del Libro di Francoforte 2024 il prossimo
ottobre.
L’ambasciatore
Varricchio ha visitato lo stand italiano, allestito con le novità editoriali in
italiano e in traduzione tedesca, e ha partecipato a due eventi curati
dall’Istituto Italiano di Cultura di Berlino: l’incontro con l’autrice Jana
Karšaiová, che ha presentato il suo romanzo d’esordio “Divorzio di velluto” con
la moderazione della giornalista Anna Vollmer e l’incontro, moderato dalla
giornalista e scrittrice Maike Albath, con il Premio Strega Domenico Starnone,
che ha condiviso la sua vita da autore e lettore appassionato. Identità,
radici, legami e lingua italiana al centro delle interessanti conversazioni.
Durante la Fiera
sarà inoltre reso omaggio ad autori ed opere italiane del Novecento: La pelle
di Curzio Malaparte, con Frank Heibert, traduttore della nuova versione in
uscita sul mercato tedesco, in dialogo con Maike Albath e il romanzo La Storia
di Elsa Morante, di cui ne ha parlato la scrittrice Nadia Terranova, come anche
del recente adattamento televisivo della co-sceneggiatrice Ilaria Macchia.
Infine, dedicata al mondo dei fumetti la Comic Night, alla quale parteciperanno
Paolo Bacilieri, Sergio Ponchione, Federico Cacciapaglia, moderati da Andreas
Platthaus, critico letterario della “Frankfurter Allgemeine Zeitung”.
A Lipsia
l’Istituto Italiano di Cultura di Berlino presenta infine Newitalianbooks, il
sito creato nel 2020 per promuovere la lingua, la cultura e le pubblicazioni
italiane nel mondo e ora disponibile anche nell’edizione in lingua tedesca
grazie al finanziamento del Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione
internazionale. (aise/dip 22.3.)
Visita a Memmingen del Console in Baviera dr. Maffettone
Memmingen. Il 15
Marzo scorso il Console Generale d’Italia in Baviera, Dr. Sergio Maffettone si
è recato in visita ufficiale a Memmingen.
Al suo arrivo il
Cav. Maffettone è stato accolto nel piazzale antistante il Municipio dal locale
Corrispondente Consolare, Comm. Antonino Tortorici – promotore
dell’incontro – e da alcuni connazionali, invitati per l'occasione, che gli
sono stati subito presentati. Quindi il Gruppo è stato ricevuto dal Primo
Borgomastro della città, Jan Rothenbacher.
Particolarmente
cordiale il clima dell'incontro. Dopo i saluti e le presentazioni dei
convenuti, il Primo Borgomastro ha ricordato i legami di amicizia che legano i
nostri due Paesi. Relazioni cementate da decenni di presenza italiana in
Germania, in Baviera in particolare. Parlando anche delle iniziative della
città in favore di una ragionevole integrazione tra le varie culture presenti e
citando a mo' di esempio la particolare laboriosità dei concittadini
italiani, tra cui spicca quella del Comm. Tortorici, attuale Presidente
Onorario nel Consiglio Consultivo degli Stranieri, per anni da lui presieduto,
e impegnato inoltre nell'Associazione Culturale Italo-tedesca, nel
Patronato INAS e in altre attività, come quella svolta nel Comitato del
Gemellaggio di Memmingen con Teramo.
Prendendo spunto
degli elogi espressi verso i nostri connazionali dal Primo Borgomastro, il
Console Generale ha parlato in particolare dell’attenzione dell’Amministrazione
Consolare – e sua in particolare – nei confronti degli Italiani presenti in
Germania e della sua soddisfazione per ciò che molti di essi hanno ottenuto con
il loro onesto lavoro, a fianco a fianco dei loro amici tedeschi. A questo
proposito ha citato anche lui Tortorici, che, oltre a esercitare la funzione di
Corrispondente Consolare per Memmingen e dintorni – come già detto da
Rothenbacher – svolge altri incarichi, a titolo onorifico, pur essendo da
anni in pensione. Meffettone non ha dimenticato, inoltre, di esprimere il suo
compiacimento nel constatare di persona le condizioni di serena convivenza tra
la popolazione locale e quella che, nel frattempo – di fatto – lo è diventata e
ha lodato oltre a ciò le misure promosse dall’Amministrazione Comunale della
città, atte a favorire, tra l’altro, il regolare svolgimento delle lezioni di
lingua e cultura italiana a Memmingen. Non dimenticando di formulare i suoi più
sentiti ringraziamenti per il fattivo apporto dell'Amministrazione per
l'istituzione di due seggi elettorali italiani, per favorire il voto dei
connazionali in occasione delle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo
del prossimo giugno.
Subito dopo il
Console Generale ha apposto la firma nel Libro d’Oro della città, seguito
dal Primo Borgomastro e da alcuni dei presenti, Quindi hanno avuto
luogo un brindisi augurale – di cui si è occupata l'Assistente,
Signora Sandra Manz – e uno scambio di omaggi e vicendevoli inviti.
Dopo di ciò il
gruppo, formato dal Console Generale, dal Corrispondente Tortorici e dagli
altri invitati, si è accomiatato dal Primo Borgomastro, non dimenticando di
posare subito dopo per una foto ricordo davanti al palazzo comunale.
Successivamente il
gruppo, tra cui: la Signora Alexandra Hartge, Responsabile dell'Europa Büro; la
Dr.ssa Erica Rustia, Assistente del Console Generale; l'Insegnante del Corso di
Italiano, Maria Pappalardo; il Signor Francesco Abate (Incaricato per AG Migration);
il Signor Cosimo Lazzoi, Collaboratore dei Tortorici; il Signor Vincenzo
Lo Medico e il Signor Mathias Fendrich, ha intrapreso un breve giro nella
bellissima zona pedonale della città. Tra i presenti inoltre: giunto
appositamente da Kempten, il Dr. Fernando A. Grasso, Corrispondente
Consolare per Kempten e dintorni, nonché Vicepresidente delle ACLI Baviera e
Membro della Presidenza delle ACLI Germania.
Alla fine della
passeggiata, piacevolmente interrotta nella nota gelateria Mister Eis di
Michele Valentini, che ha omaggiato il gruppo con ottimi espressi – che più
espresso non si può – il Comm. Tortorici ha condotto il Ministro e gli
invitati negli ambienti messi a disposizione del Consiglio degli Stranieri,
sede anche del suo ufficio di Corrispondente Consolare. E qui il gruppo – dopo
la firma da parte del Console Generale, da parte dei Corrispondenti Tortorici e
Grasso e degli altri presenti nell'albo dell'ufficio consolare – si
intrattenuto per qualche tempo, effettuando anche una telecomunicazione con la
sede consolare di Monaco, allo scopo di rispondere ad alcune domande d'ordine
tecnico amministrativo sorte nel gruppo.
Verso le 13:00,
infine, prima di accomiatarsi da Tortorici, da Grasso e dal gruppo il
Dr. Maffettone non ha mancato di dichiararsi piacevolmente
sorpreso dalla sistemazione dell’ufficio di Tortorici, una degna
Rappresentanza dell’Amministrazione Consolare, ha tenuto a commentare.
Fernando Grasso,
dip
Berlino. In Ambasciata una serata in onore di Giacomo Puccini
Berlino-
L’Ambasciata italiana a Berlino ha ospitato la scorsa settimana una serata
dedicata a Giacomo Puccini nell’ambito delle celebrazioni per il 100°
anniversario della sua morte. L’evento si inserisce nella serie di
manifestazioni ufficiali promosse dal Comitato nazionale per le celebrazioni
pucciniane, ente fondato nel 2022 e presieduto dal direttore d’orchestra
Alberto Veronesi. Proprio in questa occasione, il prossimo 31 marzo la Stagione
dei Concerti Popolari della Filarmonica di Berlino dedicherà a Puccini il
tradizionale Concerto di Pasqua nella Grande Sala della storica Filarmonica.
Dopo il saluto
dell’Ambasciatore Armando Varricchio sono intervenuti Mario Pardini, Sindaco di
Lucca e Presidente della Fondazione Giacomo Puccini, il Maestro Riccardo
Cecchetti, Direttore artistico del Festival Virtuoso & Belcanto, il Maestro
Alberto Veronesi del Comitato nazionale pucciniano e Helen Müller, Responsabile
degli affari culturali della multinazionale tedesca Bertelsmann. Müller nel suo
discorso ha presentato per la prima volta la mostra “Opera Meets New Media”,
curata da Archivio Ricordi.
A seguire, si è
tenuto un concerto in omaggio a Puccini a cura del Festival Virtuoso &
Belcanto di Lucca: si sono esibite Anna Cimmarusti e Rosa Vingiani, con
l’accompagnamento al pianoforte del Maestro Cecchetti e la voce narrante di
Debora Pioli. Altre protagoniste della serata sono state le terre del
compositore, in una mostra di pannelli curati dalla Camera di Commercio Toscana
Nord Ovest.
“Giacomo Puccini
fu un grande compositore profondamente influenzato dalla sua terra, che plasmò
il suo carattere e lasciò una traccia indelebile nella sua formazione
contribuendo a farne un personaggio influente nel panorama musicale e culturale
del suo tempo”, ha evidenziato l’Ambasciatore Varricchio nel suo discorso di
apertura. “Oggi celebriamo una personalità che s’identifica nel mondo con la
cultura italiana, con la sua capacità di innovare e al tempo stesso di
mantenere uno stretto rapporto con le proprie radici. Questa bella occasione
cade in un anno davvero speciale, che ha visto l’Italia protagonista durante la
Berlinale come country in focus dello European Film Market e che proseguirà
alla Fiera del libro di Francoforte 2024, alla quale saremo Paese Ospite
d’Onore. È un anno di grandi appuntamenti per l’Italia in Germania: la musica
di Giacomo Puccini ne costituisce una colonna sonora unica”. (aise/dip 19.3.)
A Monaco di Baviera il 26-28 aprile la sesta edizione de ILfest - Italienisches
Literaturfestival
Dal 26 al 28
aprile 2024 si terrà la sesta edizione de ILfest - Italienisches
Literaturfestival München, unico festival dedicato alla letteratura italiana in
Germania. Il festival è organizzato da Elisabetta Cavani di ItalLIBRI e
dall’Istituto Italiano di Cultura diretto da Giulia Sagliardi, con il
patrocinio del Consolato Generale d’Italia di Monaco di Baviera e con il
sostegno dell'Assessorato alla cultura della città di Monaco.
ILfest -
Italienisches Literaturfestival München si terrà al Neuhauser Trafo,
Nymphenburger Str.171 a, 80634 München, direttamente alla U-Bahn1
Rotkreuzplatz.
Programma 2024 -
‚L’umanità è un tirocinio‘
Il tema di
quest’anno è ispirato da una frase di Domenico Starnone, che nel suo ultimo
libro scrive: “Umani si diventa, l’umanità è un tirocinio di esito incerto. E
al tirocinio contribuisce non poco la letteratura con le sue oscillazioni tra
commento e
sgomento”. *
Vivere è un
continuo processo di definizione, di noi stessi e dell’altro da noi. Indagare
il nostro essere umani significa riflettere sulle relazioni tra noi e gli altri
– partner, genitori, figli, società, anche la natura. È nel confronto con le
diversità altrui
che scopriamo e rafforziamo la nostra individualità e impariamo a convivere con
i nostri lati oscuri e riconoscendoli negli altri. La letteratura ci permette
di entrare nella vita degli altri, di superare la separazione dall’altro
per rispondere
alla domanda: Chi sono io? Chi sono gli altri? Chi è l’Altro?
La risposta
dipende spesso da ciò che sperimentiamo nell’infanzia. L’amore può per eccesso
trasformarsi nel suo opposto, chiudendoci in relazioni claustrofobiche che ci
tolgono spazio, e sfociare in rifiuto, odio e perfino violenza, come purtroppo
vediamo troppo spesso.
La qualità delle
nostre relazioni in famiglia fa di noi adulti più indipendenti ed aperti o più
paurosi e chiusi. Che tipo di linguaggio usiamo o non usiamo trasmette il
nostro modo di essere umani. Tutto ciò si riflette nel rapporto che la
società ha verso
gli altri, il diverso, l’estraneo.
La lingua ha il
potere di creare realtà, la letteratura è lo strumento sia per capire il
proprio mondo che per conoscere l’Altro da noi. E in questo risiede il fascino
che la parola scritta esercita, sullo scrittore non meno che sul lettore.
(*Domenico
Starnone, L’umanità è un tirocinio, Einaudi 2023)
Oltre a Domenico
Starnone, saranno con noi a discuterne Laura Pigozzi, psicoterapeuta autrice di
Amori tossici, Troppa famiglia fa male, Adolescenza zero, Maddalena Vaglio
Tanet il cui romanzo Tornare dal bosco (Marsilio/ dt.
Suhrkamp in
autunno) è stato candidato al Premio Strega 2023, Gaia Manzini autrice di
Nessuna parola dice di noi (Bompiani) / Für uns gibt es keine Worte
(nonsoloverlag 2024), Nicolò Moscatelli che con I calcagnanti (La nave di
Teseo) ha vinto il
Premio Italo Calvino 2022, Carlo Lucarelli e Harald Gilbers, autori di gialli e
sceneggiature.
Un incontro sarà
dedicato a tre grandi scrittrici italiane del ‘900, Alba de Cespedes, Sibilla
Aleramo e Elsa Morante: con Maja Pflug, traduttrice, Julia Eisele, editrice e
Silvia Di Natale, scrittrice, approfondiremo i motivi per cui le loro opere
negli ultimi anni sono oggetto di riscoperta in Italia e ritraduzione in
tedesco.
Con il linguista
Giuseppe Antonelli si parlerà invece degli sviluppi dell’italiano digitale e
dell’intelligenza artificiale, così come con alcuni dei traduttori e
traduttrici letterari dall’italiano, sulle conseguenze di ciò sul lavoro di chi
traduce.
La Stadtbibliothek
Neuhausen contribuisce al programma con una lettura in italiano per bambini.
Gli eventi sono in
italiano con traduzione in tedesco.
Il programma in
dettaglio è sul sito del festival www.ilfest.de.
I biglietti sono
in vendita online su www.ilfest.de, al Neuhauser Trafo alla cassa nei giorni
del festival: Evento singolo € 10,-, studenti € 8,- solo alla cassa del festival
Biglietto giornaliero sabato, domenica 34,- €
Sponsor del
festival sono Air Dolomiti, CircoloCentoFiori, Lions Club München Mediterraneo,
Münchner Stadtbibliothek Neuhausen, Studio italiano. Media Partner Zeitsprachen
ADESSO. IlFest/dip 22.3.
Consolato di Francoforte: alcune iniziative di aprile
Il 12 aprile a
Darmstadt è stata aperta presso la Universitäts– und Landesbibliotek TU
Darmstadt (Magdalenenstraße 8 – 64289 Darmstadt) la mostra dal titolo
“Algoritmic you – Density Design”. La mostra rimarrà aperta fino al 24 giugno
2024 e prevede nel corso dei prossimi mesi, oltre all’esposizione, una serie di
performance degli artisti. Un’iniziativa inserita nel programma delle
manifestazioni realizzate per la Giornata del Made in Italy 2024.
Sono opere pensate
e realizzate da giovani studentesse e studenti del Politecnico di Milano
, dipartimento di Design della comunicazione, i quali hanno raccolto ed
analizzato momenti della loro vita presenti come dati digitali su piattaforme o
social media, esplorando successivamente il rapporto tra tecnologia , ricordi
personali e i dati che li registrano e progettando ‘infopoesie’ ovverosia una
nuova narrazione dei dati raccolti attraverso processi creativi che li rendono
artisticamente comprensibili e tangibili.
Si tratta di una
rappresentazione visiva delle informazioni digitali che sono stati poi tradotti
in prodotti quali: poster stampati, libri, siti web interattivi, video e
installazioni fisiche e performance.
Le domande che si
pongono questi giovani artisti sono: osservando e analizzando i nostri dati,
cosa possiamo capire del nostro rapporto con le piattaforme digitali e gli
algoritmi che le controllano? Ci si può riappropriare di queste informazioni
ripensandole artisticamente?
Ulteriori
appuntamenti ed informazioni in lingua tedesca legati alla mostra li trovate in
questa pagina: https://kultur-digitalstadt.de/projekte/profile/die-poesie-der-daten/algorithmicyou/
In collaborazione
con: Darmstadt Kultur einer Digital Stadt e.V ed il Politecnico di Milano
– Dip di Design (PoliMI). Con la collaborazione ed il Patrocinio del Consolato
Generale d’Italia a Francoforte.
Il 15 aprile a Bad
Soden, presso il cinema Casablanca, è stato proiettato il secondo film -
in originale, con sottotitoli in italiani - del ciclo dedicato a
Marcello Mastroianni, per il centenario della nascita, del regista Alessandro
Blasetti “Peccato che sia una canaglia“ (1954) in cui la non ancora
conosciuta ed affermata coppia Mastroianni-Sofia Loren (agli inizi delle
rispettive carriere) - affiancati e sostenuti dalla presenza da un divo del
cinema italiano degli anni ’50, Vittorio De Sica - si incontrano
per la prima volta sullo schermo e si cimentano in una commedia di
caratteri e da un ritmo agile e coinvolgente.
È la storia di un
tassista romano che si innamora di una bella ragazza, figlia di un ladro e
ladruncola pure lei in cui lui cerca di redimerla, ma invero lei gli farà fare
una serie di brutte figure prima che l’agognato e tormentato lieto fine si
compia.
#MetteteinAgenda:
venerdì 26 aprile, alle ore 19:00, presso la Deutsch - Italienische Vereinigung
di Francoforte (Arndtstr.12/FFM), ha luogo il secondo incontro di “Voci
italiane a….” interverrà il filosofo Pietro del Solda con il suo spettacolo dal
titolo: “Le parole della filosofia”.
Una lettura
scenica in lingua italiana in cui verranno proposte 5 voci filosofiche rilette,
rivisitate e collegate a vari temi di attualità ed accompagnate da intermezzi
musicali scelti ed eseguiti dalla pianista Marta Cametti. Per partecipare si
prega di inviare una mail a: francoforte.culturale@esteri.it. Un’iniziativa ad
ingresso libero organizzata in collaborazione con la DIV di Francoforte.
Maggiori
informazioni sui prossimi eventi li trovate qui: https://consfrancoforte.esteri.it/it/italia-e-germania/diplomazia-culturale/i-nostri-eventi-culturali/
De.it.press
Italia Altrove: compie 10 anni l’associazione a Düsseldorf
Düsseldorf. Compie
10 anni l’associazione Italia Altrove a Düsseldorf che festeggerà questo
importante traguardo il prossimo 26 aprile, dalle 19:00 alle 23:00, al Palais
Wittgenstein (Bilker Str. 7-9, Düsseldorf, 40213).
Aprirà la serata
un momento particolarmente significativo: una lettura con accompagnamento
musicale di alcuni brani tratti dal romanzo “Vivere altrove” di Marisa Fenoglio
(ultima edizione Rubbettino, 2019), interpretata dalla voce di Elena Zegna,
attrice teatrale e amica di Marisa, accompagnata da Ubaldo Rosso al flauto
traverso e Andrea Vigna-Taglianti al pianoforte.
A un decennio
dalla fondazione, l’evento del 26 aprile, sottolinea l’associazione, vuole
essere “un omaggio a Marisa Fenoglio, madrina onoraria di Italia Altrove,
purtroppo scomparsa nel novembre del 2021: donna tenace, gentile e colta nonché
scrittrice dallo stile elegante, ironico, realista e profondo, che con il suo
romanzo ha ispirato il nome dell’associazione”.
Seguirà un momento
conviviale, tanta bella musica e, ovviamente, una torta di compleanno.
Alla realizzazione
dell’evento hanno contribuito GI Group, come sponsor principale, il Consolato
Generale di Colonia, la Stadtsparkasse Düsseldorf e Marcegaglia. L’evento è
patrocinato dalla VDIG, (Vereinigung Deutsch-Italienischer Gesellschaften). I
diritti di “Vivere altrove” sono gentilmente concessi dalla casa editrice
Rubbettino Editore.
Per partecipare
all’incontro – a ingresso gratuito – è necessario prenotarsi qui. https://italia-altrove.org/duesseldorf/eventi/italia-altrove-festeggia-i-suoi-10-anni/
aise/dip
“Lingua Madre”, il 16 aprile all’Istituto di Cultura di Amburgo l’incontro
letterario italo-tedesco
Aamburgo –
L’Istituto Italiano di Cultura di Amburgo organizza per il 16 aprile alle ore
19 un incontro letterario italo-tedesco sul libro “Lingua Madre” (Italo Svevo,
2021) di Maddalena Fingerle, tradotto in tedesco nel 2022 dalla Casa editrice
Folio Verlag con il titolo “Muttersprache”. L’evento, che si terrà presso la
sede dell’IIC Amburgo, rientra nel ciclo mensile del “Caffè Letterario”:
l’incontro verterà questa volta sul libro di Maddalena Fingerle “Lingua Madre”.
La partecipazione è gratuita, ma è richiesta la registrazione tramite il
seguente link https://caffeletterario_april24.eventbrite.de/. Nel libro di
Maddalena Fingerle il protagonista, Paolo Prescher, odia le “parole sporche”,
quelle parole che secondo lui non dicono ciò che dovrebbero dire, e le persone
ipocrite che le pronunciano. Da qui l’idea di abbandonare l’italiano, il
desiderio di parlare una lingua incontaminata e la fuga a Berlino, dove
incontra Mira, l’unica che riesce finalmente a pulirgli le parole, tanto che
persino tornare a casa gli appare possibile. Si consuma così un’ossessione in
tre atti, in cui Maddalena Fingerle riflette sul valore delle parole e sul loro
potere e, attraverso uno stile fulmineo e raffinato, rivela il senso più
profondo del linguaggio. Il prossimo incontro del “Caffè letterario” si
svolgerà martedì 28 maggio 2024 alle ore 19. Il libro che verrà discusso sarà
scelto durante l’incontro di aprile e verrà comunicato tempestivamente tramite
il sito, la newsletter e i canali sociali dell’Istituto. Gli incontri del
“Caffè Letterario” sono dedicati agli appassionati di letteratura italiana e si
tengono in italiano e tedesco – generalmente una volta al mese – e danno la
possibilità a chi legge volentieri libri italiani di incontrarsi per discutere
su un libro letto a casa e scelto durante il precedente incontro, scambiarsi
opinioni, cercare nuove ispirazioni, decidendo insieme i prossimi libri da leggere
e discutere. Se siete quindi amanti dei libri e alla ricerca di una nuova
ispirazione oppure avete scoperto qualcosa che vi interesserebbe leggere e
volete parlarne insieme, allora non fatevi sfuggire le occasioni degli incontri
presso l’Istituto Italiano di Cultura di Amburgo. Maddalena Fingerle è nata a
Bolzano nel 1993. Ha studiato Italianistica e Germanistica presso la
Ludwig-Maximilian-Universität di Monaco di Baviera, dove si è laureata con il
tema “La vigilanza e l’allegoria” in Torquato Tasso e Giovan Battista Marino.
Attualmente lavora come assistente di ricerca presso il Centro di ricerca
collaborativo “Vigilance Cultures” diretto da Florian Mehltretter.
“Muttersprache” è il suo primo romanzo. Per il manoscritto del romanzo “Lingua
madre”, pubblicato nel 2020 ha ricevuto il prestigioso Premio Italo Calvino per
il miglior esordio inedito in Italia. Dopo la pubblicazione ha ottenuto
ulteriori riconoscimenti, come il Premio Giovanni Comisso under 35, il Premio
Flaiano under 35, il Premio Città di Girifalco, il Premio Fondazione Megamark,
il Premio POP e la menzione speciale della Giuria all’OrbetelloBookPrize.
“Muttersprache” è stato tradotto dall’italiano al tedesco da Maria E. Brunner.
(Inform/dip 4)
Spettacolo di artisti trentini a Kempten
Kempten. Molto
divertente e variegato lo spettacolo offerto da alcuni artisti
trentini, invitati a Kempten dalla Presidente del Circolo
dell'Amicizia delle città gemellate con la nostra città, Signora Petra Le
Méledo-Heinzelmann (incaricata per il Gemellaggio con Quiberon); che è stata
coadiuvata attivamente dall'incaricata per il Gemellaggio con Trento,
Signora M. Haase e dagli altri Membri della Presidenza: Signor P. Würzle
(incaricato per Bad-Dürkheim), Signora Michna-Aardeck (incaricata per Sligo), e
– non da ultimo – dal Signor L. Fischer, incaricato per il
Gemellaggio con Sopron.
Il simpatico
varietà si è svolto nella Casa Internazionale venerdì, 15 marzo scorso; e ha
avuto inizio - come da programma - alle 19:00, subito dopo un breve saluto
di benvenuto al numeroso pubblico da parte della Signora Le Méledo-Heinzelmann,
che ne ha approfittato per presentare il Circolo e le sue recenti attività.
Ha aperto lo
spettacolo con la sua fisarmonica Marco Tabilio con brani italiani e melodie
klezmer. È stata poi la volta del giocoliere Enrico Menotti, che ha
incantato il pubblico con le sue numerose performance; e così pure il Mago
Federico Zanin, che ha coinvolto alcuni dei presenti nei suoi numerosi giochi
di destrezza. Le esibizioni sono state interrotte da altri momenti musicali e
da alcune brevi presentazioni da parte di altri membri della Presidenza
del Circolo e da una pausa, che ha dato la possibilità agli intervenuti di
venire a diretto contatto con gli artisti, di incontrarsi con conoscenti, soci
e non e di fare nuove conoscenze.
Tra i presenti, e
qui ci scusiamo con le persone che non verranno nominate non conoscendo la
stragrande maggioranza degli intervenuti e non essendo stata presa nota
durante lo spettacolo: alcuni Consiglieri Comunali e Membri
dell'Amministrazione, tra cui la Signora G. Flaig, per tanti anni incaricata
per i Gemellaggi, l'attuale incaricato per i Gemellaggi, inoltre: la
Dr.ssa Rosanna Meo, seduta in prima fila accanto al Dr. Fernando A. Grasso,
anche lui Socio del Circolo, e che – addirittura – è stato coinvolto
personalmente dal Mago trentino durante una delle sue esibizioni.
Fernando A.
Grasso, Corrispondente Consolare (de.it.press 22.3.)
Istituto Italiano di Cultura di Amburgo: Giornate del Cinema Europeo
2024
Amburgo – Da
lunedì 8 aprile a lunedì 6 maggio si svolgeranno ad Amburgo le Giornate del
Cinema Europeo, una rassegna cinematografica organizzata dall’Associazione
EUNIC Amburgo, in collaborazione con il cinema 3001 di Amburgo e Creative
Europe MEDIA Hamburg (Regione Nord
https://creative-europe-desk.de/service/hamburg-region-nord). Ogni lunedì
dall’8 aprile al 6 maggio 2024 alle ore 19:00 presso la Sala cinematografica
3001-Kino di Amburgo verrà proiettato un film di un regista europeo. La
proiezione si terrà in lingua originale con sottotitoli in inglese. Il costo
del biglietto è di 11.00 €, scontato 8,00€. I soci dell’Istituto possono
acquistare il biglietto ridotto, mostrando una tessera socio valida. Le
informazioni su come acquistare i biglietti sono ricavabili sul sito web del
cinema 3001-kino.de
EUNIC Hamburg è
l’associazione degli istituti culturali europei che hanno sede nella città
anseatica e cioè l’Instituto Cervantes, l’Istituto Italiano di Cultura,
l’Institut français, l’Instituto Camões dell’Università di Amburgo, Facoltà di
Lettere e Filosofia, Istituto di Studi Romanzi e il Goethe-Institut. Insieme
questi Istituti organizzano da anni alcuni progetti culturali dallo sguardo
internazionale come ad esempio le Giornate del Cinema Europeo in collaborazione
con il Cinema 3001 di Amburgo e Creative Europe MEDIA. Alcuni dei film proposti
sono opere prime o film che non vengono presentati sul mercato internazionale a
causa del formato, del genere cinematografico o di altri fattori.
Il programma del
festival di quest’anno:
Lunedì 8 aprile,
ore 19.00, Creative Europe MEDIA presenta “Solitude” di Ninna Pálmadóttir del
2023. La storia di un anziano contadino che si trasferisce per la prima volta
in città e incontra un giovane fattorino, che consegna giornali a domicilio.
Lunedì 15 aprile,
ore 19.00, l’Instituto Cervantes presenta “Secaderos” di Rocío Mesa del 2022.
Una piccola città di campagna è il mondo dei sogni di una ragazza di città e la
prigione di una ragazza del posto. Due vite parallele che si svolgono tra i
capannoni per l’essiccazione del tabacco durante un’estate piena di magia e
realismo.
Lunedì 22 aprile,
ore 19.00, l’Institut français presenta: “La Grande Magie” di Noémie Lvovsky
del 2022, un libero adattamento della commedia italiana La grande magia di
Eduardo De Filippo. Nella Francia degli anni Venti, uno spettacolo di magia
intrattiene gli ospiti oziosi di un hotel sul mare. Marta (Judith Chemla), una
giovane donna disperata con un marito geloso, Charles (Denis Podalydès),
accetta l’invito del mago (Sergi López) a un numero di sparizione, in cambio
della sua scomparsa a vita. Il marito pretende il suo ritorno, ma il mago gli
dice che lei è nella scatola, che non deve aprirla o scomparirà per sempre, e
che deve avere fiducia in lei: Charles si sente davvero male…
Lunedì 29 aprile,
ore 19.00, l’Istituto Italiano di Cultura presenta: “Miss Marx” di Susanna
Nicchiarelli del 2020 sulla figura di Eleonor Marx, la colta e brillante figlia
minore di Karl Marx, che è stata in prima linea nel promuovere il socialismo
nel Regno Unito, partecipando alle lotte operaie, combattendo per i diritti
delle donne e l’abolizione del lavoro minorile. Nel 1883, conosce Edward
Aveling, talentuoso commediografo ma anche un uomo egoista e scialacquatore.
Mentre è intento a indebitarsi e a consumare vilmente l’eredità lasciata a
Eleanor da Friedrich Engels, Edward non si rende conto di consumare anche
l’intera esistenza della devota compagna, la quale, pur consapevole di
consumare vivendo quella stessa “oppressione morale” imposta dalla società
dell’epoca e da lei condannata, non è in grado di riscattare la propria
felicità, e, alla fine, neppure la propria vita. Nel 1898 infatti, dopo aver
scoperto che l’ormai malato in stadio terminale Edward Aveling aveva sposato
segretamente una giovane attrice con cui si era impegnato sentimentalmente,
persa ogni energia ed ormai dipendente da oppio Eleonor si toglie la vita.
Lunedì 6 maggio,
ore 19.00, l’Instituto Camões presenta: “Alma Viva” di Cristèle Alves Meira,
lungometraggio del 2023.
Nella regione di
Trás-os-Montes, nell’estremo nord-est del Portogallo, la gente crede nei miti e
negli spiriti. Alma Viva racconta della piccola Salomé, perseguitata dallo
spirito della nonna defunta. (Inform/dip 4)
Berlino: l’ex vice cancelliere Fischer in Ambasciata per parlare di Europa
Berlino - In
occasione della Conferenza “Europe 2024”, tenutasi a Berlino dal 19 al 20
marzo, l’Ambasciata d’Italia in Germania ha ospitato un evento organizzato in
collaborazione con le testate tedesche Die Zeit, Handelsblatt, Tagesspiegel e
WirtschaftsWoche e al quale ha partecipato, fra gli altri, l’ex vice
cancelliere e ministro degli Affari Esteri tedesco Joschka Fischer.
La Conferenza
“Europe 2024”, luogo di confronto e dialogo in cui esperti, leader e
professionisti di vari settori riflettono sul futuro dell’Europa alla luce
delle crisi e delle sfide attuali, si interroga in particolare su come l’Europa
possa emergere più forte dalle sfide economiche, ambientali e sociali che si
trova a dover fronteggiare.
L’iniziativa in
Ambasciata, introdotta dall’ambasciatore Armando Varricchio e da Rainer Esser,
amministratore delegato di Die Zeit, ha visto come ospite d’eccezione l’ex vice
cancelliere Fischer, intervistato dalla giornalista dello Zeit online Rieke
Havertz sul tema “Europe at the crossroad: developing a security architecture
for a new geopolitical framework”.
La serata ha visto
la partecipazione di numerosi rappresentanti istituzionali, esponenti dei
media, di imprese tedesche e multinazionali, di associazioni ed enti di
ricerca.
Nel suo indirizzo
di saluto, l’ambasciatore Armando Varricchio ha sottolineato l’importanza della
cooperazione tra Italia e Germania con l’obiettivo di un’Europa sempre più
forte e unita. “L’Europa deve aumentare la sua ambizione. Una sfida che sarà
ampiamente affrontata dalla Presidenza italiana del G7 quest’anno, già avviata
qui in Germania il mese scorso con la prima riunione dei Ministri degli Esteri
a margine della Conferenza sulla Sicurezza di Monaco”, ha detto Varricchio, che
non ha mancato di sottolineare l’importanza delle elezioni europee di
quest’anno, “un’occasione per ribadire i valori fondamentali della pace, della
democrazia e dello stato di diritto”. (aise/dip 21.3.)
L’Ambasciatore Varricchio alla Fiera del Libro di Lipsia
Berlino –
L’Ambasciatore d’Italia in Germania Armando Varricchio ha visitato la Fiera del
Libro di Lipsia, svoltasi dal 21 al 24 marzo. Si tratta del primo grande
appuntamento editoriale dell’anno in Germania, che riunisce lettori, autori,
editori e media.
L’Italia ha
partecipato alla Fiera con uno stand e con un programma denso di appuntamenti,
proposto e curato dall’Istituto Italiano di Cultura di Berlino in
collaborazione con il Centro interdisciplinare di Cultura italiana (CiCi) e
l’Associazione Italiana Editori (AIE). Un programma parte di “Destinazione
Francoforte”, il percorso di attività legate alla partecipazione dell’Italia
come Ospite d’Onore alla Fiera del Libro di Francoforte 2024 il prossimo ottobre.
L’Ambasciatore Varricchio ha visitato lo stand italiano, allestito con le
novità editoriali in italiano e in traduzione tedesca, e ha partecipato a due
eventi curati dall’Istituto Italiano di Cultura di Berlino: l’incontro con
l’autrice Jana Karšaiová, che ha presentato il suo romanzo d’esordio “Divorzio
di velluto” con la moderazione della giornalista Anna Vollmer e l’incontro,
moderato dalla giornalista e scrittrice Maike Albath, con il Premio Strega
Domenico Starnone, che ha condiviso la sua vita da autore e lettore
appassionato. Identità, radici, legami e lingua italiana al centro delle
interessanti conversazioni. Durante la Fiera, è stato inoltre reso omaggio ad
autori ed opere italiane del Novecento: La pelle di Curzio Malaparte, con Frank
Heibert, traduttore della nuova versione in uscita sul mercato tedesco, in
dialogo con Maike Albath e il romanzo La Storia di Elsa Morante, di cui ha
parlato la scrittrice Nadia Terranova, come anche del recente adattamento
televisivo della co-sceneggiatrice Ilaria Macchia. Infine, dedicata al mondo
dei fumetti la Comic Night, alla quale hanno partecipato Paolo Bacilieri,
Sergio Ponchione, Federico Cacciapaglia, moderati da Andreas Platthaus, critico
letterario della “Frankfurter Allgemeine Zeitung”.
A Lipsia
l’Istituto Italiano di Cultura di Berlino ha presentato inoltre
Newitalianbooks, il sito creato nel 2020 per promuovere la lingua, la cultura e
le pubblicazioni italiane nel mondo e ora disponibile anche nell’edizione in
lingua tedesca grazie al finanziamento del Ministero degli Affari esteri e
della Cooperazione internazionale. (Inform/dip 25.3.)
Brevi di politica e di cronaca tedesca
La Germania
discute sulla propria capacità difensiva
Oggi le forze
armate tedesche non sarebbero all’altezza di far fronte a un attacco della
Russia all’Europa occidentale. I principali partiti democratici concordano sul
fatto che, di fronte alle minacce sempre più aggressive del dittatore russo
Putin di attaccare la NATO sul suo territorio e di annettere gli Stati baltici,
è necessario procedere con la massima urgenza. ma nonostante un fondo speciale
di 100 miliardi di euro per il riarmo delle forze armate tedesche (quasi
completamente esaurito) continuano a mancare attrezzature, idoneità al
combattimento, efficienza delle strutture, munizioni e personale.
Il ministro della
Difesa Boris Pistorius (SPD) nell’annunciare la sua riforma ha intenzione di
rafforzare la capacità di difesa dei militari con un comando operativo
unificato. Inoltre, “le forze armate tedesche verranno riorganizzate sulla base
di quattro sezioni facenti capo a un comando di supporto congiunto”, ha
dichiarato il politico dell’SPD durante la presentazione della riforma. Oltre
all’Esercito, all’Aeronautica e alla Marina, ora nelle quattro sezioni di arma
figurerà anche la truppa per lo spazio cibernetico e informatico (CIR),
specializzata in combattimento elettronico e operazioni cibernetiche,
ricognizione e protezione dell’infrastruttura elettronica. Pistorius ha
sottolineato: “La situazione di minaccia in Europa si è aggravata. Ci
prepariamo ad affrontare le sfide conseguenti. Ciò significa riformare le
nostre forze armate in modo che possano posizionarsi nel migliore dei modi,
soprattutto in caso di difesa. Deve essere chiaro a tutti: difendiamo il nostro
Paese e i nostri alleati. Nessuno deve avere anche solo l’idea di attaccarci.”
Nel novembre 2023,
il ministro Pistorius aveva già annunciato “l’idoneità alla guerra come massima
di azione”. Un altro grande cantiere in costruzione riguarda la mancanza di
personale della Bundeswehr, le forze armate tedesche, per cui ci si sta
interrogando se la Germania possa introdurre un obbligo generale di servizio di
leva dopo la sospensione del servizio militare obbligatorio. Il governo sta
esaminando dei modelli, e per orientarsi sta osservando ciò che è stato fatto
nella pratica nei Paesi scandinavi.
Tuttavia, il
Cancelliere Scholz rifiuta l’idea di un servizio militare obbligatorio come
negli anni precedenti. La campagna di reclutamento delle forze armate tedesche
non ha fatto progressi dall’invasione russa dell’Ucraina, al contrario: il
numero di soldati tedeschi è sceso a quota 181.500. I partiti di opposizione
CDU e CSU hanno espresso forti critiche, dichiarando che il problema della
“forza lavoro” nelle forze armate tedesche continua a trascinarsi senza sosta.
Nel frattempo, la Germania ha iniziato a trasferire una brigata di
combattimento in Lituania per sorvegliare, nell’ambito della NATO, il “Corridoio
di Suwalki”, l’asse di collegamento nevralgico che dalla Bielorussia porta
all’enclave russa di Kaliningrad. L’Occidente teme che qui nel giro di poco
tempo possa verificarsi un conflitto militare con Mosca.
Il governo
semaforo continua a perdere consenso
Le continue
dispute tra i partner della coalizione semaforo, il declino dell’economia
tedesca, l’eccesso di spesa pubblica e la creazione di una sempre nuova
burocrazia legata alla politica climatica portano tre quarti dei cittadini
(78%) a non essere soddisfatti della coalizione semaforo composta da SPD,
Liberali e Verdi. La maggior parte dei tedeschi valuta positivamente solo
l’operato del ministro della Difesa dell’SPD Boris Pistorius.
Se domenica in
Germania si svolgessero le elezioni federali, i Socialdemocratici del
Cancelliere Olaf Scholz raggiungerebbero solo il 15%, con un calo di circa il
10% rispetto alle elezioni parlamentari del 2021. La CDU/CSU rimarrebbero i
partiti più forti con il 30% delle preferenze. I Verdi sono alla pari con l’SPD,
attestandosi quindi al 15%, l’FDP arriverebbe solo al 4% e quindi non sarebbe
più rappresentato in Parlamento a causa della clausola di sbarramento al 5%.
L’AfD incassa qualche perdita attestandosi al 18%, ma resterebbe comunque il
secondo partito più forte. La Sinistra arriverebbe al 3% e quindi, come anche
l’associazione comunale dei Freie Wähler “Liberi elettori” (3%), si troverebbe
al di sotto della soglia del mandato. Il nuovo partito dell’ex Presidente del
partito della Sinistra, Sahra Wagenknecht, si troverebbe al momento al 5%. La
CDU e la CSU potrebbero quindi scegliersi il loro partner di coalizione per
governare. In termini di mandati, il leader della CDU Friedrich Merz sarebbe
presumibilmente il nuovo Cancelliere.
Criminalità in
netto aumento in Germania
Basta uno sguardo
alle statistiche sulla criminalità del 2023 per osservare come la migrazione
resti un tema che fa il gioco dei populisti di estrema destra. Con circa
215.000 casi, il numero di crimini violenti ha raggiunto il livello più alto
degli ultimi 15 anni. Le cifre del ministero dell’Interno mostrano un forte
aumento dei casi soprattutto tra i criminali non tedeschi. A colpire è il
numero di giovani criminali stranieri: il dato è aumentato del 31,4%, per un
aumento complessivo di 16.674 criminali in questo gruppo. Al confronto, il
numero di giovani tedeschi è aumentato solo di un punto percentuale, pari a
1326 persone. Il numero di reati commessi in Germania lo scorso anno è
aumentato complessivamente del 5,5%, arrivando a 5,94 milioni.
Nel frattempo,
dopo lunghe discussioni, il governo ha concordato una base giuridica comune per
la nuova “carta di pagamento per i rifugiati”, pronta a essere introdotta in
tutta la Germania, per cui in futuro i richiedenti asilo non riceveranno più
denaro contante. Il governo aveva già deliberato la relativa modifica
legislativa a marzo su pressione dei Länder. Alcune regioni si sono già portate
avanti col lavoro e hanno nel frattempo introdotto la carta di pagamento.
Gli automobilisti
tedeschi voltano le spalle al motore elettrico
Secondo i piani
del governo, approvati sulla scia della “svolta energetica” verde, saranno 15
milioni le auto elettriche in circolazione in Germania entro il 2030. Tuttavia,
il numero di auto elettriche di nuova immatricolazione in Germania è in
costante calo da mesi. Le ultime statistiche, a marzo dicono che sono state
immatricolate solo circa 31.000 nuove auto a batteria. Quasi il 29% in meno
rispetto a marzo dell’anno precedente.
Considerando anche
il 2024, per raggiungere la quota che il governo si è prefissato occorrerebbero
quindi quasi due milioni di veicoli nuovi all’anno, ovvero 162.000 al mese. Gli
esperti sono pertanto scettici sul fatto che tale obiettivo possa essere
raggiunto. Le previsioni nel settore automobilistico indicano che nel migliore
dei casi si raggiungeranno le vendite dell’anno precedente. Intanto i
produttori sono pronti a riconsiderare i loro investimenti nella mobilità
elettrica e a tornare a investire più denaro nei motori a combustione.
I vescovi tedeschi
approvano il documento del Vaticano
Il documento
vaticano “Dignitas infinita” è stato accolto positivamente in Germania.
“Considerando il fatto che viviamo in un mondo in cui la dignità umana viene
quotidianamente disprezzata, minata, erosa e relativizzata in molti modi, è
estremamente apprezzabile che il Dicastero per la Dottrina della Fede insista
sull’inalienabile, inviolabile e illimitata dignità dell’uomo”, ha dichiarato
il Presidente della Conferenza episcopale tedesca, il vescovo Georg Bätzing,
che ha inoltre sottolineato: “Con un linguaggio e un ragionamento oggettivi e
adeguati, il testo offre un incoraggiamento per tutti coloro che si impegnano a
favore del rispetto della dignità umana e dei diritti umani fondamentali che ne
derivano”.
Nel suo complesso,
la dichiarazione è inoltre caratterizzata da una linea di pensiero molto
coerente, che fa derivare le considerazioni etiche e le linee guida per
l’azione dal concetto di base della dignità umana, senza scadere sempre nel
moralismo. “Questo riferimento coerente alla dignità umana non porterà
automaticamente al fatto che le affermazioni dottrinali della Chiesa
riceveranno un consenso unanime da parte di tutti e in tutte le società del
mondo, ma rafforza certamente la capacità di creare connessioni e la
discorsività degli argomenti presentati”, ha sottolineato il vescovo di
Limburgo.
I cattolici
piangono “l’abate rock”
Padre Notker Wolf,
ex abate primate dei benedettini di tutto il mondo, è scomparso all’età di 83
anni durante il viaggio di ritorno dall’Italia al suo monastero di origine
tedesco nei pressi di Monaco di Baviera. La morte improvvisa del religioso,
noto anche per i numerosi libri, i talk show e la sua predilezione per la
musica rock, ha provocato forte sgomento nella sua Baviera. Dopo l’ingresso
nell’ordine benedettino, Wolf studiò prima al Pontificio Ateneo di Sant’Anselmo
a Roma, poi alla Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco. Ordinato sacerdote
nel 1968, nel 1977 fu eletto arciabate del centro missionario di St. Ottilien
presso Monaco di Baviera, divenendo quindi responsabile dei benedettini
missionari attivi in tutto il mondo. Nel 2000, divenne abate primate della
Confederazione benedettina, con sede sul colle Aventino, da cui ha diretto per
16 intensi anni circa 130.000 benedettini e impiegati in tutto il mondo. La sua
passione è stata suonare la chitarra elettrica nella sua rock band, diventando
famoso come “monaco rock” grazie a concerti e registrazioni CD.
Luoghi in
Germania: Cottbus
Una fonte di
riscaldamento comune per tutta la città? Sarà infatti una pompa di acqua
lacustre a rappresentare la svolta energetica nella vecchia roccaforte
carbonifera di Cottbus (Land Brandeburgo) e a rifornire in futuro oltre 30.000
abitazioni. Questi sono i piani che l’amministrazione comunale ha sviluppato in
collaborazione con il rinomato Istituto Fraunhofer per la fisica. L’ambizioso
progetto diventerebbe la più grande pompa di calore della Germania, per cui
almeno il 40% del teleriscaldamento verrebbe fornito tramite questa tecnologia.
A oggi circa la
metà dei 100.000 abitanti di Cottbus dipende dalla rete di teleriscaldamento urbana,
che finora acquisisce il suo calore da una vicina centrale a carbone, pronta a
essere dismessa nel 2028 per le decisioni legate alla politica climatica,
motivo per cui si rende necessaria una soluzione alternativa. Il Cottbusser
Ostsee, il più grande specchio d’acqua artificiale della Germania che sorgerà
su un’ex area mineraria a cielo aperto, è quindi destinato a diventare
un’ancora di salvezza per il clima e l’energia. Cottbus è il capoluogo della
Bassa Sorba. Le lingue ufficiali della città sono il tedesco e il sorabo.
La pseudo-vittoria
di Putin accolta con indifferenza in Germania
Le elezioni farsa
in Russia con la prevedibile rielezione di Putin a sovrano assoluto sono state
accolte con fredda indifferenza in Germania. Non sono quindi stati inviati gli
auguri ufficiali di buon governo e il Presidente dello Stato Frank-Walter
Steinmeier che non invierà alcuna lettera a Putin ha invece dichiarato in una
nota sui social media: “Oggi penso alle persone in Russia che lottano per la
libertà e la democrazia e che vivono in costante pericolo davanti agli occhi
del regime di Putin. Non dimentichiamo queste persone coraggiose”. Il ministero
degli Esteri ha adottato una formula simile aggiungendo: “Le pseudo-elezioni in
Russia non sono né libere né eque, il risultato non sorprende nessuno”.
Il Cancelliere
Olaf Scholz (SPD) ha dichiarato in un discorso al Consiglio europeo di
Bruxelles: “La Russia non è così forte come ora si pensa”. Dal punto di vista
militare, la guerra di Putin in Ucraina è “brutale”, tuttavia, dal punto di
vista della politica interna il regime repressivo del Cremlino inizia a
mostrare segni di debolezza e di paura per il mantenimento del proprio potere.
Per questo motivo è ancora più importante che l’Unione Europea sostenga
l’Ucraina contro la Russia con compattezza e perseveranza, questo l’appello di
Scholz. “Se il Presidente russo crede di dover solo attendere che questa guerra
faccia il suo corso e che il nostro sostegno finirà per indebolirsi, allora ha
sbagliato a fare i conti”.
L’ex Cancelliere
Schröder mette in imbarazzo l’SPD
L’ex Cancelliere
Gerhard Schröder è al centro delle polemiche dei partiti di opposizione CDU/CSU
per il suo appoggio a Olaf Scholz contro la fornitura di missili Taurus
all’Ucraina. Il membro dell’Ufficio di Presidenza della CDU Jens Spahn ha
criticato Schröder: “Chi vanta sostenitori, come l’ex Cancelliere e amico di
Putin Schröder, in realtà, non ha più bisogno di avversari politici”. Il leader
della CSU Markus Söder ha esortato Scholz a un cambio urgente di linea: “Essere
elogiato e ‘conquistato’ da Gerhard Schröder dimostra chiaramente che si è
sulla strada sbagliata. Al suo posto mi chiederei con urgenza se sto facendo la
cosa giusta per quanto riguarda la questione missili Taurus”. Julia Klöckner
(CDU) ha inoltre aggiunto: “Abbiamo visto più volte che l’ex Cancelliere
Schröder non ha motivazioni credibili né ha mai preso distanza dalla Russia.
Dopo tutto, viene anche pagato bene da loro”.
Schröder è amico
di Putin sin dal suo Cancellierato del 1998-2005 e continua a lavorare per le
società, a maggioranza russa, dei gasdotti Nord Stream che attraversano il Mar
Baltico. Ha dichiarato che l’attacco russo all’Ucraina è stato un errore, ma la
sua amicizia con il capo del Cremlino non è mai venuta meno.
L’SPD discute sul
“congelamento” della guerra in Ucraina
Le dichiarazioni
del Presidente del gruppo parlamentare dell’SPD Rolf Mützenich sul congelamento
della guerra in Ucraina stanno agitando la politica tedesca. Il ministro della
Difesa Boris Pistorius (anch’egli SPD) ha preso le distanze dal suo alleato di
partito affermando che “ciò alla fine aiuterebbe solo Putin”. Il ministro ha
ribadito che non ci deve essere una pace imposta coi Diktat, né un cessate il
fuoco o un congelamento, condizioni queste che finirebbero solo per rafforzare
Putin e che gli consentirebbero di continuare il conflitto quando vuole. Anche
il Presidente della CDU Friedrich Merz ha espresso il suo biasimo alle
dichiarazioni del capogruppo dell’SPD: “La volontà di pace può provocare il contrario
della pace. Un criminale di guerra così spietato non può essere affrontato con
vigliaccheria, ma solo con lucidità e determinazione”. Germania e Polonia sono
intanto pronte a collaborare per aumentare la produzione di munizioni per
l’Ucraina: è quanto concordato dal ministro Pistorius e dal suo omologo polacco
Wladyslaw Kosiniak-Kamysz ad un incontro a Varsavia. Sostenere l’esercito
ucraino nella guerra contro le truppe di invasione russe non significa solo
fornire tali munizioni, che comunque “pur si trovano da qualche parte”, ma ciò
che invece è maggiormente necessario è provvedere anche a un aumento della
produzione in Germania, Polonia e in altri Paesi. Berlino e Varsavia hanno
quindi intenzione di lavorare con l’industria bellica di entrambi i Paesi, ha
spiegato Pistorius.
Inoltre, la
Germania ha annunciato che nel giro di poco tempo consegnerà nello specifico
10.000 proiettili di artiglieria provenienti dalle scorte delle forze armate
tedesche, 100 veicoli blindati per la fanteria e 100 veicoli da trasporto. Il
valore del pacchetto complessivo ammonta a circa 500 milioni di euro, e con ciò
per quest’anno l’assistenza militare a Kiev copre già un importo pari a sette
miliardi di euro.
Debito pubblico
tedesco “pericoloso” secondo gli esperti
Secondo gli
esperti del ministero delle finanze la combinazione di debolezza della
congiuntura economica e il progressivo invecchiamento della popolazione
potrebbe portare il debito pubblico tedesco entro il 2070 fino a raggiungere il
345% del prodotto interno lordo, come si apprende dall’ultimo rapporto
presentato dal ministro delle Finanze Christian Lindner (FDP). Un aumento del
genere è quindi prevedibile “in uno scenario sfavorevole”, si legge nel
documento del ministero, mentre in uno “scenario favorevole” il debito pubblico
potrebbe aumentare dall’attuale 64% al 140% del prodotto interno lordo, valore
questo che sarebbe superiore al debito corrente dell’Italia. Il ministro
Lindner ha valutato i risultati come “un appello alla politica per avviare
riforme strutturali in tutti i settori d’importanza per la politica”.
L’attuale
strutturazione dell’assicurazione pensionistica, sanitaria e per la non
autosufficienza “nella sua forma attuale non è finanziabile sul lungo termine”.
Il ministro ha esortato quindi i partner della coalizione di governo a una
pronta volontà riformistica: “Il report mostra che senza una forte crescita
economica, il florido stato sociale non sarà più finanziabile in futuro”.
Le pensioni della
Germania est e ovest si equivalgono per la prima volta
A partire dal 1°
luglio 2024 le pensioni aumenteranno del 4,57% in Germania. Pertanto,
l’adeguamento delle pensioni per il terzo anno consecutivo sarà superiore al
4%, come annunciato dal Ministero degli Affari Sociali. Tale adeguamento in
Germania viene stabilito una volta all’anno tenendo conto di diversi fattori
economici. Il livello pensionistico attuale è fissato per legge al 48% di un
salario medio.
Secondo i dati del
ministero, senza questo limite minimo l’aggiornamento di quest’anno sarebbe
risultato leggermente inferiore. Inoltre, l’aumento di quest’anno è nettamente
superiore al tasso di inflazione e per la prima volta sarà uniforme a livello
federale, ha spiegato il ministro degli Affari sociali Hubertus Heil (SPD),
sottolineando come tale uniformità per la prima volta a 34 anni
dall’unificazione tedesca rappresenti una pietra miliare per la nazione: “In
termini pensionistici, ora il lavoro nell’ovest e nell’est del Paese vale allo
stesso modo”. L’anno scorso, il valore delle pensioni nei Länder della Germania
orientale (cioè l’ex “DDR”) aveva raggiunto il valore dei Länder della Germania
occidentale.
Il Cardinale Marx
definisce il patriarca di Mosca Kirill guerrafondaio
L’arcivescovo di
Monaco e Frisinga Reinhard Marx, alla cerimonia di consegna del premio Julius
Itzel ad Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ha
denunciato una “ricaduta della storia mondiale ai tempi della guerra, della
violenza e del terrore”, lasciando trapelare tutto il suo profondo sconcerto:
“Noi cristiani, tuttavia, non faremo mai venire meno la speranza e non ci
rassegneremo”, ha sottolineato il cardinale Marx, che ha precisato come nel
dialogo interreligioso oltre a ciò che unisce è importante esaminare anche ciò
che separa gli uni dagli altri: “Se non parliamo onestamente di questo, non
andremo avanti né nel dibattito interreligioso né in quello politico”, per cui
non ha risparmiato parole forti contro “i guerrafondai in nome della fede
cristiana come il patriarca Kirill”.
Il cardinale Marx,
confidente di Papa Francesco, ha chiesto inoltre un maggiore impegno nella
società, la quale “non avrà futuro se le persone fanno solo ciò che sono
legalmente obbligate a fare. Ciò che ci fa vivere è fare di più, in famiglia,
nella comunità, nella cultura, nella convivenza, nel rivolgerci verso il
prossimo. La lotta per la democrazia, la libertà e la responsabilità è in pieno
corso. (…) Il fulcro della questione è anche chiedersi quale sia la base della
convivenza umana”.
Luoghi in
Germania: Pasqua in Alta Lusazia
Nella Germania
orientale, al confine con la Polonia, c’è un piccolo gruppo etnico che mantiene
da molti secoli la sua specificità culturale: sono i Sorbi cattolici che
abitano nell’Oberlausitz, Alta Lusazia, un territorio collinare verdeggiante
situato nel triangolo di confine posto tra Land di Sassonia, Repubblica Ceca e
Polonia. Una loro particolare tradizione sono i “cavalieri pasquali”
(Osterreiter), i quali la domenica di Pasqua portano in alto a cavallo alla
comunità il messaggio della resurrezione di Cristo, sfilando in processioni dai
colori sgargianti. Anche ai tempi della dittatura della DDR quest’antica
tradizione non subì modifiche.
Durante la
cosiddetta “cavalcata di benedizione” si possono ammirare paramenti
ecclesiastici, raffigurazioni della resurrezione e portatori di croce, mentre i
cavalieri pasquali indossano frac, cilindro e, intonando inni pasquali,
chiedono la benedizione per il Paese. Vi è anche un grande crocifisso con stola
bianca che simboleggia il messaggio della vittoria di Gesù sulla morte. Il modo
migliore per raggiungere l’Alta Lusazia è partire da Dresda, situata a circa 50
chilometri a ovest. Kas 11
Visioni Sarde all’Istituto Italiano di Cultura di Colonia il 17 e il 18
aprile
Colonia – Doppio
appuntamento in Germania per Visioni Sarde. L’Istituto Italiano di Cultura di
Colonia proietterà la rassegna il 17 e il 18 aprile presso il proprio
Teatro. Le due serate si inseriscono nel fitto programma di incontri culturali,
concerti musicali, laboratori di lettura creativa, workshop didattico, gruppi
di lettura, conferenze storiche, performance di danza, offerti
dall’Istituto nel solo mese di aprile per diffondere la cultura italiana in
Germania. L’Istituto Italiano di Cultura di Colonia svolge
quest’impegnativa e meritoria attività di promozione culturale dal 1954 nella
Renania Settentrionale-Vestfalia. Dal 2014 ha allargato l’area di competenza
all’Assia.
È un vero e
proprio angolo d’Italia a Colonia!
Dal 2021
l’Istituto Italiano di Cultura è diretto da Jolanda Lamberti.
Di seguito il
programma completo delle due serate dedicate al giovane cinema sardo.
Mercoledì 17
aprile ore 19.00
“Giù cun Giuali”
di Michela Anedda. Due cugini sono diversissimi tra loro: uno è pulito e
ordinato, l’altro è sporco e irriverente. I due, giocando, trovano un modo per
andare oltre le apparenze.
“Incappucciati,
Foschi” di Nicola Camoglio. Una coppia viene a contatto con una banda di
rapitori, sperimentando sulla propria pelle la realtà degli anni 70 in
Sardegna.
“La punizione del
prete” di Francesco Tomba e Chiara Tesser. Un avido prete e un
astuto cieco avviano una lunga trattativa che porterà la furbizia di uno a
prevalere sull’avarizia dell’altro.
“Ti aspetto qui”
di Gabriele Brundu. Un bambino di 9 anni si ritrova a dover ristabilire un
equilibrio nella sua vita dopo un evento sconvolgente che mette a dura prova il
suo spirito gioviale.
“Dalia” di Joe
Juanne Piras. Thriller drammatico che racconta di una psicologa infantile alle prese
con un caso molto delicato e complesso. Smarrimento e ossessioni si avvicendano
fino a confondersi.
Giovedì 18 aprile
ore 19.00
“Ranas” di Daniele
Arca. Due amici affrontano alcune sfide che metteranno a dura prova il loro
coraggio, la loro concezione della vita e il loro rapporto con la morte.
“Spiaggia libera”
di Ludovica Zedda. Un confronto tra generazioni e la difficoltà di trovare un
equilibrio tra sogno e realtà, nella cornice senza tempo di una spiaggia
deserta
“Tilipirche” di
Francesco Piras. Un’invasione di cavallette costringe un allevatore ad
abbandonare le attività e ad affrontare l’impossibile passaggio di testimone
con il figlio.
“Quello che è mio”
di Gianni Cesaraccio. Quattro ex soldati malati terminali compiono una rapina
dietro l’altra per riprendersi ciò che lo Stato gli ha negato.
I film saranno
proiettati in originale con sottotitoli in inglese.
La rassegna
“Visioni Sarde nel mondo” è co-organizzata da Sardegna Film Commission
e Cineteca di Bologna. La distribuzione è assicurata dal Circolo Sardi
Torino “Antonio Gramsci” e dell’Associazione “Visioni da Ichnussa” di Bologna.
(Bruno Mossa, Inform/dip 12)
C’è da domandarsi
quanto resisterà la decisione del tribunale dell’Assia (regione nel centro
della Germania) di impedire l’apertura della catena di negozi alimentari “Teo”
alla domenica. In realtà in Germania molti negozi rispettano la chiusura
domenicale. La particolarità di questa decisione è che i negozi in questione sono
totalmente automatizzati, assicurando una programmazione dell’esercizio che non
preveda nessun tipo di intervento umano durante la domenica, compresa
l’eventuale sostituzione di prodotti, che cesserebbe
durante il riposo
settimanale. Quindi il motivo della chiusura non è per tutelare i lavoratori,
ma gli acquirenti (anche da se stessi): è per preservare la loro salute mentale
e relazionale che i negozi restano chiusi. La domenica si fa altro, si spende
il tempo senza spendere. È una indicazione per sollecitare la libertà, non per
impedirla, per indicare anche pubblicamente che nella vita esiste qualcosa di
diverso dal commercio. Non ci viene detto quanto gli abitanti dell’Assia siano
felici di questa scelta, sicuramente contro corrente: la tutela dell’umano è
meno
perseguita della
tutela di altro, ma è bello sapere che qualcuno la tenti e la indichi come
valore. Marco Mori, La Voce del Popolo 11
Karlsruhe. “L’Europa siamo Noi”: incontro delle ACLI del Baden-Württemberg
sulle elezioni Ue
Karlsruhe - Si terrà il prossimo 19 aprile alle ore 18.30, presso la sede
della Deutsch-Italienische Gesellschaft (DIG) di Karlsruhe - Kaiserstrasse 150
(Europaplatz), l'incontro "L’Europa siamo Noi!" che le ACLI del
Baden-Württemberg dedicheranno alle elezioni del Parlamento Europeo del
prossimo 9 giugno.
A discuterne ci saranno Giuseppe (Pino) Tabbì, Presidente delle ACLI
Germania, insieme al sociologo Norbert Kreuzkamp, allo storico Francesco Leone
e ad Aldo Venturelli, DIG-Karlsruhe.
L’incontro rientra nel quadro di incontri promossi dal Land
Baden-Württemberg per promuovere la massima partecipazione consapevole alle
prossime elezioni europee. Esso ha quindi una finalità informativa, riguardante
le modalità di voto, le possibilità di scelta nel partecipare alle elezioni
italiane o a quelle tedesche per la elezione del prossimo Parlamento Europeo,
ricordando altresì la possibilità per coloro che hanno compiuto 16 anni di
partecipare a queste elezioni – qualora scelgano di votare per le elezioni
tedesche – e le possibilità di voto per gli studenti Erasmus – o di altri
progetti europei – italiani di votare in Germania. Queste informazioni vengono
completate da uno sguardo informativo sulla storia e i compiti del Parlamento
Europeo, sui valori fondativi dell’Unione Europea e sui temi principali
affrontati sia nella precedente che, presumibilmente, nella prossima
legislatura dal Parlamento Europeo.
Scopo dell’incontro, che si rivolge a un pubblico prevalentemente ma non
esclusivamente italiano, è quindi quello di promuovere una partecipazione
consapevole alle prossime elezioni europee. Di grande importanza in questo
incontro sono così la partecipazione attiva e le domande poste dal pubblico.
Un piccolo Europa-Party conclusivo permetterà inoltre di meglio esaminare e
discutere insieme i diversi aspetti del voto europeo e di approfondire insieme
ai relatori le informazioni messe a disposizione del pubblico. (aise/dip
15)
La Costituzione tedesca compie 75 anni. Buon compleanno Grundgesetz!
Era nata solo
“provvisoriamente” la Legge fondamentale tedesca. Il nome – Grundgesetz –
decisamente macchinoso doveva servire, infatti, a celare la vera intenzione
degli Alleati: quella di costituire un nuovo Stato federale che doveva
comprendere il territorio occupato dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e
dalla Francia (cosiddetta: “Trizone”). Fu l’ex sindaco socialdemocratico della
città di Amburgo, Max Brauer, ad avere l’idea che fu presto accolta da uno dei
padri della Costituzione, il professore universitario, anche lui socialdemocratico,
Carlo Schmid: “Chiamiamola Grundgesetz e non Verfassung” (per l’appunto:
Costituzione). I socialdemocratici, infatti, volevano evitare a tutti i costi
che l’Unione Sovietica reagisse dal canto suo con la costituzione di uno Stato
attorno a Berlino.
L’idea, dunque,
era quella di uno statuto provvisorio fino alla riunificazione delle Germanie.
E così nel luglio del 1948, a Francoforte, i generali degli Alleati a capo
della Commissione che governava lo Statuto di occupazione della Germania
dell’ovest, diedero l’incarico ai singoli primi ministri dei Länder tedeschi,
affinché formassero un Consiglio per la nuova costituzione. Nell’agosto del
1948 ventidue delegati, professori, politici ed esperti di diritto
costituzionale, si incontrarono sull’isola di Herrenchiemsee in Baviera per
elaborare una prima bozza. Quello che i delegati in soli tredici giorni
riuscirono a fare fu un vero e proprio miracolo: 146 articoli, una base solida
per la Costituente che si tenne a Bonn tra settembre 1948 e maggio del 1949.
A Bonn fu Konrad
Adenauer a presiedere la Costituente (Parlamentarischer Rat): mentre Carlo
Schmid (Spd) e Adolf Süsterhenn (Cdu) diedero un contributo sostanziale alla
Legge fondamentale, discutendo articolo per articolo nelle apposite commissioni
parlamentari, Adenauer soltanto di rado partecipava alle sedute. Il suo compito
era, invece, quello di costruire attorno alla Costituente un clima di consenso,
soprattutto con gli Alleati. Un contributo che, nel corso della Costituente, si
rivelò fondamentale: difatti nel febbraio 1949 il progetto rischiò di saltare.
Gli Alleati non erano d’accordo su due punti: il primo riguardava
l’accettazione da parte del popolo tedesco della Costituzione. Mentre gli
Alleati volevano un referendum, i delegati della Costituente premevano su un
voto parlamentare da parte dei Länder. Insomma: i delegati, quasi tutti
oppositori del regime nazista, non si fidavano del proprio popolo. Per Theodor
Heuss, il politico liberale che divenne in seguito il primo presidente federale
della nuova Germania, i tedeschi non erano ancora maturi per una democrazia. In
altri termini: l’era nazista era passata ma non il nazismo stesso, ancora
presente nelle menti di quella generazione. Il secondo punto riguardava il
federalismo: secondo gli Alleati il Bund aveva troppi poteri, motivo per cui
temevano di nuovo un rischio di concentrazione del Potere e, dunque, un nuovo
rischio di un regime totalitario.
Ma i 65 delegati
della Costituente non cedettero: o accettate il nostro testo o non ci sarà una
Costituzione! Adenauer, che fino a quel momento si era impegnato a mantenere un
clima di consenso con gli Alleati, sfruttò il suo ottimo rapporto personale con
il generale francese Koenig e con quello americano Clay, per strappare
all’ultimo secondo un “sì” alla nuova Costituzione, assicurandosi in questo
modo anche un ruolo centrale dopo l’entrata in vigore del Grundgesetz. Non a
caso divenne il primo cancelliere e diede via ad un’era politica che durò fino
agli anni 60.
E fu proprio l’8
maggio, a distanza di esattamente quattro anni dalla capitolazione del Terzo
Reich, che Adenauer proclamò che pochi giorni dopo – il 23 maggio 1949 –
sarebbe entrata in vigore la nuova costituzione, per l’appunto il Grundgesetz.
Fu un evento storico, ma allo stesso trascurato dai media: quasi quasi si aveva
la sensazione, come scriveva anni dopo l’opinionista Sebastian Haffner, che i
delegati si vergognassero della nuova costituzione. Neanche minimamente
potevano immaginare lo straordinario successo di questo testo: l’articolo 1 con
l’apertura alla dignità umana, alla “Menschenwürde” (poi copiata da tante carte
costituzionali, come ad esempio la Carta Europea dei diritti umani), il
rafforzamento del parlamento (il presidente federale non può sciogliere le
camere se prima le forze politiche non abbiano raggiunto un consenso sul
prossimo cancelliere), la garanzia dello Stato sociale (articolo 20 del
Grundgesetz e, con esso, la nascita del sussidio sociale di tipo
universalistico), la possibilità per ogni cittadino di rivolgersi direttamente
alla Corte Costituzionale e, infine, l’inserimento di una garanzia per i
partiti (e, dunque, un netto sì al pluripartitismo).
L’intento degli
Alleati e dei delegati di non formare due Germanie, tuttavia, non si realizzò:
difatti, solo cinque mesi dopo, l’Unione Sovietica fece proclamare la
Costituzione che fondò la Repubblica democratica tedesca, la cosiddetta DDR.
Oggi, a distanza
di 75 anni, la Costituzione tedesca è amatissima. Oltre l’80 per cento dei
tedeschi sostengono che si tratti di un testo “ottimo”, di una costituzione che
“funziona”. Addirittura, anche i nemici del sistema (i vari “Querdenker” ad
esempio) e gli stessi sostenitori dell’Afd, quando criticano le forze politiche
al governo, si appellano – per assurdo – proprio alla Legge fondamentale. Un
dato di fatto che dovrebbe, tuttavia, far riflettere: difatti le carte
costituzionali sono importanti, ma ancor più importanti sono le istanze
politiche che le interpretano. E una democrazia non ha bisogno per sopravvivere
soltanto di un’ottima Costituzione, ma soprattutto di ottimi democratici.
Alessandro Bellardita
(L’autore
dell’articolo, giudice presso il Tribunale di Karlsruhe, quest’anno terrà molte
conferenze sulla Costituzione tedesca: ulteriori informazioni su www.alessandro-bellardita.de). CdI aprile
Cannabis, legale in Germania. Un mito, che non sia dannosa per la salute
Tra feste di
piazza e aspre polemiche è da ieri in vigore in Germania la legge che
liberalizza la cannabis per uso ricreativo. Ai maggiorenni sarà consentito
girare anche con 25 grammi di cannabis e sarà possibile anche coltivare in casa
fino a tre piante per il consumo privato. Resta vietato invece fumare cannabis
nei parchi giochi, negli impianti sportivi, stadi compresi e nelle strutture
per bambini e giovani. "Questa sostanza - spiega l’esperto al Sir,
“interferisce con la maturazione cerebrale negli adolescenti, modifica la loro
personalità e la loro capacità decisionale, crea un deficit dell’attenzione,
della memoria e quindi dell’apprendimento" - Gigliola Alfaro
Tra feste di piazza
e aspre polemiche è da ieri in vigore la legge che liberalizza in Germania la
cannabis per uso ricreativo. Ai maggiorenni sarà consentito girare anche con 25
grammi di cannabis e sarà possibile anche coltivare in casa fino a tre piante
per il consumo privato. Resta vietato invece fumare cannabis nei parchi giochi,
negli impianti sportivi, stadi compresi e nelle strutture per bambini e
giovani. La riforma è stata ampiamente criticata, in particolare dalle
associazioni mediche e dalla magistratura. La nuova legge conferisce alla
Germania uno dei sistemi legali più liberali d’Europa, seguendo le orme di
Malta e Lussemburgo, che hanno legalizzato la cannabis a scopo ricreativo
rispettivamente nel 2021 e nel 2023. Sui rischi legati all’uso della cannabis abbiamo
interpellato Antonio Bolognese, professore onorario di Chirurgia alla Sapienza
e responsabile scientifico della Commissione dell’Ordine dei Medici e
Odontoiatri di Roma e Provincia per la valutazione, prevenzione e divulgazione
delle conseguenze dell’uso della cannabis e di altri disturbi dell’area delle
dipendenze.
Professore, tra le
droghe più diffuse tra i giovani c’è la cannabis che ora viene legalizzata in
Germania.
Certamente, la
cannabis è la sostanza tra le più utilizzate nella popolazione giovanile dopo
l’alcol ed è preoccupante il suo uso nella fascia di età soprattutto tra gli 11
e i 15 anni. Nella Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle
tossicodipendenze in Italia anno 2023 (dati 2022) del Dipartimento per le
politiche antidroga, si evidenzia che la cannabis è stata consumata dal 24%
degli studenti e da oltre un quarto dei 18-24enni. Dall’analisi qualitativa è
emersa una importante variabilità del quantitativo di principio attivo
contenuto nei campioni con un sostanziale incremento medio di quello rinvenuto
nei sequestri di hashish che dal 2018 è passato da una concentrazione media del
17% al 29%. Inoltre, c’è da tener presente che il contenuto del principio
attivo Thc, che determina psicosi e dipendenza, è ben diverso dal contenuto che
la cannabis aveva negli anni Ottanta-Novanta: allora questo principio attivo
era intorno al 4% in peso mentre oggi è intorno al 20-25% in peso, con un
incremento notevole. Non solo: questo è quello che si valuta quando le forze
dell’ordine fanno dei sequestri, ma i ragazzi possono trovarlo su internet con
concentrazioni di Thc molto più elevate che può arrivare fino al 50-55%.
Quindi, bisogna
smascherare il falso mito che la cannabis non sia dannosa per la salute…
È assolutamente un
falso mito.
Il nostro cervello
si sviluppa fino all’età di 24/25 anni. Quindi se c’è un insulto tossicologico
come quello provocato dalla cannabis in un’età così esposta come quella
adolescenziale/giovanile, si registreranno problematiche importanti sullo
sviluppo del cervello. I danni scientificamente dimostrati che queste droghe
determinano sui ragazzi sono molteplici. Tra di essi, la cannabis interferisce
con la normale maturazione cerebrale negli adolescenti, modifica la loro
personalità e la loro capacità decisionale, i disturbi sono tanto più gravi
quanto più precoce è la prima assunzione e quanto più è frequente e duratura,
crea un deficit dell’attenzione, della memoria e quindi dell’apprendimento,
determina una difficoltà di concentrazione, perfino una diminuzione del
quoziente intellettivo di circa 8-9 punti in chi fa uso costante della cannabis
ricreativa. Ancora, altera la percezione e l’interpretazione della realtà,
riduce la motivazione a impegnarsi e ad affrontare i problemi. Il primo
campanello di allarme che i genitori o gli insegnanti debbono cogliere è quella
che viene definita la sindrome amotivazionale: un ragazzo, che prima andava
bene a scuola, aveva interessi molteplici, amava fare attività sportiva,
frequentare persone, avere amici, si isola, si rinchiude in se stesso, non
vuole uscire dalla propria camera, non vuole continuare a studiare. Sono
problemi che l’insegnante e l’istruttore di sport devono essere capaci di
intercettare. Soprattutto la famiglia deve essere edotta sui rischi e saper
riconoscere i segni. Il danno più importante che determina la cannabis è la
schizofrenia e stati dissociativi, un disorientamento spazio-temporale, stati
di ansia, attacchi di panico. Ovviamente una parte dei danni che la sostanza
determina è definita anche da una componente individuale genetica. La cannabis
crea dipendenza attraverso il principio attivo Thc, che determina gli effetti
psicotici, mentre il Cbd, l’altro componente che c’è nella cannabis, non
determina effetti psicotici anzi contrasta quello il Thc.
Ci sono effetti
solo sulla salute mentale?
No, quelli che
abbiamo citato finora sono i danni sulla salute mentale, ma la cannabis
determina anche dei danni importanti per la sfera sessuale, sia nei ragazzi sia
nelle ragazze, nello sviluppo endocrinologico, ad esempio una diminuzione del
numero degli spermatozoi nei ragazzi, oppure una riduzione dello sviluppo
ovarico nelle ragazze. Gli studi scientifici hanno messo a fuoco in tutto il
mondo questo problema. Negli Stati Uniti ci sono casi sempre più frequenti di problemi
cardiaci, di ischemie, di infarti del miocardio in età giovanile, soprattutto
per l’uso di queste canne con altissimo contenuto di Thc.
L’uso di queste
droghe è anche tra le cause dell’aumento di incidenti e altro?
Secondo il
Ministero della Salute, recentemente c’è stato un aumento dei ricoveri in
condizioni di emergenza nei Pronto Soccorso: il 16% dei ricoveri arriva per
intossicazione acuta da droga generalmente considerata, l’incremento è in gran
parte legato alla cannabis. Questo si vede soprattutto nei fine settimana, con
un aumento di incidenti stradali oppure di risse nella movida o nelle
discoteche. Gli effetti sono pesanti ed evidenti, bisogna conoscerli.
Ma i danni da
cannabis sono irreversibili?
Chi ha iniziato a
farne uso molto presto e ha continuato a fare uso di questa sostanza con
elevata presenza di Thc e con una genetica particolarmente favorevole può
manifestare problemi schizofrenici che difficilmente vengono controllati, negli
altri casi gli effetti nocivi possono regredire, a patto che il ragazzo o la
ragazza smettano totalmente di utilizzare la cannabis perché altrimenti la
dipendenza non si vince. La malavita istiga i minori davanti alle scuole, già
all’età di 10-11 anni, a fumare la cannabis perché diventano dipendenti, saranno
clienti per tutta la vita e influenzeranno altri ragazzi, così il mercato si
diffonde a macchia di olio. Per recuperare i deficit accumulati con l’uso della
cannabis, oltre che smetterne l’uso, è importante rivolgersi ai centri di
salute mentale, presenti in ogni Asl, sia per ottenere una diagnosi sia per
avere terapie. Se parliamo solo di cannabis c’è la possibilità di ottenere
risultati positivi.
Da quanto ci ha
spiegato, la legalizzazione della cannabis non può essere una buona notizia in
Germania né una buona idea a cui pensare in altri Paesi…
In Germania c’è
stata una sollevazione da parte della comunità scientifica rispetto al progetto
di legge che dovrebbe entrare in vigore il 1° aprile. Nel caso tedesco vengono
presi in considerazione problemi più sotto il profilo economico, più sociali,
rispetto ai problemi della salute che queste sostanze determinano. Quindi ci si
concentra sulla possibilità di coltivazione, per dare ai contadini
l’opportunità di incrementare la propria attività perché la cannabis ha un
notevole sviluppo di crescita in poco tempo. Per avere un’idea di cosa
significa la legalizzazione della cannabis bisogna guardare a quei Paesi, gli
Stati Uniti soprattutto, dove già c’è stata: la percentuale di accessi ai
Pronto Soccorso è aumentata, soprattutto da parte di giovani. Nei reparti
pediatrici c’è un aumento del ricovero di bambini, anche molto piccoli, perché
erroneamente prendono in casa dei cioccolatini che contengono cannabis, magari
di genitori o fratelli maggiori.
Che attività di prevenzione
si può fare?
Abbiamo elaborato
un progetto pilota per la prevenzione primaria precoce nelle scuole contro le
dipendenze come Commissione dell’Ordine dei Medici e Odontoiatri di Roma e
Provincia per la valutazione, prevenzione e divulgazione delle conseguenze
dell’uso della cannabis. Andiamo nelle scuole e nei centri sportivi a divulgare
un messaggio scientifico ai giovani, spiegando quello che la cannabis determina
sulla salute mentale e sul cervello. Anche l’Agidae ci ha chiamati a formare
gestori e insegnanti dei propri istituti nei campus estivi a Venezia nel 2022 e
a Genova nel 2023. Con il progetto pilota nel 2023 abbiamo raggiunto 1.100
studenti dalle terze medie alle superiori di vari istituti, 90 allievi di
circoli sportivi, 290 genitori di studenti e circa 150 insegnanti. Il progetto,
che prosegue ed è sempre più attivo, prevede l’azione di prevenzione attraverso
l’intervento di psichiatri e psicoterapeuti che nelle scuole attuano la
strategia dell’educazione tra pari che si svolge durante il periodo scolastico
da ottobre a giugno. In attività di laboratorio dei ragazzi preparano video con
cui parlano ai loro compagni e sono loro gli attori che parlano delle
problematiche legate alle dipendenze perché il linguaggio dei giovani arriva
più direttamente ai coetanei. Il nostro obiettivo è fare una prevenzione
primaria precoce, andando in molte scuole e coinvolgendo sicuramente i ragazzi
delle medie dall’età di 12-13 anni, ma noi vogliamo intervenire ancor prima,
nelle scuole elementari, a partire dalla quarta e dalla quinta elementare
perché l’Oms ci dà questo input.
Dobbiamo far
capire ai ragazzi che la cannabis non serve a rilassarsi o a vincere l’ansia.
Il progetto pilota
è romano, ma abbiamo intenzione di diffonderlo in campo nazionale attraverso il
coinvolgimento di tutti gli Ordini dei medici di Italia, che potranno adattarlo
alle loro realtà e anche grazie a un nostro manuale formativo sull’educazione
tra pari nelle scuole. Sir 2
Presidenziali americane: partita aperta tra Trump e Biden
Con le primarie a
oltre metà percorso e a poco più di sette mesi dalle elezioni presidenziali
negli Usa, sembra ormai consolidata la prospettiva che sarà Trump il candidato
del partito repubblicano, ora allineato, salvo rarissime eccezioni, sulle
posizioni dell’ex Presidente. Analogamente, sul fronte del partito democratico
sembra da considerare acquisita la candidatura dell’attuale Presidente in
carica, malgrado il pesante handicap dell’età, qualche problema di salute e le
perplessità che emergono da vari settori del suo stesso partito e perfino da
diversi organi di stampa normalmente vicini ai democratici. Salvo sorprese le
due nomination alle rispettive conventions dovrebbero essere poco più che formalità.
Alle presidenziali
americane 2024 si ripeterà la sfida Biden contro Trump
Se alle elezioni
del prossimo novembre si assisterà a una replica della sfida fra Biden e Trump
del 2020, gli americani si troveranno a scegliere tra due candidati molto anziani,
entrambi deboli (anche se per motivi diversi), ambedue con una base elettorale
caratterizzata da un marcato profilo identitario. Dovranno decidere tra due
candidati che rappresentano due “Americhe” profondamente diverse e contrapposte
e che ripropongono lo scenario di un Paese diviso verticalmente su quei valori
e principi che dovrebbero essere alla base del corretto funzionamento della
democrazia della nazione che resta pur sempre la più ricca e potente del mondo.
I sondaggi più
recenti danno il candidato repubblicano in testa sia pure di misura. La
sensazione prevalente è che contro Biden giochi soprattutto il fattore età –
con la conseguente impressione di fragilità, malgrado l’ottimo andamento
dell’economia americana e del mercato del lavoro – e una gestione accorta e
responsabile della politica estera. Contro di lui anche la crescente sensazione
d’impotenza degli Usa rispetto al conflitto in Ucraina e, ancora di più, alla
ripresa del conflitto israelo-palestinese, malgrado l’impegno della Amministrazione.
A suo sfavore, infine, vi sono l’impatto dell’inflazione sul potere
d’ acquisto dei ceti medi e la percezione di una scarsa
capacità di gestire flussi migratori e sicurezza interna, soprattutto nelle
grandi città. La campagna elettorale di Donald Trump
Trump, convinto di
non essere riuscito, nel suo precedente mandato alla Casa Bianca, a realizzare
il suo programma elettorale per le resistenze del cosiddetto “deep state”, ha
già minacciato di attuare un drastico ricambio a tutti i livelli della
dirigenza federale, con l’obiettivo di fare affidamento esclusivamente su
collaboratori di fede provata. Inoltre, sta trasformando i processi
avviati contro di lui da varie procure statali e federali in altrettante
occasioni per presentarsi, con un certo successo, come un perseguitato
politico. Sta anche conducendo una campagna elettorale, secondo il suo
inimitabile stile, con dichiarazioni clamorose e spiazzanti, che sarebbero
inammissibili per qualsiasi persona di buon senso, ma che sono in grado di mobilitare
il suo elettorato. E la fa promettendo meno Stato e più mercato, sgravi fiscali
e meno spesa pubblica, più sicurezza interna e contrasto più efficace delle
migrazioni, la fine delle politiche ambientali e degli impegni sulla
transizione energetica e sulla decarbonizzazione. Promette un’America più in
grado di tutelare autentici interessi nazionali, più isolazionista e meno
propensa ad assumersi le responsabilità che dovrebbero competere a una grande
potenza una volta egemone, più favorevole a declinare le relazioni con gli
altri attori sulla scena internazionale sulla base di rapporti di forza e,
infine, poco interessata a ripristinare un multilateralismo efficace e
istituzioni internazionali funzionanti.
La partita è
ancora aperta e molto può ancora succedere prima di novembre. Ma la prospettiva
di un ritorno di Trump alla Casa Bianca non può essere scartata anche perché
l’ipotesi di una rielezione dell’ex Presidente repubblicano che, secondo le
nostre sensibilità, rappresenta una minaccia per la democrazia negli Usa e un
incubo per la componente più moderata del Paese, è convintamente sostenuta
perlomeno da metà dell’elettorato americano. I rischi di un secondo mandato di
Trump per gli alleati europei
Un ritorno di
Trump rischia di provocare una soluzione di continuità traumatica, con la
rimessa in discussione di valori, principi e politiche caratteristiche degli
Stati Uniti e sancirebbe una lacerazione profonda nella società americana.
Provocherebbe, inoltre, una forte discontinuità quanto al ruolo del Paese sulla
scena internazionale e, soprattutto, rappresenterebbe una fonte di
grandi preoccupazioni per i suoi alleati europei.
Pur scontando la
notoria imprevedibilità dell’ex Presidente e le scarse indicazioni finora
fornite su un suo ipotetico programma organico di politica estera, è facile
prevedere che per gli europei un suo ritorno comporterebbe seri problemi di
gestione del rapporto transatlantico. Anche senza prendere alla lettera le sue
dichiarazioni più clamorose sulla Nato, che lasciavano presumere un prossimo
disimpegno americano, appare verosimile che la solidità e la credibilità
dall’Alleanza Atlantica possano subire un serio ridimensionamento. Sicuramente
con Trump di nuovo alla Casa Bianca diventerebbero molto più pressanti le
richieste agli europei perché spendano di più per la loro difesa. Trump in
fondo non ha mai creduto nel valore strategico del rapporto con gli europei,
dimostrando in più occasioni di considerare l’Ue con un misto di fastidio e
condiscendenza, preferendo stabilire relazioni con singoli Paesi europei più
congeniali. Senza contare poi che un suo successo contribuirebbe verosimilmente
a rafforzare anche in Europa la popolarità di formazioni politiche
dichiaratamente sovraniste ed euro-scettiche, rischiando di accentuare le
distanze fra Paesi dell’Ue come conseguenza di una maggiore convergenza o
divergenza rispetto a Trump e alle sue politiche.
La politica estera
dell’ex Presidente
Un cambio della
guardia a Washington potrebbe poi segnare una soluzione di continuità nella posizione
americana sulla guerra in Ucraina, con la sospensione degli aiuti militari
americani e la tentazione di realizzare un accordo con la Russia, anche al
costo di forzare soluzioni indigeste per l’Ucraina. Ugualmente, potrebbe
comportare un diverso posizionamento degli Usa rispetto al contesto
medio-orientale, con un allentamento delle pressioni americane sul governo
israeliano, la definitiva rinuncia all’ipotesi di un accordo sulla base della
formula dei due popoli e due Stati e con la ripresa di una più aggressiva
politica di contenimento dell’Iran. Due possibili sviluppi che, come minimo,
accentuerebbero le distanze dagli europei.
Verosimile anche
aspettarsi che un’amministrazione americana a guida Trump adotti nuove misure
protezionistiche e limitazioni delle importazioni, a tutela di produzioni
nazionali e posti di lavoro negli Usa, minacciati dalla concorrenza
dall’estero. E non solo contro la Cina (come già annunciato) ma anche nei
confronti degli alleati europei. Analogamente, con il venire meno
dell’interesse degli Usa per l’Europa come partner strategico e con una
probabile maggiore concentrazione di interesse su Asia e Indo-pacifico,
potrebbero essere rimesse in discussione altre forme di cooperazione (come il
Trade e Technology Council) su cui europei e americani fanno attualmente
affidamento per regolare in maniera cooperativa sfide comuni su temi di
attualità (sicurezza economica, sviluppi del digitale, regolazione
dell’intelligenza artificiale), ma potenzialmente divisivi.
Gli europei non votano
alle presidenziali americane ma, se potessero esprimere una preferenza, il buon
senso dovrebbe indurli a favore dell’usato sicuro di Biden rispetto a un
Trump imprevedibile e destabilizzante. Anche se, magra consolazione, va
riconosciuto che il ritorno di un Presidente americano così poco sensibile alle
preoccupazioni e agli interessi degli europei potrebbe fare il miracolo di
costringerli a impegnarsi sul serio per realizzare concretamente il progetto di
una autonomia strategica dell’Europa.
Ferdinando Nelli
Feroci, AffInt 8
In arrivo nuovi obblighi dall’Europa. Case ed edifici verso l’efficienza
energetica
Il Parlamento
europeo ha messo ai voti l’approvazione di una direttiva mirante a
ristrutturare l’efficienza energetica degli edifici entro il 2030, spingendo
l’Unione Europea verso una svolta green nel settore delle costruzioni. La
direttiva, nota come Energy Performance of Buildings Directive (EPBD), ha
suscitato divisioni nel Parlamento europeo ma ha comunque ottenuto il via
libera, stabilendo obiettivi ambiziosi per gli Stati membri.
L’Italia, tra i
Paesi interessati da questa nuova normativa, ha chiesto maggiore flessibilità
per adeguarsi ai nuovi standard, considerando l’ampio impatto che tali misure
avranno sul territorio nazionale. Secondo la nuova direttiva, entro il 2030
tutti i nuovi edifici dovranno essere a emissioni zero, con un’anticipazione di
due anni per le opere pubbliche. Inoltre, si prevede lo stop alle caldaie a gas
entro il 2040, con un’imposizione anche sulle ristrutturazioni degli edifici
esistenti.
Residenze private
e uffici rappresentano circa il 40% del consumo energetico e oltre un terzo
delle emissioni di gas serra nell’Unione Europea. Questa direttiva è, pertanto,
un passo cruciale verso il raggiungimento degli obiettivi di neutralità delle
emissioni entro il 2050.
Per quanto
riguarda le ristrutturazioni, si prevede una riduzione del 16% delle emissioni
entro il 2030, con l’obbligo di lavori per il 43% degli immobili con i
rendimenti energetici peggiori. Si stima che in Italia ci saranno circa 5
milioni di edifici da ristrutturare su un totale di 12,5 milioni. Le misure
necessarie per adeguare gli edifici saranno simili a quelle finanziate fino ad
oggi dal superbonus, comprendendo interventi come il cappotto termico, la
sostituzione degli infissi, l’installazione di nuove caldaie a condensazione e
pannelli solari.
La Commissione
europea stima che saranno necessari 275 miliardi di euro di investimenti annui
per realizzare questa svolta energetica, con i Paesi membri che potranno
accedere ai fondi europei per sostenere questi costi e finanziare così sussidi,
bonus e mutui agevolati.
Tuttavia, non
mancano voci critiche nei confronti di questa direttiva che ha suscitato
reazioni contrastanti, mentre i politici discutono gli effetti che avrà sulle
tasche dei cittadini, compresi i connazionali italiani all’estero. Simone
Billi, deputato della Lega e presidente del Comitato Italiani nel Mondo, ha
espresso preoccupazione per l’impatto finanziario che questa direttiva avrà
sulle famiglie italiane.
Secondo il
deputato, la direttiva impone agli edifici di essere a emissioni zero entro il
2050, vietando le caldaie a gas dal 2040 e richiedendo una riduzione del
consumo energetico entro il 2030 e il 2035. Si stima che saranno necessari lavori
per un totale di 270 miliardi di euro per ristrutturare il 60% delle abitazioni
in Italia entro il 2050, con costi medi stimati tra i 35.000 e i 60.000 euro
per abitazione.
Billi ha criticato
aspramente questa direttiva definendola “una vera e propria follia ideologica”,
paragonandola al comunismo per il suo obiettivo senza analizzarne nel dettaglio
le inevitabili conseguenze. Ha inoltre criticato l’opposizione italiana, accusando
il PD e i 5 Stelle di aver votato a favore della direttiva e definendoli
“nemici degli italiani”.
Le reazioni alla
direttiva sulle case green mostrano chiaramente le divisioni politiche e gli
interrogativi riguardo all’equilibrio tra gli obiettivi ambientali e l’impatto
economico sulle famiglie e sulle economie nazionali. Nonostante le critiche,
l’Unione Europea ha posto l’accento sull’urgenza di agire per contrastare il
cambiamento climatico e migliorare l’efficienza energetica degli edifici, proiettando
il continente verso un futuro più sostenibile e verde.
In conclusione,
mentre l’Unione Europea adotta politiche green ambiziose, sorgono interrogativi
sull’efficacia di tali misure a livello globale. Saranno sufficienti i
cambiamenti proposti per salvare il clima, considerando l’impatto economico
sulle famiglie e sulle economie nazionali? E se l’Europa si muovesse verso
un’economia green mentre altre parti del mondo no, che impatto avrebbe
sull’ambiente? Potrebbe questa discrepanza causare un aumento dell’inquinamento
al di fuori dell’Europa, vanificando gli sforzi locali per la sostenibilità?
L’effetto dell’Europa, che adotta politiche green mentre altre parti del mondo
rimangono indietro potrebbe comportare sfide significative. Da un lato,
potrebbe portare a un miglioramento locale dell’aria e alla riduzione delle
emissioni di gas serra. Dall’altro, potrebbe spingere l’industria europea verso
Paesi con normative ambientali meno rigide, aumentando l’inquinamento in altre
regioni. Inoltre, la mancanza di azione globale potrebbe compromettere gli
sforzi per affrontare il cambiamento climatico, poiché le emissioni da altre
parti del mondo potrebbero annullare i progressi fatti in Europa. È essenziale
promuovere una collaborazione internazionale efficace per affrontare il
cambiamento climatico in modo coerente e garantire un futuro sostenibile per il
pianeta e le generazioni future. Licia Linardi, CdI aprile
Sono, in generale,
contrario a ogni guerra che, tra l’altro, tende a espandersi. Così, avrei
preferito scrivere sulla NATO in tempi meno angosciosi. Ma l’informazione, pur
con tutti i limiti, ha il diritto d’essere manifesta. La “North Atlantic Treaty
Organization”, meglio nota come “NATO”, nasce a Washington nel 1949. La struttura,
di natura militare, è oggi costituita da oltre quarantacinque Paesi membri.
Escluso gli Stati Uniti d’America, tutti gli Stati aderenti si trovano in
Europa e ne fa parte anche Paesi già membri del Patto di Varsavia. Altri ne
hanno già chiesto d’aderire. L’intento della NATO è di proteggere tutti gli
Stati membri da ogni ingerenza militare sul territorio esterno e, se
necessario, anche con le armi. Infatti, la NATO è una struttura internazionale
per difendere la Democrazia e per la Collaborazione (art.5 comma 1 del Trattato
di Washington).
L’alleanza è,
quindi, di natura “globale”e “inscindibile”. Come a scrivere che se uno Stato
membro è attaccato è considerato come un atto di guerra che coinvolge tutti gli
Stati membri. La stessa integrità socio/politica dei Paesi aderenti è tutelata
dalla NATO (art. quattro del Trattato). Il caso dell’Ucraina, attaccata
improvvisamente da forze militari sovietiche, esula, quindi, dall’intervento
armato NATO perché il Paese implicato non è membro di questa Istituzione internazionale.
Ciò premesso, pur condannando l’intervento militare russo in una Repubblica
indipendente non è possibile che forze armata della Nato, per il Trattato del
quale abbiamo scritto, l’intervento miliare in Ucraina.
Giorgio Brignola,
de.it.press
Il piano dell’Ue per attrarre i talenti extracomunitari
Tra le righe del
partenariato strategico con l’Egitto, avviato con il recente viaggio al Cairo
di Giorgia Meloni, Ursula von der Leyen e tre altri primi ministri Ue, ci sono
misure volte a facilitare l’ingresso regolare in Europa di giovani qualificati.
Un’iniziativa, quella della “mobilità internazionale dei talenti” che si
intreccia a doppio filo con la crisi demografica dell’Ue.
La denatalità sta
riducendo le prospettive del continente, ormai “vecchio” non solo in termini
geologici. La necessità di competenze, soprattutto nelle discipline Stem, in
Italia è ancora più grave che della media europea, a causa della annosa “fuga
dei cervelli”. E allora, l’idea è quella di portarli di nuovo nella penisola, i
cervelli. Da una parte con le agevolazioni per chi torna nel Belpaese,
dall’altra con le misure cui si faceva riferimento in apertura che riguardano
anche gli altri Paesi Ue.
D’altra parte
molti Paesi europei hanno meno talenti di quanti il mondo produttivo ne
richiede. Nell’Unione è laureato il 41% dei giovani tra i 25 e i 34 è pari al
41%. In Italia appena il 21%, praticamente la metà della media Ue.
Fuori dalle
percentuali, in termini assoluti la diminuzione dei laureati è già scritta: il
numero dei giovani e dei nuovi nati è così basso che anche se si laureassero
tutti (praticamente quintuplicando le attuali percentuali) non basterebbero a
coprire le esigenze produttive del Paese. E con la crisi delle nascite, è
lecito aspettarsi che caleranno anche i laureati, seguendo una previsione
realistica e non onirica.
Insomma, se fino
ad ora l’immigrazione ha tenuto a galla la natalità (seppure con un deciso
rallentamento negli ultimi anni), ora neanche questo basta più: adesso gli
immigrati devono salvare la nostra produttività.
Il Piano della
Commissione Ue
A tal fine, la
Commissione Ue vuole creare una piattaforma che agevoli l’incontro fra domanda
di talenti delle imprese europee e l’offerta disponibile nei Paesi partner e in
altri Paesi. La proposta di una piattaforma dedicata, la prima del suo genere
nell’Unione, si presenta come una soluzione per rendere il reclutamento
internazionale più semplice e rapido, a partire dal riconoscimento degli studi
di formazione e professionali svolti dagli immigrati nei loro Paesi d’origine.
Attualmente,
infatti, il maggiore ostacolo per le assunzioni “qualificate” dei cittadini
extra-Ue è l’iter amministrativo per attribuire le relative certificazioni,
soprattutto per le professioni regolamentate e di cui esiste un albo. I tempi
molto lunghi e l’esito incerto, uniti all’urgente necessità di soldi da parte
degli immigrati, finiscono per far lavorare milioni di immigrati in mansioni
sottoqualificate.
Secondo le stime
Eurostat oltre un quarto degli extra-comunitari residenti in Ue è già altamente
qualificato, ma quasi la metà svolge mansioni di livello molto inferiore
rispetto alla loro preparazione.
Il problema della
sovraqualificazione coinvolge anche molti cittadini nativi italiani, ma
raggiunge livelli altissimi tra gli stranieri extracomunitari. Secondo i dati
Inapp relativi al 2020, il tasso di sovraqualificazione tra gli stranieri non
comunitari in Italia ha toccato quota 71,8% con un gap rispetto a quello dei
cittadini italiani del 54,1%, che nelle Isole e nel Nord-Est supera addirittura
il 60%. Peggiorano il quadro le difficoltà linguistiche e i pregiudizi,
purtroppo, ancora molto presenti.
La piattaforma
pensata dalla Commissione servirà quindi a definire procedure di accertamento e
convalida armonizzate tra i vari Paesi Ue, ma anche più semplici e
digitalizzate.
Estendere la Carta
Blu
Una delle
soluzioni sostenute dalla Commissione è estendere l’accesso alla Carta Blu, un
permesso di soggiorno che consente ai lavoratori extra-Ue di soggiornare e
lavorare in uno dei 27 Stati sulla base di un contratto di lavoro altamente
qualificato.
Una prospettiva
che parte da lontano, come dimostrano le parole scelte nel 2016 in occasione
della revisione della Carta Blu: “L’Ue – si legge nel documento – deve già far
fronte a un contesto strutturale di carenze e squilibri tra domanda e offerta
di competenze in determinati settori, che rischiano di limitare crescita,
produttività e innovazione. […] In futuro, i cambiamenti strutturali nelle
economie dell’Ue continueranno ad alzare la domanda di competenze professionali
non immediatamente reperibili sul mercato del lavoro, creando ulteriori deficit
di professionalità. L’attuale regime dell’Ue relativo all’immigrazione dei
lavoratori altamente specializzati non è attrezzato per far fronte alle sfide
attuali e future”.
La Carta Blu è
stata resa più accessibile agli studenti che hanno completato un titolo
triennale e stanno terminando i loro studi offrendo loro l’opportunità di
rimanere nell’Ue per cercare lavoro o avviare un’attività imprenditoriale dopo
il completamento degli studi e l’intenzione è di ampliarne il bacino di utenza.
Canali per una
migrazione legale
Un altro asset su
cui l’esecutivo Ue punta è l’aumento dei canali legali di immigrazione. Ancora
una volta, le parole scelte dalle istituzioni europee sono eloquenti: “Per
quanto riguarda la migrazione legale – si legge nella Proposta di decisione del
parlamento europeo e del consiglio relativa a un Anno europeo delle competenze
2023 – la Commissione ha proposto una serie di iniziative per contribuire ad
attirare cittadini di paesi terzi che hanno competenze necessarie nell’UE. Ciò
comprende la creazione di un bacino di talenti dell’Ue e di partenariati volti
ad attirare talenti con i paesi partner. […] La Commissione europea promuoverà
anche percorsi complementari verso l’Ue per le persone bisognose di protezione
internazionale, in modo da mettere a profitto il talento dei rifugiati”.
Che cos’è la
migrazione “circolare”
L’ultimo aspetto
del nuovo corso riguarda la formazione dei migranti.
Per questo sono
previste misure di assistenza tecnica e finanziaria per espandere e migliorare
scuola e istruzione superiore nei Paesi di origine. Poi, si punta anche sulla
migrazione “circolare”, che mira a gestire i flussi migratori in modo da
consentire una mobilità legale di andata e ritorno tra due Paesi. Con questo
approccio i giovani immigrati in Ue potrebbero essere incentivati a tornare nel
proprio Paese tramite congedi o distacchi di durata predefinita. Una soluzione
che, almeno in linea teorica, è vantaggiosa per tutti: il Paese d’origine (in
questo caso l’Egitto) che può ottenere il ritorno (anche temporaneo) di cittadini
altamente qualificati; i Paesi Ue dove magari il giovane ha perfezionato la
propria formazione e può tornare a dare il proprio contributo; e i migranti
stessi che possono accedere a nuove competenze professionali e beneficiare di
un canale agevolato spostandosi tra i due Paesi.
La migrazione
“circolare”, infatti e ovviamente, prevede che, dopo il periodo nel proprio
Paese d’origine, i giovani extracomunitari possano tornare in Ue. Perché qui ce
n’è urgente bisogno. Adnkronos 21.3.
Il Consiglio
Affari esteri dell’Ue ha approvato il lancio dell’operazione militare navale
Aspides, il cui obiettivo è di assicurare la libertà di navigazione nel Mar
Rosso e Golfo Persico e difendere imbarcazioni civili e commerciali dai continui
attacchi lanciati dal gruppo yemenita degli Houthi dall’inizio dell’offensiva
israeliana a Gaza. Rimane da capire se la missione sia uno strumento efficace
per prevenire ulteriori attacchi e assicurare la stabilità di questa importante
rotta marittima dalla quale transita circa il 12% del commercio mondiale.
Gli attacchi
Houthi danneggiano il commercio italiano ed europeo
Dopo i messaggi
contraddittori delle alte cariche europee in sostegno o critica a Israele e il
voto disgiunto dei paesi Ue all’Assemblea delle Nazioni Unite sul cessate il
fuoco, con Aspides gli Stati membri sembrano quasi voler affermare che l’Europa
è ancora capace di prendere decisioni comuni in materia di politica estera. Con
la missione l’Europa tenta poi di mostrare solidarietà e capacità di autonomia
strategica agli alleati atlantici. Invece di unirsi alla missione
anglo-americana Prosperity Guardian che contrattacca gli Houthi, la missione
Aspides ha strettamente carattere difensivo e si propone di proteggere le
imbarcazioni europee senza però impegnarsi in controffensive. Riaffermando il
carattere difensivo di Aspides, i Ventisette sperano poi di ribadire l’impegno
costante dell’Europa nella regione del Golfo ma anche quello volto alla
distensione delle tensioni.
La missione è, infine,
un modo per rassicurare le proprie imprese europee il cui commercio dipende
dalla stabilità del Mar Rosso e negli stretti di Baab al-Mandab, Hormuz e Suez.
Gli attacchi hanno portato a un aumento delle spese assicurative per le
imbarcazioni che decidono di transitare nel Mar Rosso, o a un aumento dei costi
per quelle che decidono di percorrere rotte marittime alternative.
Tra i paesi
europei l’Italia è tra i più colpiti. È proprio dalla viabilità nel Mar Rosso e
dall’utilizzo del Canale di Suez, infatti, che dipende la centralità del
Mediterraneo e di molti dei porti italiani. Seconda potenza industriale in
Europa, la nostra penisola realizza il 54% delle proprie esportazioni via mare,
di cui il 42,7% transita proprio attraverso il Mar Rosso, il Canale di Suez per
poi arrivare nei nostri porti. Il volume del commercio estero italiano sta
perdendo circa 95 milioni di euro al giorno dal novembre 2023. Tra i porti
italiani che soffrono di più c’è sicuramente Trieste, dove arriva da Suez gran
parte delle merci che poi vengono distribuite in Europa centrale. Anche i porti
di Genova e Gioia Tauro risentono del conflitto. Genova, da cui parte il 30%
della tratta con la Cina, rischia di perdere il proprio rilievo in Europa,
visto che nelle ultime settimane il costo del nolo medio per il trasporto dei
container è più caro in Italia che nel porto di Rotterdam. Gioia Tauro, primo
porto italiano dopo il Canale di Suez, sta subendo una diminuzione di traffico,
poiché le navi che circumnavigano l’Africa iniziano a fermarsi in Spagna,
oppure proseguono verso nord, optando per il trasporto terrestre della merce
dal Mare del Nord attraverso l’Europa centrale.
La missione
europea Aspides rischia di essere un fallimento
Ma con il lancio
della missione, l’Europa rischia di fallire sia nel proprio intento di
risolvere il problema degli attacchi Houthi sulle rotte del Mar Rosso sia in
quello di resuscitare la sua credibilità in politica estera. Anche se
difensiva, la missione potrebbe non essere percepita come tale. Lanciata in
assenza di una posizione europea chiara per il cessate il fuoco a Gaza, o una
linea diplomatica per la risoluzione della questione palestinese, la missione
rischia di confermare tra gli Houthi e i numerosi attori legati a Teheran, la
percezione di un’Europa appiattita sulla posizione americana, parte di un polo
occidentale da considerarsi un bersaglio nel suo insieme. L’impegno militare di
Stati Uniti, Gran Bretagna ed Europa nel Mar Rosso rischia poi di rafforzare la
legittimità del gruppo yemenita come difensori in prima linea della causa
palestinese. Di fatto, provoca un effetto a catena che incoraggia gli Houthi e
la miriade di gruppi alleati con Teheran a continuare attacchi su diversi
fronti costringendo l’Occidente a dispiegare risorse militari, rendendolo parte
di una progressiva espansione del conflitto invece che di una soluzione.
Dai paesi arabi, e
più in generale dal sud globale, l’immagine che emerge è quella di un’Europa
che delude. I tempi lenti con cui l’operazione Aspides è stata lanciata sono
altresì un sintomo dell’impaccio con cui l’Ue si sta muovendo. Piuttosto che
duplicare la strategia americana, tagliando in qua e in là gli elementi in
contrasto con la propria politica estera, l’Europa avrebbe potuto ispirarsi
all’esperienza di molti paesi del Golfo, e in particolare dell’Arabia Saudita,
facendo ricorso alla dissuasione militare mantenendo al contempo aperto il
canale della diplomazia e del dialogo con i propri avversari. Dopo anni di
conflitto in Yemen, è stato il ritorno dell’Arabia Saudita al dialogo con
l’Iran e con gli Houthi ad aver portato a una drastica diminuzione degli
attacchi sulle sue infrastrutture—risultato che non è stato invece ottenuto in
anni di controffensiva militare.
Aspides può essere
un modo per l’Europa di raccontare a se stessa che è ancora capace di fare
politica estera. Ma, in realtà, è il sintomo di un’Europa intenta a ricucire le
divisioni interne e sempre meno capace di definire il suo ruolo nel conflitto
in corso e nell’ordine globale che questo contribuirà a definire. Maria
Luisa Fantappie | Nadia Bamoshmoosh, AffInt. 25.3.
Il Paese. “Giovani 2024: il bilancio di una generazione”: quasi 18 mila
laureati espatriati nel 2021
Roma - Il
Consiglio Nazionale dei Giovani e l’Agenzia Italiana per la Gioventù hanno
presentato il nuovo rapporto “Giovani 2024: bilancio di una generazione”, sulla
condizione giovanile in Italia. Un lavoro per tracciare un quadro dettagliato
delle principali sfide e delle opportunità che i giovani italiani affrontano
oggi, offrendo al contempo spunti concreti per politiche future.
Il documento
rivela dati preoccupanti riguardanti la demografia, l’istruzione e
l’occupazione, evidenziando in modo particolare la riduzione demografica dei
giovani, il fenomeno della fuga di cervelli, la precarietà lavorativa e la
disuguaglianza territoriale e di genere. Tuttavia, il rapporto non getta solo
luce su problemi persistenti, ma apre anche alla speranza, proponendo vie d’uscita
basate sull’innovazione, l’inclusione e la sostenibilità.
L’Italia si
confronta con una sfida demografica di vasta portata, evidenziata da un calo
significativo nella sua popolazione giovane. Negli ultimi due decenni, abbiamo
assistito a una riduzione di quasi 3,5 milioni di giovani under 35, con un
tasso di decremento di circa il 21%. Questo fenomeno ha colpito particolarmente
il segmento femminile, con una diminuzione di quasi il 23% contro il quasi 20%
maschile. Un confronto che a livello europeo pone l’Italia in una posizione
allarmante: siamo gli ultimi per incidenza di giovani, ben sotto la media
dell’Unione Europea.
La fuga di
cervelli si manifesta in modo preoccupante, con quasi 18 mila giovani laureati
che hanno optato per l’espatrio nel 2021, un aumento del 281% rispetto al 2011.
Questo scenario si accompagna a una crescente instabilità nel mercato del
lavoro, dove il precariato coinvolge il 41% degli under 35, evidenziando una
condizione di incertezza e discontinuità lavorativa che affligge in modo
particolare i più giovani.
Le disparità
territoriali aggiungono un ulteriore livello di complessità, con il Sud Italia
che registra tassi di disoccupazione giovanile notevolmente superiori rispetto
al Nord, e dove il salario medio annuo dei giovani lavoratori è
significativamente più basso. Queste condizioni sfavorevoli si riflettono anche
sulla capacità dei giovani di accedere a opportunità di lavoro stabili e
retribuzioni adeguate, influenzando negativamente la qualità della vita e le
aspettative future.
Le basse
retribuzioni dei giovani nel settore privato rappresentano una problematica
significativa. Nel corso del 2022, la retribuzione lorda media annua dei
giovani dipendenti del settore privato (15-34 anni) si è fermata a 15.616 euro,
rispetto ai 22.839 euro complessivamente rilevati nel settore. Questa disparità
retributiva si manifesta anche nei diversi tipi di contratto: i giovani con
contratti stabili percepiscono in media 20.431 euro, mentre coloro con
contratti a termine e stagionali guadagnano rispettivamente 9.038 euro e 6.433
euro. Nel settore pubblico, invece, i giovani lavoratori (15-34 anni) hanno
raggiunto una retribuzione lorda media annua di 23.253 euro nel 2022, che
rappresenta una volta e mezza quella del settore privato. Tuttavia, nonostante
un incremento nominale delle retribuzioni dal 2018, sia nel settore privato sia
in quello pubblico, considerando l’inflazione, si registra una diminuzione del
potere d’acquisto, con una variazione negativa delle retribuzioni reali pari al
-1,7% nel privato e al -7,5% nel pubblico.
Dal punto di vista
politico e sociale, la diminuzione della popolazione giovanile ha avuto
ripercussioni evidenti sull’ elettorato giovane, che in 20 anni si è
drasticamente ridotto – passando dal 30,4% del 2002 al minimo storico del 21,9%
nel 2022. Più rilevante il dato sulla rappresentanza politica, il taglio dei
Parlamentari ha colpito quasi esclusivamente gli under 35, con un drastico calo
dei giovani eletti, che tra il 2018 e il 2022 hanno subito un decremento dell’80%,
passando da 133 a 27, determinando un’influenza sempre minore dei più giovani.
L’indagine realizzata tra i giovani italiani mostra un forte senso di
alienazione dalle istituzioni, percepite come inefficaci nel rispondere alle
loro esigenze: solo il 12% esprime un giudizio positivo sulla sensibilità delle
istituzioni verso le problematiche giovanili e per l’85% del campione il
livello di attenzione politica nei confronti dei giovani è inadeguato. La
percezione cambia se si guarda all’Unione Europea, che riceve una piena
sufficienza (6/10) nell’indice di fiducia.
Il percorso
formativo viene valutato positivamente dalla maggior parte delle ragazze e dei
ragazzi, con un apprezzamento particolare per le opportunità offerte da
programmi europei come l’Erasmus+. Tuttavia, la realizzazione personale e
professionale rimane ostacolata da barriere significative, tra cui
l’instabilità occupazionale e l’accesso limitato all’abitazione, che
impediscono una piena transizione verso l’indipendenza e la vita adulta.
Le preoccupazioni
legate all’ingresso nel mondo del lavoro dominano il panorama giovanile, con la
paura di precarietà e sotto-retribuzione che si sommano ai timori di ricatti,
molestie o vessazioni sul posto di lavoro, indicati dal 17,5% dei giovani.
Cosa serve agli
under 35 per diventare adulti? Per affrancarsi dai genitori, condizione
primaria è quella di ottenere un lavoro stabile. Allo stesso modo, per crearsi
una famiglia, quasi il 70% dei giovani indica il bisogno di una situazione
economica adeguata. A proposito di genitorialità, più del 60% degli
intervistati esprime il desiderio futuro di avere figli. Il 72% del campione,
inoltre, attribuisce un ruolo centrale al fenomeno della denatalità.
Nel rapporto tra
generazioni, colpisce il fatto che secondo l’opinione di tre intervistati su
quattro (quasi il 75%), gli adulti comprendano “poco” (61%) o “per niente” (più
del 13%) le esigenze e il vissuto dei giovani, in particolare le paure e
fragilità (quasi il 61% delle indicazioni), seguito da aspirazioni e sogni
(circa il 50%).
La ricerca
“Giovani 2024: bilancio di una generazione” è stata realizzata dal Consiglio
Nazionale dei Giovani e dall’Agenzia Italiana per la Gioventù, con il supporto
scientifico di EU.R.E.S. Ricerche Economiche e Sociali. (aise/dip 11)
Sui Com.It.Es.
anche noi, abbiamo preso, già a suo tempo, una posizione. Ora ci torniamo
perché una successiva valutazione potrà, forse, stimolare un articolato
confronto sul fronte della rappresentatività dei Connazionali all’estero.
Limiteremo, in ogni modo, la nostra analisi agli aspetti “pratici” della
questione. Ogni altra considerazione la lasciamo, volentieri, ai politici.
Noi c’eravamo, quando di Com.It.Es. neppure
s’ipotizzava. Sul fronte dell’Emigrazione siamo presenti dal 1961. Questa è,
almeno, una garanzia di continuità. Ciò premesso, pur non volendo
generalizzare, i Comitati hanno perduto, progressivamente, alcuni loro fini
primari. Non pochi si sono trasformati in propagazioni dei partiti e,
scriviamolo francamente, in “trampolini” di lancio per affermazioni politiche
personali o di cordata. Così, pur se organismi elettivi, i Com.It.Es. non
rappresentano che delle “minoranze” degli aventi diritto a eleggerli. Anche i
Candidati, in linea di massima, sono, di solito, gli stessi.
Con molta umiltà, ma anche con scarsa fortuna,
qualche proposta operativa, per superare gli “ostacoli”, l’avevamo presentata
anche noi, all’inizio del nuovo Millennio. In allora, avevamo considerato certe
finalità dei Com.It.Es. come “superate”. Sorpassate, in pratica, dai tempi e
dai ruoli della nostra Comunità nel mondo. Coerenti, come da sempre, non
intendiamo rigettare, ora, quanto avevamo esposto anni addietro. Pur senza
manifestazioni “possibilistiche”, ma convinti delle nostre idee, confidiamo in
un contributo da parte di chi, ufficialmente, rappresenta i vertici dei
Comitati. Perché un contributo d’idee potrebbe giovato a tutti. Siamo, però,
pronti a prendere in esame consigli per rivedere posizioni più adeguate alle
esigenze dei tempi. La nostra disponibilità resta per contribuire agli intenti
dei Connazionali “altrove”. Certo sarebbero urgenti progetti innovativi che,
per la verità, non abbiamo rilevato.
Giorgio Brignola,
de.it.press
Deceduto Michele Schiavone, segretario generale del CGIE
Al termine di una
lunga malattia, lo scorso sabato, 30 marzo, si è spento nella sua casa di
Tägerwilen, in Svizzera, Michele Schiavone, Segretario Generale del Consiglio
Generale degli Italiani all’Estero.
Nato a Fasano, in
Puglia, nel 1960, Schiavone diciottenne si trasferì in Svizzera per
ricongiungersi ai suoi genitori, emigrati a Kreuzlingen agli inizi degli anni
’60. Eletto nel Cgie dal 2004, era al suo secondo mandato come Segretario
generale; candidato del Pd nella circoscrizione Europa alle ultime politiche,
Schiavone per anni ha guidato la federazione svizzera del partito. Oltre alla
moglie Angela, lascia i due figli Yanek Vincenzo e Ismène Teresina.
Tra i primi ad
esprimere cordoglio i consiglieri del Cgie e il Ministro degli esteri Antonio
Tajani, che del Consiglio generale è Presidente.
“Tutti i
Consiglieri insieme al Comitato di Presidenza, alla Segretaria esecutiva e alla
Segreteria del Cgie sono vicini ai famigliari in questo tragico momento ed
esprimono loro il cordoglio più sincero ed affettuoso, associandosi a quello
espresso ieri dal Presidente del Cgie, il Ministro degli Affari Esteri e della
Cooperazione Internazionale, On.le Antonio Tajani”, si legge nella nota del
Cgie.
“Esprimo il mio
personale cordoglio, quello del Governo e della Farnesina per la scomparsa di
Michele Schiavone, Segretario Generale del Consiglio Generale degli Italiani
all’Estero”, ha scritto il Ministro su X. “Ne ricordiamo, con riconoscenza, il
costante impegno a favore dei connazionali nel mondo”.
Cordoglio del Comites
di Berlino. Nell’esprimere “le più sentite condoglianze alla famiglia”
anche a nome delle consigliere e dei consiglieri del Comites, il
presidente Federico Quadrelli, ricorda sui social come
Michele Schiavone “da quando ho iniziato la mia attività di impegno
per la comunità italiana all’estero sia sempre stato presente con i suoi
consigli”. “Abbiamo portato avanti insieme battaglie per le comunità delle
italiane e degli italiani all’estero e il suo impegno è un esempio per tutte e
tutti noi. Michele è parte della storia dell’emigrazione italiana,
dell’attivismo ed impegno civile e politico. La sua morte è un grave perdita
per tutte e tutti noi”. Questo il ricordo della Federazione delle Colonie
Libere Italiane in Svizzera: “Michele Schiavone è morto. Ce lo aspettavamo, fin
dal momento in cui abbiamo capito che aveva smesso di lottare contro un destino
nei confronti del quale ad un certo punto ha capito di dover capitolare. Ciò
non toglie che prendere atto che Michele non è più tra noi si accompagna al dolore
che ci lascia il distacco definitivo da un affetto che vorremmo sempre
rimandato. Perché a Michele tutti noi volevamo davvero bene. Perché Michele era
uno di noi, anzi era, lo abbiamo sempre pensato, uno meglio di noi. Perché lui
era quello al quale abbiamo sempre associato il concetto di generosità, intesa
come la capacità di darsi senza risparmiarsi agli altri, di votarsi in modo
disinteressato ad una causa purché improntata dall’obiettivo di superare
ingiustizia e disparità umane e sociali.
Michele ha
meritatamente ricoperto numerosi e importanti incarichi, sempre con lo spirito
di servizio che ha caratterizzato il suo impegno fra e per gli italiani
all’estero.
A noi ora preme
ricordare l’uomo, l’amico, il compagno di un viaggio terreno con cui abbiamo
condiviso esperienze che ce lo hanno reso caro. Anche per questo, seppur magra
consolazione, possiamo affermare che la sua vita non è transitata invano.
Lo sappiamo:
mancherà soprattutto a sua moglie Angela ai suoi figli Yanek e Ismene. Ma tanto
mancherà anche a noi”. (Aise/de.it.press 2.4.)
“Oltre gli sbarchi”: un’agenda di riforme delle politiche migratorie in
Italia
Analizzando
l’efficacia e gli effetti delle politiche migratorie italiane a partire dal
Testo Unico sull’immigrazione (l. 246/1998), con particolare attenzione alla
gestione delle migrazioni economiche e alle questioni ad essa strettamente
correlate, come l’integrazione e la cittadinanza, saltano agli occhi gravi
criticità, causate da procedure contorte, meccanismi disfunzionali e previsioni
irrealistiche, applicati per oltre un quarto di secolo. Criticità che rendono
sofferenti non solo le condizioni di vita di moltissimi immigrati, mantenendo
precario il loro status giuridico anche a dispetto di un pluriennale
radicamento, ma anche il tessuto sociale, economico e culturale del Paese, che
– pur indebolito – preclude loro una partecipazione piena e attiva, inibendo le
loro potenzialità e compromettendo il loro senso di appartenenza.
La rigida
saldatura del permesso di soggiorno al contratto di lavoro, in fase sia di
primo rilascio sia di rinnovo, unita alla contestuale abolizione del permesso
di ingresso per ricerca lavoro, varati dalla cosiddetta “legge Bossi-Fini” del
2002, non solo ha dato un grande potere coercitivo ai datori di lavoro, e
quindi la stura a gravissimi abusi, ma ha condannato moltissimi soggiornanti
per lavoro a perdere il titolo, non essendo nelle condizioni di esibire un
contratto in essere al momento del rinnovo del permesso.
Non è un caso che
la sacca di stranieri in condizione di irregolarità giuridica resti da anni
fissa intorno al mezzo milione di persone. Solo nel 2022 gli irregolari –
secondo Ismu – sono scesi a circa 458.000 (erano ancora 506.000 nel 2021),
grazie agli effetti di riassorbimento, piuttosto tenui, della regolarizzazione
del 2020, proceduta con sfiancante lentezza e non ancora portata a termine: a
maggio 2023, delle 207.000 domande presentate dai datori di lavoro 3 anni
prima, soltanto 65.000 (31%) avevano terminato l’iter con il rilascio di un permesso
per lavoro, mentre un altro 15% ha conosciuto un definitivo rigetto. A conferma
dell’effetto di breve durata delle regolarizzazioni di massa varate una tantum
(le emersioni, se non supportate da solide tutele e condizioni contrattuali,
restano labili: gli immigrati che ne beneficiano possono ricadere nel sommerso
già alla prima scadenza del permesso, essendo nel frattempo decaduto il
rapporto di lavoro regolarizzato).
Né va meglio il
sistema di espulsione degli irregolari dal territorio: a fronte della suddetta
sacca di 458.000 irregolari, nel 2022 quelli intercettati e raggiunti da un
provvedimento di espulsione sono stati appena 36.770, di cui solo l’11,7%
effettivamente rimpatriato (4.304 persone), a fronte del 15,1% nel 2021 e del
13,7% del 2020; mentre dei migranti transitati, lungo il 2022, in uno dei
Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) sparsi sul territorio nazionale
(6.383: +45,5% rispetto ai 4.387 del 2021), ad essere rimpatriati sono stati
solo il 49,1%.
Alla luce di una
verifica fattuale delle politiche e della governance delle migrazioni
economiche in Italia, IDOS ha elaborato una agenda di auspicabili riforme
nazionali in materia di politiche e gestione delle migrazioni, organizzata per
ambiti tematici.
Tra i punti più
innovativi delle proposte di revisione, spiccano:
- la abolizione
dello status di irregolarità giuridica dei non comunitari (da cui deriverebbero
la decadenza del “reato di clandestinità”, l’abrogazione del provvedimento di
espulsione e della detenzione amministrativa e, quindi, l’abolizione dei Centri
di permanenza per il rimpatrio), da realizzare mediante l’estensione fino a 5
anni della durata dei permessi di soggiorno per lavoro e famiglia (così da
passare poi, senza ulteriori rinnovi, o al già previsto permesso Ue di
lungo-soggiorno o all’acquisizione della cittadinanza italiana per
naturalizzazione);
- l’istituzione di
un permesso annuale di reinserimento socio-occupazionale (che consentirebbe
l’ingresso in appositi programmi di reintegrazione) e un piano di completo
riassorbimento della sacca di irregolarità mediante il rilascio di tale
permesso;
- la revisione dei
meccanismi di ingresso e soggiorno per motivi di lavoro, che si basi su una
programmazione triennale delle quote pienamente rispecchiante il fabbisogno
effettivo del mercato, da effettuare ripristinando il permesso di ingresso per
ricerca lavoro sotto sponsor (opportunamente aggiornato), connettendo la
chiamata nominativa dall’estero a corsi di formazione pre-partenza da
effettuare nei Paesi d’origine o di transito, ripartendo le quote annuali in
sotto-quote dedicate a specifiche casistiche e abolendo sia l’ordine
cronologico di presentazione delle domande di rientro nelle quote (click day)
sia altri inutili obblighi previ imposti ai datori (la verifica dell’indisponibilità
di lavoratori italiani presso i Centro per l’impiego e l’onerosa produzione
dell’asseverazione di sostenibilità economica);
- la acquisizione
della cittadinanza italiana o per naturalizzazione, dopo 5 anni di soggiorno
regolare, o, nel caso dei minorenni, alla nascita o all’arrivo in Italia,
eventualmente come seconda nazionalità insieme a quella trasmessa dai genitori
stranieri, con il diritto di scegliere se mantenerla o rinunciarvi quando
abbiano compiuto la maggiore età (invertendo la ratio attualmente in vigore per
i neo-maggiorenni).
“Questa agenda
virtuale di proposte di riforma delle politiche migratorie nazionali, che
contiene vari spunti innovativi rispetto alle pur notevoli direttrici di
revisione già da tempo circolanti, rappresentano – dice Luca Di Sciullo,
presidente del Centro Studi e Ricerche IDOS – il risultato di una riflessione
originale condotta sull’analisi scientifica del fenomeno. Con questo documento,
si intende contribuire attivamente all’attuale dibattito pubblico sul tema,
fornendo spunti derivanti dalla rigorosa e sistematica rilevazione, ormai
ultratrentennale, degli effetti delle politiche sulla vita concreta dei
migranti che arrivano e vivono in Italia”. Idos 20.3.
Dalla Commissione Ue incentivi a dieci regioni contro l’esodo dei giovani
talenti
Bruxelles - Oggi,
20 marzo, la Commissione europea ha selezionato 10 regioni dell'UE a rischio di
cadere in una "trappola per lo sviluppo dei talenti" che riceveranno
un sostegno su misura nell'ambito del meccanismo di incentivazione dei talenti
allo scopo di attenuare gli effetti dei cambiamenti demografici e dell'esodo
della popolazione più giovane.
Dopo la
pubblicazione di un invito a manifestare interesse nel dicembre 2023, un
comitato di esperti della Commissione ha esaminato le sfide e le esigenze di
ciascuna regione e le motivazioni a ricevere il sostegno di esperti. Sono state
selezionate 10 regioni di 8 Stati membri: Campania (Italia), Nord-Vest
(Romania), Castilla y León (Spagna), Norte (Portogallo), Estremadura (Spagna),
Centre-Val de Loire (Francia), Região Autónoma dos Açores (Portogallo),
Pohjois-Savo (Finlandia), Tessalia (Grecia) e Banská Bystrica (Repubblica
slovacca).
Le regioni
beneficeranno di analisi dettagliate, raccomandazioni strategiche e piani
d'azione concepiti per affrontare le sfide demografiche e territoriali
specifiche, con il sostegno di esperti dell'OCSE.
Il sostegno
nell'ambito del pilastro 2 del meccanismo di incentivazione dei talenti si
rivolge specificamente alle regioni che rischiano di cadere nella cosiddetta
"trappola per lo sviluppo dei talenti", ossia un esodo dei giovani
che comporta un calo della popolazione in età lavorativa, un basso numero di
laureati e diplomati dell'istruzione superiore e difficoltà nel trattenere i
talenti.
Nell'ambito del
pilastro 1 del meccanismo di incentivazione dei talenti, lo scorso novembre
sono state selezionate 10 regioni che si trovavano già in una trappola per lo
sviluppo dei talenti. Queste regioni riceveranno assistenza tecnica per creare
quadri concreti volti ad affrontare gli effetti dei cambiamenti demografici.
Il meccanismo di
incentivazione dei talenti, comprendente otto pilastri, è stato introdotto
dalla comunicazione sull’utilizzo dei talenti nelle regioni d'Europa. Il
meccanismo aiuta le regioni dell'UE colpite dal rapido declino della
popolazione in età lavorativa a formare, trattenere e attrarre persone dotate
delle competenze necessarie per attenuare l'impatto della transizione
demografica. (aise/dip 20)
Ucraina, Zelensky e il piano di Putin: "Dateci armi o guerra presto in
Europa"
La Russia di
Vladimir Putin può essere fermata in Ucraina. Nel momento forse più critico
della guerra, con Kiev a corto di armi e munizioni, l'analisi dell'Institute
for the Study of War (ISW) - think tank americano che monitora il conflitto -
descrive un quadro più fluido e meno scontato di quanto si possa pensare.
"L'Occidente
ha un vantaggio, ma deve decidersi a sfruttarlo. Tutto ciò che deve fare è
prendere posizione" e mobilitarsi per sostenere lo sforzo bellico
dell'Ucraina. Ma cosa significa 'mobilitarsi'? "Significa aumentare la
propria produzione militare, utilizzare maggiormente le proprie capacità
militari attuali e i propri asset economici, accettare una soglia più alta di
sofferenza e rischio ora per evitare maggiori costi, sofferenza e rischio in
futuro".
Zelensky:
"Ora tocca a noi, dopo Putin punterà all'Europa"
"Per Putin,
siamo un satellite della Federazione russa", dice il presidente ucraino
Volodymyr Zelensky alla Cbs descrivendo i rischi di un'estensione del
conflitto.
"Per ora
-aggiunge- siamo noi. Poi il Kazakistan, i paesi baltici, poi la Polonia, la
Germania. O almeno una parte della Germania. Anche domani, i missili possono
arrivare in ogni paese. Questa aggressione e l'esercito di Putin possono
arrivare in Europa. E a quel punto i cittadini degli Stati Uniti e i soldati
degli Stati Uniti dovranno proteggere l'Europa in quanto membri della
Nato".
Molti paesi
occidentali hanno assunto l'impegno di sostenere l'Ucraina fornendo a Kiev armi
nei primi 25 mesi del conflitto. Gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo di
primissimo piano sinora, ma il quadro è cambiato alla fine del 2023 con lo stop
al pacchetto da 60 miliardi di dollari attualmente fermo al Congresso.
I fondi stanziati
dagli Usa, dice Zelensky, vanno valutati in maniera corretta: "Decine di
miliardi -dice alla Cbs- rimangono negli Usa. Il denaro stanziato dal Congresso
rimane, per il 75%, negli Stati Uniti. Le munizioni vengono date a noi, ma la produzione
avviene lì e il denaro rimane negli Usa. E le tasse restano negli Usa".
Il nodo degli
aiuti Usa
Dopo il via libera
del Senato, la legge cruciale deve essere ancora discussa dalla Camera dei
Rappresentanti. Lo stop alle forniture Usa ha messo in grave crisi le forze
armate ucraine in diversi settori del paese: "L'Ucraina deve prendere
decisioni drastiche e scegliere se ritirarsi da alcune zone", ha detto
recentemente il Pentagono attraverso una propria portavoce.
Zelensky
sottolinea la necessità di una rapida approvazione degli aiuti statunitensi da
parte del Congresso americano nel corso di un colloquio con il presidente della
Camera dei Rappresentanti di Washington, Mike Johnson. A riferirne è lo stesso
Zelensky, in un post su X: "Ho parlato con lo Speaker Johnson, e ho
ringraziato personalmente lui, entrambi i partiti, il popolo americano e il
presidente Biden per il loro sostegno all'Ucraina dall'inizio dell'invasione su
vasta scala della Russia".
"Ho informato
il presidente Johnson sulla situazione sul campo di battaglia, in particolare
sul drammatico aumento del terrore aereo russo", aggiunge Zelensky.
"Solo la scorsa settimana, 190 missili, 140 droni Shahed e 700 bombe aeree
guidate sono state lanciate contro città e comunità ucraine. La più grande
centrale idroelettrica è stata bloccata". "In questa situazione - ha
sottolineato - il rapido passaggio degli aiuti statunitensi all’Ucraina da
parte del Congresso è vitale. Riconosciamo che ci sono opinioni divergenti in
seno alla Camera dei Rappresentanti su come procedere, ma la chiave è mantenere
la questione degli aiuti all’Ucraina come fattore unificante".
"Abbiamo
anche discusso dell'importanza di tagliare al più presto possibile le fonti di
finanziamento della Russia per la sua guerra e di utilizzare i beni russi
congelati a vantaggio dell’Ucraina. A questo riguardo contiamo anche sulla
leadership del Congresso", conclude.
La nuova fase
della guerra, Kharkiv nel mirino
La guerra dovrebbe
andare incontro ad una nuova fase a partire da maggio, quando potrebbe prendere
forma la nuova offensiva della Russia. Putin, dopo la vittoria nelle elezioni
presidenziali, ha più volte fatto riferimento alla necessità di creare una
'zona cuscinetto' che nella regione di Kharkiv garantisca maggiore sicurezza ai
territori controllati dalla Russia.
Nelle ultime ore,
le truppe russe hanno sferrato nuovi attacchi nell'Ucraina orientale, con
pesanti combattimenti segnalati intorno alle città di Avdiivka e Bakhmut. Nel
suo rapporto quotidiano sulla situazione sul terreno, lo Stato maggiore ucraino
ha elencato 11 parziali avanzate russe in direzione di quattro località. Lungo
tutta la linea del fronte, dal sud all'est dell'Ucraina, secondo il rapporto,
sono scoppiate complessivamente 48 battaglie. Ci sono inoltre stati attacchi
aerei e di artiglieria russi vicino a Kharkiv.
Cosa deve fare
l'Occidente
Proprio Kharkiv
potrebbe essere il nuovo teatro principale della guerra di logoramento, con
Mosca che continua a riversare uomini al fronte sostanzialmente incurante delle
perdite. La Russia da tempo investe circa un terzo del Pil nel settore della
difesa, garantendo il funzionamento costante della macchina militare.
Dall'altra parte,
serve un impegno di livello adeguato dei paesi occidentali, che - secondo l'ISW
- devono "compiere passi specifici e immediati. Dovrebbero dare aiuto
militare sufficiente e altro supporto richiesto dall'Ucraina per ricominciare a
operare sul campo di battaglia".
L'Occidente
dovrebbe anche aiutare l'Ucraina a sfruttare i punti deboli delle forze armate
russe, con particolare attenzione alla possibilità di colpire la flotta del Mar
Nero. Secondo l'Ucraina, Mosca potrebbe aver perso circa un terzo della sua
flotta. "La Russia non può sconfiggere l'Ucraina o l'Occidente – e
probabilmente perderà – se l'Occidente mobilita le sue risorse per resistere al
Cremlino", la sintesi dell'ISW. Adnkronos 29.3.
La politica ha
ripreso, rapidamente, il suo ruolo. Con tante polemiche, qualche promessa e
tempi d’applicazione difficilmente gestibili. Intanto, l’Italia “affonda” nel
mare dei suoi problemi socio/economici. Non è facile presentare un quadro
dell’Italia tra com’era e come sarà.
Quello che appare evidente è la necessità di
nuove risorse e di progetti innovativi che consentano, almeno, di non
peggiorare la situazione del Paese. Ci sono ancora troppe incertezze da eliminare
per garantire un futuro meno ambiguo in un’Europa che dovrà far fronte comune
per uscire dalla depressione. Manca ancora, a nostro avviso, la consapevolezza
di una politica che renda operativi i rapporti tra i politici delle più
disparate tendenze. Le polemiche non risolvono.
Per fronteggiare
l’emergenza, mancano ancora programmi che tengano conto di com’eravamo e come
potremo essere. La Penisola avrebbe necessità di una ristrutturazione globale
che coinvolga il presente per garantirci un migliore futuro. Insomma, ci sono
delle priorità che non sono state ancora evidenziate nella loro globalità. Per
fronteggiare l’emergenza economica sono indispensabili nuove idee e priorità da
focalizzare. I rischi di un aggravamento della recessione proprio non mancano.
La tecnologia potrà esserci d’aiuto; ma non
sostituirà ciò che solo l’impegno umano può realizzare. Ristrutturare il Paese
non sarà facile. Tra l’altro, ci vorrà tempo e volontà per farlo. E su questa
volontà si è appunta la nostra attenzione. Perché non la sentiamo valida come,
invece, dovrebbe essere. E’ lo Stato che potrebbe affrontare le tante emergenze
del Bel Paese. La Solidarietà Stellata non verrà a mancare. Ma se la
concretezza dovesse essere sopraffatta dalle polemiche, non ci sarà futuro.Giorgio
Brignola, de.it.press
Le politiche migratorie europee e tunisine: una ricetta per fallimento e
sofferenza
Dopo mesi di
aumento significativo della migrazione irregolare dalla Tunisia all’Europa, la
presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e la Presidente del
Consiglio Giorgia Meloni, insieme ad altri leader dell’Ue, hanno scelto di
promuovere quella che ritengono la migliore via per produrre risultati
immediati: aumentare la fornitura di denaro, attrezzature e formazione alle
forze di sicurezza tunisine (FST) per combattere l’industria crescente
dell’immigrazione irregolare.
A fine 2023, la
Commissione europea ha annunciato di voler creare accordi su “nuovi
partenariati operativi anti-trafficanti” che aumenterebbero i controlli alle
frontiere, la cooperazione tra le forze di polizia e il
reparto giudiziario e quella con le agenzie dell’Ue (ad esempio, Frontex).
Il 28 novembre è stata inoltre convocata a Bruxelles una “conferenza
internazionale su un’alleanza globale per contrastare il traffico di migranti”.
Come ha affermato un alto funzionario dell’Ue a Tunisi a Refugees
International, “c’è un forte desiderio da parte di alcuni in Europa di fornire
al governo tunisino e alle forze di sicurezza la massima quantità possibile di
risorse il più presto possibile per fermare le barche, ora e in futuro”.
La strategia
prevista dall’Ue, tuttavia, sembra destinata al fallimento, non raggiungendo
l’obiettivo di controllare l’immigrazione irregolare e mancando i criteri più
ampi di adesione agli impegni legali, ai principi dei diritti umani e a
un’efficace politica migratoria complessiva. Questo approccio dimostra quattro
carenze principali.
Le pratiche
abusive e autoritarie del governo Saïed
Innanzitutto, a
differenza della Turchia (secondo alcuni leader dell’Ue modello di successo per
prevenire l’immigrazione irregolare), la Tunisia è uno Stato più debole e
diviso che sta diventando ancora più fragile a causa del crescente
autoritarismo del presidente Kaïs Saïed. Nonostante l’urgenza di aiuti
finanziari per evitare la bancarotta, Saïed continua a minare gli sforzi per
ottenere sostegno dal Fondo Monetario Internazionale.
Allo stesso tempo,
Saïed ha ripetutamente minacciato stabilità e capacità dello Stato da quando ha
sospeso unilateralmente il Parlamento nel luglio 2021, smantellato le
istituzioni locali e utilizzato le forze di sicurezza per reprimere
l’opposizione politica e imprigionare importanti dissidenti. Saïed ha
sistematicamente ridotto l’indipendenza del sistema giudiziario e attaccato la
libertà di associazione e quella di stampa.
Meno apprezzato –
ma cruciale per gli obiettivi dell’Ue – è il simultaneo indebolimento del
settore della sicurezza del paese: già gravemente diviso prima della presidenza
di Saïed, appare ora lacerato da una crescente frammentazione e da conflitti
interni. Un importante analista politico tunisino ha osservato a Refugees
International che il ministero degli Interni, che controlla polizia, Guardia
nazionale e Guardia costiera, sta attraversando un ulteriore collasso
centrifugo.
Per quanto
riguarda la politica migratoria, il governo di Saïed e le forze di sicurezza
tunisine hanno risposto non tanto con una gestione professionale della
migrazione, quanto con politiche incoerenti e pratiche abusive come le
espulsioni illegali nelle aree desertiche e di confine di migliaia di persone
durante l’estate 2023. Ciò ha provocato decine di morti e feriti, nonché
centinaia di migranti rimasti bloccati senza aiuti. In un altro riflesso
dell’approccio illegale adottato, le autorità tunisine hanno effettuato nuove
espulsioni alle frontiere nel settembre 2023 trasportando migranti in autobus
verso località note per il traffico di esseri umani. In tal modo, i funzionari
ne hanno agevolato l’industria e hanno dimostrato pubblicamente che avrebbero
periodicamente facilitato gli imbarchi se e quando lo avessero ritenuto
necessario.
In questo contesto
di crescente fragilità statale, malgoverno e misure illegali, è improbabile che
l’attuale governo tunisino sia in grado di allocare efficacemente nuove risorse
al settore della sicurezza, attuando riforme di supervisione e responsabilità
necessarie per ridurre partenze e migliorare la gestione umana e ordinata della
migrazione. Il risultato più probabile è il rinnovato abuso dei migranti con
scarso impatto sulle partenze verso l’Europa.
I profitti legati
al traffico di esseri umani
Questa realtà è
ulteriormente rafforzata dalla presenza di sempre più elementi delle FST che
lucrano sulle operazioni di traffico. L’indagine condotta tra agosto e ottobre
2023 da Refugees International indica che quest’ultimi sono da tempo coinvolti
nell’industria del traffico di esseri umani del paese. Attraverso dozzine di
interviste, tra cui una con dieci funzionari della sicurezza nel sud della
Tunisia, è chiaro che i sostanziali profitti disponibili dall’industria del
traffico e il debole controllo statale hanno portato a una maggiore collusione
da parte delle FST poiché sempre più migranti, rifugiati e richiedenti asilo
transitano per e lasciano la Tunisia – mentre l’economia nelle aree meridionali
si contrae.
Sebbene i
possibili collegamenti tra tale collusione e la leadership delle FST di livello
superiore rimangano poco chiari, vi sono minime evidenze di condanne per tali
pratiche. Negli ultimi mesi le operazioni di sicurezza contro trafficanti e
migranti hanno portato all’arresto di un funzionario della sicurezza,
denunciato pubblicamente. Questa assenza di indagini solleva dubbi
significativi su come risorse aggiuntive e formazione per le FST possano aver
un impatto sui flussi migratori, soprattutto considerando che rimarrà un forte
motivo di profitto. Il maggiore sostegno dell’Ue alla repressione
dell’immigrazione, unito a occasionali interventi di sicurezza da Tunisi,
produrrà solo “risultati” temporanei. Tuttavia, questo potrebbe aumentare la
pressione per nuove ondate di abusi, poiché il governo cerca di dimostrare di
avere la situazione degli imbarchi sotto controllo.
La rotta tunisina
è meno pericolosa
Il terzo fattore
che mina gli sforzi dell’Europa per scoraggiare l’immigrazione irregolare
attraverso la Tunisia è che, nonostante l’abusività delle FST, le condizioni
rimarranno con ogni probabilità relativamente meno terribili rispetto alle
vicine Libia o Algeria, dove l’impunità, le violazioni dei diritti umani e i
rischi per i migranti sono assai peggiori. Come ha affermato un migrante
guineano arrivato a Sfax dopo le espulsioni di inizio luglio: “Almeno in
Tunisia sento ancora l’odore della libertà e dei diritti… E questo basta per
andare avanti”.
Le condizioni di
partenza spingono le persone a emigrare
Questo aspetto,
così come la posizione geografica della Tunisia a cavallo tra diverse isole
europee, è collegato a un quarto fattore che indebolisce l’attenzione primaria
sulla migrazione irregolare e sul traffico di esseri umani: il numero di
persone in fuga da guerre, povertà e instabilità nella regione non diminuirà
dato che le condizioni che le spingono sono destinate a peggiorare. Il
risultato, quindi, è che continuerà a esserci un gran numero di migranti,
rifugiati e richiedenti asilo in transito proprio attraverso la Tunisia. Come
in tanti altri luoghi nel mondo, la domanda costante di servizi di traffico di
esseri umani per viaggi pericolosi verso le coste europee sarà molto
probabilmente soddisfatta da un’industria sempre più radicata; questo accadrà
tanto più che lo stato tunisino vacilla e sempre più funzionari si corrompono.
Ripensare le
politiche migratorie in difesa dei diritti umani
L’approccio di
breve termine nei confronti della Tunisia, avanzato dal “Team Europe”, è quindi
destinato a fallire sia sul piano proprio, non riuscendo a contenere
l’immigrazione irregolare, sia sul piano giuridico ed etico, vincolando il
sostegno dell’Ue all’inevitabilità di gravi violazioni dei diritti umani da
parte delle autorità tunisine. Come è stato ampiamente citato dai difensori di
tali diritti, dal Ombudsman dell’Ue e da alcuni funzionari europei,
l’incapacità dell’Ue di includere garanzie e controlli significativi per gli
abusi dei diritti umani in Tunisia la espone a una condizione di complicità.
Ciò è in diretta contraddizione con il diritto e i valori dell’Ue.
Se la migrazione
informale verso la Tunisia non può essere controllata in modo significativo
dalle politiche dell’Ue e della Tunisia, e se quella irregolare dalla Tunisia
non può essere scoraggiata a causa della corruzione delle forze di sicurezza e
della debolezza generale dello Stato, quali opzioni restano ai politici
dell’Ue? Nell’immediato, l’Ue deve essere disposta a porre ferme condizioni su
qualsiasi accordo di gestione della migrazione con Tunisi, anche a rischio di
far saltare eventuali trattative. Ciò includerebbe, come minimo: cessare gli
abusi sui migranti da parte delle FST, in particolare la pratica di detenzione
ed espulsione sommaria dei migranti verso le aree di confine, indagare e
condannare gli elementi delle FST coinvolti nel traffico di esseri umani e
negli abusi sui migranti e facilitare una maggiore espansione dei servizi di
aiuto d’emergenza per i migranti attraverso la Mezzaluna Rossa Tunisina e le
organizzazioni umanitarie tunisine e internazionali.
L’attuale urgente
necessità dell’Ue nel raggiungere un accordo finisce per concedere a Saïed
un’enorme leva negoziale, a scapito di garantire un’intesa che potrebbe essere
umana o efficace. Nelle consultazioni con Refugees International, alti
funzionari dell’Ue a Tunisi e Bruxelles hanno espresso riluttanza nell’adottare
misure significative di supervisione o responsabilità sulla cooperazione
migratoria Ue-Tunisia, per paura che il governo tunisino abbandonasse il
tavolo. Se così fosse, l’Ue avrebbe già perso la prospettiva di un accordo
fattibile. Lo scenario predefinito basato sulle pratiche seguite finora dalla
Tunisia è che un nuovo accordo farebbe ben poco per affrontare la corruzione
che sta parzialmente consentendo l’impennata dell’immigrazione irregolare, ma
potrebbe rafforzare il potere delle forze di sicurezza che sono state
responsabili di abusi sistematici. In un simile scenario l’Ue otterrebbe scarsi
progressi in materia di migrazione, ma si troverebbe a esporre gravemente la
propria reputazione.
Adottare una linea
più dura con la Tunisia comporterebbe dei rischi: Saïed potrebbe abbandonare un
accordo che prevede una significativa responsabilità per gli abusi e misure per
mitigare la collusione con i trafficanti. Ma in entrambi i casi i livelli di
emigrazione potrebbero non apparire così diversi. Almeno, sollevando il
dibattito sui controlli, l’Ue avrebbe la possibilità di dare potere a voci più
responsabili all’interno del sistema tunisino che sono rimaste sconvolte dagli
abusi, dalla corruzione e dallo smantellamento dello Stato a cui si è assistito
nel 2023.
Nel lungo termine,
l’Ue dovrebbe riconsiderare la fattibilità di una politica migratoria basata
sulla deterrenza nel Mediterraneo. Quasi un decennio di politiche di deterrenza
ed esternalizzazione ha spostato l’immigrazione irregolare verso punti diversi,
alimentato la crescita di reti criminali che possono renderla più pericolosa e
monetizzare la disperazione dei migranti.
È imperativo che
l’Ue esplori e attui percorsi di migrazione legale espansivi e incentrati sugli
aspetti umanitari. Questo cambiamento può rappresentare la soluzione più
efficace per una politica sostenibile a lungo termine che affronti la
migrazione irregolare. Refugees International, AffInt 18.3.
Il Manifesto in 8 punti della FILEF per le elezioni europee 2024
La rete FILEF ha
pubblicato in queste ore un Manifesto per le elezioni europee 2024 con 8 punti
per un futuro possibile in quanto considera il rinnovo del Parlamento Europeo
un appuntamento cruciale per la storia del continente e dei suoi cittadini.
L'idea del
manifesto è quella di sollecitare i cittadini italiani (all’estero e in Italia)
e il mondo politico su alcuni punti che crediamo necessari per caratterizzare
una Unione Europea progressista, che metta la vita, il benessere e i diritti
dei cittadini al centro della sua legislazione e delle sue politiche.
Gli 8 punti
1. Una mobilità
europea circolare e sostenibile nel tempo
Politiche
economiche e di sviluppo della UE che favoriscano uno sviluppo armonico di
tutti i paesi. La mobilità interna sia solo una delle possibilità di sviluppo
dei cittadini, e non l’unica scelta rimasta per sopravvivere. Il diritto al
restare nelle aree di provenienza con una vita dignitosa deve essere un diritto
garantito.
2. Per un welfare
e una cittadinanza europea
Far convergere i
sistemi di welfare nazionale allineandoli agli standard più elevati. Una
cittadinanza europea che garantisca un’uniformità di prestazioni e una
portabilità dei diritti fondamentali a chi vive nell’Unione Europea.
3. Per una
migrazione sicura e solidale
Rafforzare i
percorsi migratori sicuri e solidali, migliorare le tutele, i diritti e il
sostegno ai migranti e ai richiedenti asilo all’interno dell’UE. Le vite umane
da salvare devono essere una priorità, va rispettata la Carta dei diritti
fondamentali dell'UE. Nessuna esternalizzazione delle frontiere e per il
rafforzamento delle politiche di cooperazione con i paesi di partenza.
4. Uno sviluppo
europeo equilibrato, nessuno rimanga indietro Realizzare politiche di sviluppo
per colmare il divario tra i paesi più forti e le periferie dell’Unione
Europea. La cura delle aree interne e spopolate è una delle leve per uno
sviluppo più equilibrato. No ad un ritorno alle politiche di austerità.
5. Migliori
servizi e infrastrutture
No alle politiche
di austerità, sì ad un piano di investimenti pubblici. Le risorse vanno
reperite da una tassazione progressiva che sposti il carico fiscale nella UE
dal lavoro alla rendita.
6. Ridurre la
precarietà del lavoro e aumentare le protezioni sociali
È tempo per
avviare un reddito universale europeo per garantire a tutti una vita dignitosa.
7. Transizione
ecologica e sociale
Per una
transizione ecologica che tenga conto della transizione sociale necessaria ad
accompagnare i cambi di paradigma energetici.
8. Per un’Europa
protagonista
Un'Unione che
agisca a livello globale per promuovere la pace, la democrazia, i diritti
umani, lo stato di diritto e la giustizia economica globale e tutti i principi
richiamati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
(aise/dip 29.3.)
Digitalizzazione dei servizi consolari: operazione riuscita, paziente
morto?
La Farnesina
procede con la digitalizzazione. Gli italiani all’estero fanno fatica a starci
dietro
Forse è solo un
problema di generazioni. Cambia la tecnologia e la gente fa fatica a tenere il
passo. Sono però trascorsi quasi trent’anni da quando la Farnesina, con i suoi
consolati all’estero, si affacciò sulla digitalizzazione dei servizi.
Pochi lettori
ricorderanno Alfredo Mantica, sottosegretario agli esteri, quando s’inventò il
“totem” che era una specie di colonnina alle entrate dei consolati, con la
quale i connazionali digitavano i propri dati e le proprie richieste per un
servizio.
I totem sparirono,
e Alfredo Mantica pure, ma la Farnesina non si scoraggiò. Fu creato il SIFC-
Sistema Integrato Funzioni Consolari-, uno strumento a disposizione dei
consolati veramente utile e prezioso. Una sorta di banca dati, con cui
l’operatore può accedere ai vari servizi, alle informazioni sull’utente e alla
comunicazione diretta con le altre banche dati italiane.
Poi fu la volta
del FAST-IT -Farnesina Servizi telematici Italiani all’Estero- con il quale il
connazionale può iscriversi all’AIRE e può accedere, via internet, ai propri
dati e chiederne la variazione come il nuovo indirizzo, il cambiamento dello
stato civile e via dicendo.
Infine,
PrenoT@ami, che è il sistema di richiesta appuntamenti con il consolato
“comodamente” da casa.
Ora è la volta di
Chatbot, un sistema di comunicazione che accoglie le domande degli utenti e
fornisce risposte preconfezionate.
Non si può dire,
pertanto, che la Farnesina stia dormendo per quanto riguarda i vari tentativi
di modernizzare i suoi servizi all’estero.
Tentativi,
appunto. Infatti, ciò che salta all’occhio è lo scarsissimo effetto che questa
digitalizzazione dei servizi consolari ha sulla percezione di una reale
facilitazione della vita dell’utente nei confronti dell’amministrazione.
In netto contrasto
sono l’enfasi con la quale il nostro Ministero degli Affari Esteri annuncia le
sue ultime soluzioni telematiche e lo scetticismo con il quale la comunità
italiana all’estero le accoglie.
Qui c’è qualcosa
che non va. Non si spiega come mai ogni nuova idea per modernizzare la
burocrazia italiana all’estero sia accolta piuttosto come un ostacolo e mai con
entusiasmo.
È un problema di
generazione? È un problema di mentalità? È un problema di comunicazione?
Una cosa è certa e
cioè che la digitalizzazione non ha raggiunto (ancora?) i suoi obiettivi che
dovrebbero essere quelli di facilitare la vita dell’utente, di velocizzare i
servizi e di comunicare meglio.
Dove sta, infatti,
la differenza tra oggi e trent’anni fa?
Trent’anni fa mi
presentavo al consolato alle otto del mattino, mi mettevo in fila con la
sigaretta in mano, mi facevo la chiacchierata con l’amico incontrato per caso,
riempivo un formulario con la penna a biro, e dopo due ore e mezza me ne andavo
a casa per tornare dopo una settimana a ritirare il documento. Oggi le due ore
e mezza le perdo spesso davanti al PC per chiedere un appuntamento che mi viene
dato dopo otto mesi. Il formulario lo compilo online. Online significa che, se
non capisco una domanda, davanti a me non c’è nessun essere umano che me la
spiega. Ma, l’effetto peggiore è la crescente perdita di ogni riferimento
personale tra soggetti che lavorano per rendere servizi e soggetti che li
chiedono. E questo, sia ben inteso non è un problema che riguarda solo i
consolati. Tutta l’amministrazione italiana, europea e mondiale digitalizza i
suoi servizi. Così è, punto e basta. È un processo irreversibile. La risposta
“Mi dispiace ma lei non è registrato nel sistema” è demoralizzante ed è
possibile riceverla in ogni parte del mondo. Il che significa che, se il
computer non mi riconosce, io non esisto. Gli appuntamenti online non
riconoscono concetti come urgenza, emergenza, disgrazia, paura.
La
digitalizzazione non ha sentimenti, sensazioni e umanità. Un filosofo tedesco,
mi pare si chiamasse Heidegger, ha messo in guardia tutti contro la
tecnologizzazione della società. Secondo lui, dopo che la tecnica ha invaso il
nostro modo di vivere, il bosco e la foresta perdono l’incanto e diventano una
semplice riserva di legna da ardere mentre i fiumi si privano del fascino della
natura e sono ora semplici masse d’acqua per ricavare energia elettrica. E il
consolato? Il luogo che era la “casa degli italiani” dove “il tricolore
sventola con orgoglio in terra straniera” dove “mi rifugio” se sono
perseguitato all’estero”?
Cosa diventa il
consolato? Un posto dove farmi una bella chiacchierata con Chatbot? Speriamo di
no. Pasquale Marino, CdI aprile
Il problema
politico, complicato da una burocrazia che sarà difficile sradicare, dovrà
essere adeguato alle nuove esigenze di un Paese da “riordinare” a tutti i
livelli. I cambiamenti, pur se progressivi, ci saranno. Ne va della stessa
sopravvivenza economica nazionale. La nuova ripartizione dell’Italia dovrebbe
partire dai “vertici” e, poi, distribuirsi verso la base. Comprendiamo che sarà
difficile trovare i mezzi per riuscirci. Ma è indispensabile trovarli. Partendo
dalla semplificazione burocratica e dai meccanismi di giustizia sociale.
Le prime da “sanificare” saranno le nostre
infrastrutture e i rapporti tra Burocrazia e Cittadino. L’attuale modello
d’Italia non è più in grado di reggere una situazione tanto complessa. La
nostra economia è sempre stata fragile; ora è in rapido declino. I rapporti tra
Stato e Cittadino dovranno essere ridisegnati con una ripresa sostenibile che,
però, non freni i progetti per il “nuovo”. Si dovranno riesaminare i concetti
di beni comuni per agevolare le iniziative che, dai singoli, potrebbero passare
ai più. Il pregio economico nazionale, necessariamente, dovrà essere
distribuito in modo assai differente dall’attuale.
In questi mesi,
tutti i “mali” nazionali sono emersi in modo tragico. Ovviamente, la politica
dovrà fare la sua parte. Ma in modo diverso da quello al quale c’eravamo
assuefatti. Prima, c’era molta inerzia. In futuro non dovrebbe essercene più. I
progetti, a tempi brevi, non avranno più pregio e la responsabilità per
realizzarli dovrà essere condivisa tra economia e politica. Favorendo i beni
generali da quelli individuali. Insomma, l’Italia sarà soggetta a cambiamenti
profondi; ma con la partecipazione responsabile di tutti. Come a scrivere che
le buone idee dovranno essere trasferite nei fatti. Diversamente, non avranno
il pregio che meritano. Giorgio Brignola, de.it.press
Gli italiani all’estero detenuti
Sotto le catene
del silenzio: Un viaggio nel labirinto delle detenzioni italiane all’estero
La vicenda della
maestra Ilaria Salis portata in tribunale a Budapest con “i ferri” ha suscitato
indignazione e sottolineato la scarsa furbizia del governo di Orban che – se
avesse evitato quelle immagini, facendo accompagnare in aula la detenuta senza
catene e inutili manette – avrebbe potuto gestire il caso giudiziario senza
offrire un punto debole di immagine proprio nel momento in cui aveva bisogno di
“sponde” a Bruxelles.
Anche se negli
Stati Uniti d’America nessuno si indigna, e gli imputati hanno anche la tuta
arancione come il nostro Chico Forti, che secondo il Rappresentante speciale
dell’UE per la regione del Golfo, già Ministro degli Esteri italiano, doveva
essere in Italia da anni, bisogna chiedersi: dove sono i “buonisti e pronti ad
accusare certi governi”, ma ovviamente non quelli orientati a sinistra?
Essendo la Salis
evidentemente un’attivista di sinistra (andata volutamente in Ungheria per
protestare, unitamente ad anarchici e comunisti tedeschi), si è comunque subito
mobilitata la solidarietà con il coro delle accuse per il comportamento
“disumano” e le condizioni nelle carceri magiare.
Il caso ha ovviamente
preso così una piega tutta politica e come tale finirà, ma ha anche aperto
(forse) qualche interrogativo sulla situazione di tanti altri detenuti italiani
all’estero di cui purtroppo si sa poco o nulla con l’impressione che una certa
politica fa sempre due pesi e due misure. Basti ricordare l’arresto di un
nostro diplomatico, l’ambasciatore Bosio nel 2013 nelle Filippine, dopo
l’accusa infamante di due attiviste della Ong ‘Bahay Tuluyan‘ australiana, che
dopo averlo denunciato per pedofilia sono subito “scappate” in Australia.
Il governo di
sinistra di allora (presidente del Consiglio Renzi) nulla ha fatto per
aiutarlo. Era stato arrestato a Manila il 5 aprile 2014 – quando era a capo
della sede diplomatica del Turkmenistan – dopo avere rifocillato e portato in
un parco tre bambini, con il via libera dei rispettivi genitori, avendo una
lunga militanza nel volontariato per bambini. Tante le falle della Farnesina
nella vicenda, dalla scelta dell’avvocato al silenzio dell’ambasciata di
Manila, che non si è affatto preoccupata per un collega. E lui oggi dice: “Devo
riprendere il mio lavoro. Spero solo di non continuare a essere considerato un
problema burocratico”.
È rientrato in
Italia “dopo cinquanta giorni di carcere in condizioni disumane, quaranta giorni
di ospedale e venti mesi di incubo”, dopo essere stato arrestato per traffico
di esseri umani e di abuso e sfruttamento dei minori.
Dove erano allora
i ben pensanti che ora giudicano disumano il fatto di una attivista di sinistra
andata appositamente all’estero per protestare, così come successe durante il
G20 ad Amburgo nel 2017, dove tra l’altro ci furono violenti scontri con i
black block e vari arresti anche di italiani che si professarono innocenti? Non
potevano starsene a casa? Una cosa è protestare in maniera pacifica, un’altra è
protestare con violenza, e quindi poi debbono assumersene le responsabilità.
D’altronde, ad
esempio, se sei incarcerato in un paese africano passano a volte dei mesi prima
che qualcuno sappia di te e ben raramente – e comunque dopo tempi infiniti – un
nostro console passerà a trovarti, anche perché (ma questo non lo sa quasi
nessuno) in moltissimi paesi del mondo non ci sono nostre ambasciate o
consolati, ma al più solo consoli onorari che si occupano di tutt’altro e non hanno
ovviamente una immunità diplomatica.
Sono oltre duemila
gli italiani detenuti all’estero, ma mentre la notifica di detenzione alle
nostre autorità viene rallentata dagli oscuri meandri della burocrazia – che
spesso – ad esempio – in Africa ha tempi ben peggiori dei nostri – oltre alle
consuete violenze fisiche, se ti chiudono in un carcere straniero spesso ti
ritrovi senza soldi, senza collegamenti, senza difesa.
In Egitto sono
normali celle con 50-60 detenuti, in Venezuela i penitenziari sono di fatto
controllati dalle bande interne, mentre vi sconsigliamo la visita a un carcere
indiano. Altro che garanzie o assistenza diplomatica: nulla. In Ruanda le
carceri sono semplicemente tendopoli circondate da filo spinato senza neppure
l’acqua corrente.
L’iniquità, le
violenze e la corruzione sono poi di solito endemiche e più è basso il livello
di vita di un paese più i detenuti sono considerati la feccia umana, su cui
tutto è permesso.
Certamente se sei
ricco e te lo puoi permettere diventerai il pupillo del corrotto direttore del
carcere, ma a volte – se neppure i tuoi sanno che sei in galera – è impossibile
perfino collegarsi con l’esterno per chiedere aiuto.
Ricordiamo
l’impegno di don Leonardo, un giovane sacerdote milanese, il quale aveva
organizzato “Soccorso Icaro”, ovvero un’assistenza per gli italiani rilasciati
dal carcere in Venezuela in libertà condizionale, ma obbligati a rimanere nel
paese fino ai processi di solito per incidenti stradali o piccoli traffici di
droga.
Spesso,
soprattutto in Africa ed America Latina, lo straniero è tra l’altro accusato ed
incarcerato senza alcuna colpa, ma solo per un ricatto economico in vista di
una “mancia” ai giudici o ai secondini e così resti detenuto finché la famiglia
non paga un vero e proprio riscatto, di solito attraverso avvocati corrotti più
dei giudici, e che hanno tutto l’interesse affinché il cliente resti a lungo
nel bisogno.
Forse ci si
immagina che un italiano detenuto sia in qualche modo aiutato e protetto, ma
pochi sanno come siano minime le nostre presenze diplomatiche “sul campo” e
spesso passano settimane e mesi prima che un governo africano comunichi
all’ambasciata italiana (che di solito è in un altro paese) l’avvenuto arresto
di un connazionale che nel frattempo è carne da macello, purtroppo spesso in
tutti i sensi.
D’altronde se una
nostra ambasciata-tipo, da quelle parti ha solo due diplomatici (di solito
l’ambasciatore ed un suo giovane vice) e deve coprire molti paesi contemporaneamente,
difficile che almeno il “vice” possa arrivare a visitare un italiano detenuto,
magari in un piccolo carcere di provincia a centinaia o migliaia di chilometri
dalla nostra più vicina sede diplomatica.
Le avventure dei
nostri turisti in Madagascar (paese in cui la nostra ambasciata è stata chiusa,
dipendendo ora da Pretoria, in Sudafrica, che contemporaneamente “copre” sette
diversi paesi in tutto il sud del continente e che al Madagascar non è neppure
collegata direttamente via aerea) come quelle in altri paesi hanno spesso
portato a proteste ed inascoltate interrogazioni parlamentari. Spesso è poi
difficile la cooperazione all’estero tra gli stessi paesi della UE in una sorta
di malcelata rivalità, mentre sarebbe molto più logico ed economico che –
soprattutto nei piccoli paesi africani o asiatici – una rappresentanza unica ma
efficiente dell’Unione Europea segua le vicende di tutti i cittadini europei,
compresi quelli detenuti, come già in teoria dovrebbe essere, ma che nella
pratica, spesso, purtroppo non avviene.
Tematiche di cui
si sa poco o nulla, che raramente vanno sui giornali, ma hanno sconvolto le
vite di molte famiglie quando hanno scoperto, spesso dopo lungo tempo, che il
familiare scomparso era semplicemente detenuto iniziando, per cercare di
liberarlo, un vero e proprio calvario, e di questi nostri connazionali chi se
ne preoccupa? …. soprattutto se non sono attivisti di sinistra, per i quali
invece c’è subito pronta una poltrona in parlamento ed in questo caso
specifico, la proposta è di candidare la Salis all’europarlamento, come la
Carola Rackete, candidata per la Die Linke, che a capo della Sea Watch che ha
un equipaggio prevalentemente tedesco, ma naviga sotto bandiera olandese, ha
fatto quello che tutti sanno nel nostro Paese. Nei Paesi Bassi, il più grande
partito al governo, VVD, ha dichiarato che le organizzazioni non governative
che prelevano consapevolmente persone senza permesso devono essere condannate
per favoreggiamento della tratta di esseri umani ed il portavoce Jeroen van
Wijngaarden ha dichiarato: “In realtà non sono un servizio di emergenza, ma un
servizio di traghetti!” Pierluigi Vignola, CdI marzo
Esistenza in vita: partita la prima campagna 2024
Roma - È iniziata
lo scorso 20 marzo la prima fase della campagna di esistenza in vita che l’Inps
rivolge, attraverso Citibank, ai pensionati italiani all’estero.
Questa prima fase,
riferita all’anno 2024, si svolgerà fino a luglio 2024 e riguarderà i
pensionati residenti in America, Asia, Estremo Oriente, Paesi scandinavi, Stati
dell’Est Europa e Paesi limitrofi.
Citibank N.A. ha
iniziato la spedizione delle richieste di attestazione dell’esistenza in vita
il 20 marzo; i pensionati dovranno far pervenire le attestazioni entro il 18
luglio 2024. Nel caso in cui l’attestazione non sia prodotta, il pagamento
della rata di agosto 2024, laddove possibile, avverrà in contanti presso le
Agenzie Western Union del Paese di residenza. In caso di mancata riscossione
personale o produzione dell’attestazione di esistenza in vita entro il 19
agosto 2024, il pagamento delle pensioni sarà sospeso a partire dalla rata di
settembre 2024.
La seconda fase
della verifica, che si svolgerà da settembre 2024 a gennaio 2025, riguarderà i
pensionati residenti in Europa, Africa e Oceania. Le comunicazioni saranno
inviate ai pensionati a partire dal 20 settembre 2024 e i pensionati dovranno
far pervenire le attestazioni di esistenza in vita entro il 18 gennaio 2025.
Per razionalizzare
lo svolgimento dell’attività di verifica in un’ottica di semplificazione
amministrativa, l’Inps ha chiesto a Citibank N.A di escludere dall’accertamento
iniziato a marzo 2024 alcuni gruppi di pensionati:
A. pensionati che
sono oggetto di scambi mensili di informazioni con lo ZUS polacco. Poiché è
operativo l’accordo che l’Istituto ha stipulato con lo Zaklad Ubezpieczen
Spolecznych (ZUS) per scambiare telematicamente informazioni relative al
decesso di pensionati comuni, si fa presente che sono stati esclusi dalla
richiesta di fornire la prova annuale di esistenza in vita i beneficiari di
trattamenti pensionistici residenti in Polonia, a condizione che tali soggetti
siano titolari anche di prestazioni pensionistiche a carico dello stesso ZUS;
B. pensionati che
hanno riscosso personalmente agli sportelli Western Union almeno una rata di
pensione in prossimità dell’avvio del processo di verifica. Infatti, la
riscossione personale presso il partner d’appoggio della Banca è stata
considerata prova sufficiente dell’esistenza in vita, poiché le agenzie Western
Union accertano, all’atto dell’incasso, l’identità del beneficiario attraverso
documenti validi con foto;
C. pensionati i
cui pagamenti sono stati già sospesi da Citibank N.A. a seguito del mancato
completamento delle precedenti campagne di accertamento dell’esistenza in vita
o di riaccrediti consecutivi di rate di pensione.
Citibank invierà
un plico che conterrà una lettera esplicativa e un modulo standard di
attestazione ai pensionati residenti in America, Asia, Estremo Oriente, Paesi
scandinavi, Stati dell’Est Europa e Paesi limitrofi.
La modulistica è
stata redatta sia in lingua italiana sia, a seconda del Paese di destinazione,
in inglese, francese, tedesco, spagnolo o portoghese. Con riferimento ai
pensionati residenti in Canada e Svizzera, Citibank N.A. invierà la lettera e
il modulo in tre lingue (italiano, francese e inglese in Canada, italiano,
francese e tedesco in Svizzera).
Come per gli anni
passati, diverse sono le modalità per fornire la prova dell’esistenza in vita:
in modalità cartacea, cioè restituendo il modulo ricevuto debitamente compilato
entro il 18 luglio; attraverso il portale web di Citibank con l’aiuto degli
operatori di patronato abilitati o dei funzionari delle Rappresentanze
diplomatiche indicati dal Ministero degli Affari esteri e della cooperazione
internazionale (INPS e Farnesina hanno condiviso un progetto che prevede la
possibilità per i pensionati di rapportarsi con gli Uffici consolari tramite un
servizio di videochiamata); con la riscossione personale presso gli sportelli
Western Union.
Il Servizio di
Citibank a supporto dei pensionati, operatori di Consolato, delegati e
procuratori che necessitino di assistenza riguardo alla procedura di
attestazione dell’esistenza in vita è raggiungibile sul sito www.inps.citi.com;
inviando un messaggio di posta elettronica all'indirizzo
inps.pensionati@citi.com; telefonando a uno dei numeri telefonici indicati
nella lettera esplicativa.
Il
messaggio dell’Inps firmata dal Direttore generale Vincenzo Caridi è
disponibile qui. (aise/dip 27.3.)
La nostra
Emigrazione merita una più accurata osservazione. Noi la monitoriamo da oltre
mezzo secolo. Tanto per evitare confusione, facciamo aggiornamenti su periodi
trentennali; con inizio dal 1900. La prima Generazione Migrante è terminata nel
1930 più verso le Americhe che l’Europa. La seconda nel 1960, la terza nel 1990
e l’ultima è iniziata nel 2020. Negli anni Trenta non eravamo nati e ci siamo
affidati alle cronache del tempo. Con gli anni Sessanta ci rammentiamo, però, delle
valigie di cartone, dei treni superaffollati che portavano per l’Europa uomini
e donne d’Italia alla ricerca di quel futuro che in Patria non potevano
realizzare. Tempi difficili. Chi li ha vissuti potrà dare conferma di
quest’oggettività che, ora, sembra lontana.
L’Emigrazione italiana, dopo il secondo
conflitto mondiale, si è riversata nel Vecchio Continente. Le mete erano Paesi
vicini all’Italia; ma, per chi partiva, sempre lontanissimi. Con la Seconda
generazione, il processo d’integrazione, con la realtà dei Paesi ospiti, è
iniziato. Con i nati in terra straniera, già si profilava la Terza generazione.
Perfettamente adattata allo stile di vita della terra che l’ha vista nascere.
Dei milioni d’italiani, loro figli e loro nipoti nel mondo, solo poco più di
cinque milioni hanno mantenuto la nostra cittadinanza, magari acquisendo anche
quella del Paese ospite. Questa premessa l’abbiamo voluta sintetizzare per
evidenziare che, indipendentemente dai tempi e dalle generazioni, gli italiani
oltre confine hanno dovuto fare i conti anche con normative partorite solo per
i residenti nel Bel Paese.
Il voto politico è
sempre stato consentito; ma chi l’ha esercitato non è riuscito a prospettare
nessun cambiamento per l’Italia da oltre confine. La legge che permette il voto
dei Connazionali direttamente dalla loro residenza all’estero, è stata una
“goccia” che non ha potuto riempire un “mare”. Sono passati anni dalla sua
approvazione. Nessuno ha, mai, chiesto un “aggiornamento”. Così gli eletti
nella Circoscrizione Estero non sono altro che parlamentari inquadrati nella
scacchiera dei partiti politici nazionali. Dei quali, gioco forza, sono tenuti
a seguire i doveri. Insomma, per gli italiani all’estero si sono spese poche
parole, ma per i fatti la prospettiva non è stata migliore. Ci siamo resi conto
che, pur mancando l’equiparazione per certi diritti, l’adeguamento ai doveri è
stato più rapido. Riteniamo, però, che gli italiani all’estero, che non sono
degli ingenui, ora faranno comprendere, a chi li dovrebbe rappresentare, che la
riforma elettorale, quando ci sarà, non li dovrà più condizionare. Giorgio
Brignola, de.it.press
Nasce “Giornaliste italiane”, un’associazione di donne nel mondo
dell’informazione
Giovedì 21 marzo,
a Roma è stata presentata l'associazione "Giornaliste Italiane",
presso la sede di Associazione Civita a Piazza Venezia.
Le donne stanno
vivendo una congiuntura storica favorevole che le vede alla guida delle
Istituzioni europee, dalla Commissione con Ursula von der Leyen, al Parlamento
con Roberta Metsola ed in Italia con Giorgia Meloni, prima donna Presidente del
Consiglio della storia repubblicana. E poi ancora con Antonella Polimeni, prima
rettrice donna dell’Università La Sapienza, una delle più grandi d’Europa, dove
si forma la futura classe dirigente.
Le fondatrici
credono sia giunto il momento di spingere sull’acceleratore per superare i
luoghi comuni e passare alle azioni: quante donne dirigono quotidiani, agenzie
e testate radio e tv? E quelle poche che ci sono, guadagnano quanto i loro
omologhi uomini?
Su 38 direzioni di
giornali in Italia, 6 direttori sono donne e 32 sono uomini. È quanto emerge
dalla mappatura digitale del divario di genere nel giornalismo italiano,
realizzata da SocialCom e presentata durante l’evento. Sono necessarie azioni
mirate alla valorizzazione delle donne e al raggiungimento di una piena parità
di genere sia nell'occupazione sia nella crescita professionale.
La parità dei
diritti deve essere reale e non artificiosamente simulata attraverso la creazione
di quote stabilite per legge. L’obiettivo finale non può e non deve essere
l’introduzione di neologismi come “direttora”, ma lo sradicamento dei
pregiudizi che pongono le giornaliste in posizione subalterna rispetto agli
uomini. Le riforme vere e necessarie non sono quelle lessicali, bensì quelle
culturali. Come ha ricordato il Presidente Mattarella, le donne hanno bisogno
di un supplemento di fatica per affermarsi, ma quando ottengono ruoli di
rilievo, sono affidabili, capaci, caparbie e rispettose.
Un ringraziamento
ad Ilaria Alpi, di cui il 20 marzo ricorreva il trentesimo anniversario
dell'uccisione, perché "ci ha lasciato un messaggio importante e cioè che
non conta essere uomini o donne, l'importante è che i giornalisti siano capaci.
Ecco perché abbiamo pensato di creare un'associazione di giornaliste, per dare
voce a tutte quelle colleghe che oggi, pur essendo brave, non hanno il successo
che meriterebbero". Così Ida Molaro, giornalista parlamentare di Mediaset,
ha dato il via alla presentazione.
“Questa è
un’associazione di cui c'era un gran bisogno, per ottenere più diritti, meno
pregiudizi ed essere libere di valere, come dice il nostro slogan”, afferma
Paola Ferazzoli, giornalista Rai nonché segretario di “Giornaliste italiane”.
“Farsi valere non
è facile e non è uguale per tutti. Vogliamo essere una squadra che cammina
insieme alle altre, per raggiungere obiettivi comuni. Puntiamo a nuovi modelli
di organizzazione del lavoro che non implichino rinunce professionali per le
donne, che garantiscano loro le stesse prerogative di cui godono i colleghi
uomini nelle progressioni di carriera e nel raggiungimento di ruoli apicali.
L’associazione ha l’ambizione di diventare un manifesto culturale per tutte le
giornaliste libere: libere dalle appartenenze e dalle catene del conformismo
linguistico-culturale. Dar vita ad una nuova associazione di giornaliste è una
priorità non più rinviabile. Siamo professioniste della comunicazione che
meritano rispetto, lo stesso che darebbero ad un uomo. Siamo tenaci, affidabili
e caparbie e abbiamo l'ambizione di diventare un movimento culturale per le
colleghe. Non siamo le "mogli di", "fidanzate di",
"amiche di", non siamo una specie protetta. Non ci interessa essere
chiamate 'direttora', ma farci trattare da direttore ed il confronto con tutte
le donne, con l'obiettivo di migliorare questo percorso, è per noi una stella
polare”.
Questo il
messaggio unitario che vuole essere diffuso dalle fondatrici dell’associazione:
Paola Ferazzoli, Federica Frangi, Elisabetta Mancini, Maria Antonietta
Spadorcia, Ida Molaro, Francesca Avena e Manuela Biancospino. Tra le promotrici
dell’evento, Giovanna Ianniello, responsabile della comunicazione e
storica portavoce del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni e Silvia
Cirocchi, portavoce del Ministro Nello Musumeci. Direttrici e direttori di vari
quotidiani, agenzie di stampa, testate televisive e volti noti della tv hanno
partecipato all’evento, nonché vertici Rai.
Importanti le
parole delle istituzioni presenti, tra cui il Ministro della cultura, Gennaro
Sangiuliano; la Ministra per la famiglia, la natalità e le pari opportunità,
Eugenia Maria Roccella ed il Ministro per la protezione civile e le politiche
del mare, Nello Musumeci.
“Libere dai
pregiudizi, libere di valere. Abbiamo sintetizzato in questo slogan, riportato
anche nel nostro sito (www.giornalisteitaliane.it), le ragioni che ci hanno
convinte a costituire l’associazione “Giornaliste Italiane”. Giornaliste perché
abbiamo fatto la gavetta macinando chilometri e fallimenti, Italiane perché
veniamo da ogni angolo di quello che consideriamo il Paese più bello del mondo,
la casa che ci ha dato le radici. E proprio come di una casa ce ne prendiamo
cura raccontandone, con il nostro lavoro, non solo i pregi ma anche i difetti
da correggere. Il Tricolore richiamato nella penna stilografica che abbiamo nel
nostro logo è un omaggio alla Costituzione che all’articolo 12 recita: La
bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso a tre
bande verticali di eguali dimensioni”, è questo che affermano coralmente le
fondatrici.
La mission di
“Giornaliste italiane” è di puntare a nuovi modelli di organizzazione del
lavoro che non implichino rinunce professionali per le donne, che garantiscano
loro le stesse prerogative di cui godono i colleghi uomini nelle progressioni
di carriera e nel raggiungimento di ruoli apicali.
Tra gli obiettivi
centrali anche una battaglia culturale e fattuale per promuovere la reale
parità di genere, anche grazie ad azioni che rimuovano gli ostacoli che le
donne incontrano ogni giorno per coniugare lavoro e famiglia. L’intenzione è
quella di lavorare con la solerzia che scaturisce dalla forza femminile:
coscienza e coraggio. Manuela Biancospino, de.it.press
ROMA – Pubblicate
dal Ministero dell’Università e della Ricerca le procedure per l’ingresso, il
soggiorno, l’immatricolazione degli studenti internazionali e il relativo
riconoscimento dei titoli, per i corsi della formazione superiore in Italia.
Le procedure sono
valide per l’anno accademico 2024-2025 presso: le Università italiane statali e
non statali autorizzate a rilasciare titoli aventi valore legale; le
Istituzioni italiane statali per l’alta formazione artistica e musicale e non
statali autorizzate a rilasciare titoli aventi valore legale e le Istituzioni
autorizzate a rilasciare titoli di Alta formazione artistica, musicale e
coreutica.
Le procedure
annuali 2024/2025 – si legge sul portale del MUR Universitaly.it – sono
redatte sulla base degli esiti ottenuti dalla riunione annuale del Gruppo di
lavoro indetto dal Ministero dell’Università e della Ricerca, di concerto col
Ministero dell’Istruzione e del Merito, col Ministero degli Affari Esteri e
della Cooperazione Internazionale e col Ministero dell’Interno. Lo scopo di
tali procedure è coordinare e orientare le politiche delle Istituzioni italiane
della formazione superiore, delle Rappresentanze diplomatico-consolari e delle
Questure in materia di ingresso, soggiorno, immatricolazione e riconoscimento
dei titoli degli studenti internazionali per i corsi della formazione superiore
in Italia.
Per l’anno
accademico 2024/2025 le domande di visto dovranno essere presentate, presso le
competenti Rappresentanze diplomatico-consolari, entro e non oltre il 29
novembre 2024. In caso di proroga dei termini, le Istituzioni della formazione
superiore potranno continuare le proprie procedure di reclutamento degli
studenti internazionali e la relativa valutazione dell’idoneità dei titoli
esteri da essi posseduti, così come le Rappresentanze diplomatico-consolari
potranno procedere con la trattazione delle domande di visto fino ad
esaurimento delle domande di pre-iscrizione, purché pervenute entro le date
previste e dai successivi aggiornamenti. Inoltre, con riferimento al termine
del 29 novembre 2024, le Istituzioni della formazione superiore potranno, sulla
base della propria autonomia e in riferimento ai singoli corsi di studio
presenti all’interno della propria offerta formativa, indicare sui propri
portali una data precedente a quella indicata per ogni singolo corso, sulla
base delle esigenze specifiche collegate all’inizio delle attività didattiche.
La domanda di
preiscrizione per il rilascio del visto per i candidati ai corsi di studio
presso le Istituzioni della formazione superiore italiane dovrà essere
presentata esclusivamente per il tramite del portale UNIVERSITALY1, unico
portale di accesso gratuito e ufficiale del Ministero dell’Università e della
Ricerca. Il Ministero dell’Università e della Ricerca si riserva la possibilità
di emettere successive integrazioni o modifiche alle Procedure previa
consultazione con gli altri Ministeri competenti. https://www.universitaly.it/studenti-stranieri (Inform/dip)
Gli italiani
all’estero sono milioni e la nostra emigrazione resta un evento sociale ancora
meritevole d’essere monitorato.
Col tempo, l’integrazione
è riuscita a fornire una nuova dimensione di vita per i Connazionali nei Paesi
ospiti. Molti hanno cambiato cittadinanza e per chi ha mantenuto
quell’italiana, al voto nazionale non manifesta particolare interesse. Eppure, limitandoci al Vecchio Continente,
gli italiani sono quasi tre milioni. Molti sono figli, se non nipoti, di chi,
negli anni 50/60, si erano recati al lavoro nelle miniere con contratti di
“scambio” (braccia per carbone).
Rammentiamo, con profonda amarezza, che la
nostra Emigrazione è stata “tribolata”. Tutto, ora, sembra lontano. Eppure è
storia di ieri. Oggi impensabile, ma che ha segnato almeno una Generazione.
Ora, in UE, i problemi si sono modificati; pur essendo, in parte, presenti
ancora alcuni. E’ di scena il Parlamento Europeo, la moneta unica, La Banca
Centrale, ma i nazionalismi, anche in questo 2023 avranno preponderanza sul
concetto di tutela dei problemi socio/economici del Vecchio Continente.
L’apprezzamento per chi ha conservato la cittadinanza d’origine, è
indiscutibile, ma non basta. Insomma, l’Europa “stellata” non brilla sempre di
luce propria.
Anche la posizione
d’italiani all’estero non dovrebbe essere equiparata ai residenti nella
penisola unicamente al momento del voto. Ai Connazionali nel mondo spetta un
trattamento più consono al loro stato. Ma quando? E come? Sono interrogativi
che non sono stati ancora risolti; perché mai affrontati. Quelli che
scarseggiano restano i “fatti” irrisolti. Lo scriviamo perché l’Italianità non
è un termine vago e indistinto; ma una realtà che può essere di supporto anche
per il Paese d’origine. Giorgio Brignola, de.it.press
Proventi dei passaporti ai Consolati: la Commissione Esteri conclude
l’esame
ROMA - Nella seduta
di ieri pomeriggio la Commissione Affari Esteri della Camera ha concluso
l’esame degli emendamenti presentati alla proposta di legge Ricciardi
“Destinazione agli uffici diplomatici e consolari di quota dei proventi
derivanti dal rilascio dei passaporti all'estero”.
Alla presenza
della sottosegretaria agli esteri Maria Tripodi, il relatore Emanuele Loperfido
(FdI) ha letto gli emendamenti presentati dagli eletti all’estero - Di Sanzo
(Pd), Porta (Pd) e Onori (Az) – esprimendo parere favorevole o contrario.
Posto che, come
spiegato da Ricciardi nella presentazione del testo, l’obiettivo della proposta
di legge è destinare ai Consolati parte dei proventi incassati dal rilascio dei
passaporti, anche per l’assunzione di personale interinale, Di Sanzo ha presentato
un emendamento, accolto dal relatore, in cui si precisa: “Tali risorse sono
destinate al rafforzamento dei servizi consolari per i cittadini italiani
residenti o presenti all'estero, con priorità per i servizi maggiormente
richiesti”.
Parere sfavorevole,
invece, per gli emendamenti di Onori e Porta sulla valorizzazione contrattuale
del personale a contratto.
Via libera, dopo
una riformulazione, anche a due identici emendamenti di Porta e Onori sulla
destinazione alla rete del 30% delle risorse ottenute dai passaporti.
Parere contrario
sugli emendamenti Porta e Onori che chiedevano la destinazione di parte delle
risorse al riadeguamento retributivo del personale a contratto.
Parere favorevole,
infine, all’emendamento Onori, riformulato, in cui si dispone che “Entro il 31
marzo di ogni anno a decorrere dall'anno successivo all'entrata in vigore della
presente legge, nel sito internet del Ministero degli affari esteri e della
cooperazione internazionale è pubblicata una relazione contenente i dati aggregati
relativi all'utilizzo dei proventi di cui al comma 1”.
Nel breve
dibattito che ha preceduto il voto, Billi (Lega) ha espresso “perplessità
sull'efficacia della proposta in esame ai fini di un rafforzamento della rete
diplomatico-consolare”, sostenendo che servirebbe “definire meglio le finalità
attese ed approfondire l'adeguatezza delle risorse finanziarie rispetto agli
scopi che il provvedimento si prefigge”.
Ricciardi, dopo
aver espresso “apprezzamento per l'onestà intellettuale del collega Billi” si è
detto “disponibile a proseguire il confronto sul provvedimento. Credo – ha
aggiunto – che l'eventuale approvazione dell'emendamento Di Sanzo 1.2, su cui
relatore ed Esecutivo hanno espresso parere favorevole, possa contribuire a
dissipare le perplessità espresse dall'onorevole Billi”.
Passando ai voti,
la Commissione ha approvato gli emendamenti segnalati dal relatore.
Il testo del
provvedimento sarà ora trasmesso alle Commissioni assegnatarie in sede
consultiva per l'espressione dei pareri. (aise/dip 21.3.)
Portale unico per gli italiani all'estero: gli emendamenti presentati in
Commissione
ROMA - Quattro gli
emendamenti presentati alla proposta di legge “Istituzione del Portale unico
telematico per gli italiani all'estero” a prima firma Federica Onori, deputata
di Azione eletta in Europa.
A comunicarlo è
stato il Presidente della Commissione Affari Esteri della Camera Giulio
Tremonti nella seduta di ieri pomeriggio, alla presenza della sottosegretaria
Tripodi.
Alla luce dei
testi presentati, il relatore del provvedimento, Simone Billi (Lega), ha
proposto il rinvio dell’esame per “approfondire taluni profili delle proposte
emendative presentate”. Proposta su cui ha convenuto anche Onori.
Con il Portale si
vuole “racchiudere in un unico contenitore virtuale tutte le informazioni di
fondamentale utilità per gli italiani all'estero, come richiesto in appositi
atti di indirizzo approvati nella scorsa legislatura”, aveva spiegato Onori
nella seduta del 14 febbraio scorso.
E proprio la
deputata, prima firmataria della legge, ha presentato un emendamento per
precisare: “Il Portale è finalizzato a racchiudere in un unico contenitore
virtuale tutte le informazioni di maggiore utilità oltre che coordinare i
flussi informativi, migliorare e semplificare gli strumenti di comunicazione a
favore dei soggetti indicati al primo periodo, anche attraverso
l'armonizzazione della rete dei terminali dello Stato all'estero e lo sviluppo
di standard comunicativi omogenei, garantendo l'interoperabilità tra le diverse
piattaforme di informazione esistenti”.
Di Sanzo e Porta
(Pd), invece, con la loro proposta emendativa chiedono che il portale contenga
sia “informazioni relative alla normativa fiscale” che “informazioni
riguardanti gli organismi di rappresentanza degli italiani all'estero (Comites
e CGIE), con le relative modalità di elezione”.
Porta, con un
altro emendamento, chiede di aggiungere alla legge che il Portale contenga “uno
spazio dedicato a riunioni online riservate ai membri di Comites e CGIE e ad
eventuali ospiti. Tale spazio deve garantire la fruibilità
dell'interconnessione tecnologica tra un numero elevato di partecipanti, anche
attraverso l'utilizzo di nuove tecnologie”.
Con l’ultimo
emendamento, sempre Di Sanzo e Porta chiedono di aggiungere alla legge che “Le
informazioni normative presenti sul portale devono, comunque, essere visibili
al pubblico generale”. (aise/dip 21.3.)
ROMA – Prosegue,
presso la Commissione Esteri della Camera l’esame del provvedimento
“Destinazione agli uffici diplomatici e consolari di quota dei proventi
derivanti dal rilascio dei passaporti all’estero” (C. 960 Toni Ricciardi ed
altri). Nel corso della seduta sono stati approvati, dopo il parere favorevole
del relatore Emanuele Loperfido (Fdi), i seguenti emendamenti: 1.2 Di
Sanzo “Tali risorse sono destinate al rafforzamento dei servizi consolari per i
cittadini italiani residenti o presenti all’estero, con priorità per i servizi
maggiormente richiesti”; 1.5 Porta – 1.6 Onori riformulati “La percentuale di
cui al comma 1 è pari al 30 per cento a decorrere dal primo giorno del mese
successivo alla data di entrata in vigore della presente legge; 1.9. Onori
Nuova formulazione “Entro il 31 marzo di ogni anno a decorrere dall’anno
successivo all’entrata in vigore della presente legge, nel sito internet del
Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale è pubblicata
una relazione contenente i dati aggregati relativi all’utilizzo dei proventi di
cui al comma 1”. Durante il dibattito il deputato Simone Billi (Lega –
ripartizione Europa) ha espresso perplessità sull’efficacia della proposta in
esame ai fini di un rafforzamento della rete diplomatico-consolare. In
particolare, secondo il deputato occorrerebbe definire meglio le finalità
attese ed approfondire l’adeguatezza delle risorse finanziarie rispetto agli
scopi che il provvedimento si prefigge. Su questo punto è intervenuto il deputato
del Pd e primo firmatario della proposta di legge Toni Ricciardi (Pd-
ripartizione Europa), che si è dichiarato disponibile a proseguire il confronto
sul provvedimento. Per il deputato l’approvazione dell’emendamento Di Sanzo
1.2, su cui relatore ed Esecutivo hanno espresso parere favorevole, può
contribuire a dissipare le perplessità espresse dall’onorevole Billi. A seguire
il Presidente della Commissione Giulio Tremonti ha segnalato la conclusione
dell’esame delle proposte emendative. Il testo del provvedimento sarà ora
trasmesso alle Commissioni assegnatarie in sede consultiva per l’espressione
dei pareri previsti. (Inform/dip 24.3.)
L’assegno unico universale e gli iscritti Aire: i deputati Pd interrogano
Giorgetti
ROMA -
Ripristinare le detrazioni familiari per i figli a carico di età inferiore ai
21 anni a favore dei contribuenti residenti in Italia ma con nucleo familiare a
carico residente all'estero. A chiederlo sono i deputati Pd eletti all’estero
Toni Ricciardi, Fabio Porta e Christian Di Sanzo in una interrogazione a
risposta in Commissione indirizzata al Ministro dell'economia e delle finanze
Giorgetti.
Nella premessa, i
tre deputati ricordano che “a partire dal 1° marzo 2022 l'assegno al nucleo
familiare (Anf) e le detrazioni per figli a carico di età inferiore ai 21 anni
sono stati sostituiti dall'assegno unico universale (Auu); il diritto all'Auu è
vincolato alla residenza in Italia e quindi l'abrogazione dal 28 febbraio 2022
delle prestazioni familiari (assegni Anf e detrazioni) ha penalizzato
esclusivamente i contribuenti italiani residenti all'estero, pensionati e
soprattutto lavoratori (i cosiddetti «non residenti Schumacher» che producono
reddito in Italia per almeno il 75 per cento del loro reddito complessivo)”.
“In più occasioni –
puntualizzano i tre eletti all’estero – la Corte di giustizia dell'Unione
europea ha sentenziato che (sulla scorta dell'articolo 7 del regolamento n. 883
del 2004, intitolato “abolizione delle clausole di residenza”) le prestazioni
familiari in denaro dovute a titolo della legislazione di uno o più Stati
membri non sono soggette ad alcuna riduzione, modifica, sospensione,
soppressione o confisca per il fatto che il beneficiario o i familiari
risiedono in uno Stato membro diverso da quello in cui si trova l'istituzione
debitrice (l'ultima sentenza in materia è quella riferita alla causa n.
328/2020 del 16 giugno 2022); con riferimento ai contribuenti residenti in
Italia i quali hanno a proprio carico familiari residenti all'estero e ai quali
sono negati l'assegno unico, le detrazioni e gli assegni familiari per i
familiari residenti all'estero, - sottolineano Ricciardi, Porta e Di Sanzo – la
Corte di giustizia dell'Unione europea ha quindi dichiarato che una persona ha
diritto alle prestazioni familiari ai sensi della legislazione dello Stato
membro competente, anche per i familiari che risiedono in un altro Stato
membro”.
Ricordato, infine,
che “la Ue ha aperto due procedure di infrazione contro l'Italia in tema di
reddito di cittadinanza e di assegno unico universale, (INFR 2022/4024) e (INFR
2022/4113), censurando per discriminazione i requisiti di residenza richiesti
dalle norme istitutive dei due benefìci”, i parlamentari chiedono al Ministro
se “stante il mancato accesso ai benefìci derivanti dall'assegno unico
universale, nelle more di un'azione del Governo volta a conformare
l'ordinamento italiano alle direttive UE e sanare le procedure di infrazione in
corso, se non si ritenga di colmare questa ingiusta discriminazione descritta
in premessa adottando le iniziative di competenza volte almeno a ripristinare
le detrazioni familiari per i figli a carico di età inferiore ai 21 anni a
favore dei contribuenti residenti in Italia ma con nucleo familiare a carico
residente all'estero”. Pd/dip
Spid e patronati: Ricciardi (Pd) interroga il Governo
ROMA - Facilitare il lavoro dei patronati che
all’estero trattano le pratiche per l’ottenimento dello Spid. Questo, in
sintesi, quanto richiesto da Toni Ricciardi, deputato Pd eletto all’estero, in
una interrogazione ai Ministri degli esteri e del lavoro, sottoscritta anche
dal collega Fabio Porta.
“Nel febbraio 2023
– spiega Ricciardi nella premessa – la società Infocert – unico provider per
l'ottenimento dello Spid (sistema pubblico di identità digitale) che consentiva
l'utilizzo del video-riconoscimento per i residenti all'estero non in possesso
di un documento di identità rilasciato da un'amministrazione dello Stato
italiano – ha comunicato ai patronati esteri, pena la sospensione dello Spid,
l'obbligo di fornire un documento italiano per chi era stato abilitato alla
registrazione senza esserne in possesso, in adeguamento all'articolo 7 del
regolamento Agid che recita: “L'operatore che effettua l'identificazione
accerta l'identità del richiedente tramite la verifica di un documento di
riconoscimento integro e in corso di validità rilasciato da un'amministrazione
dello Stato, munito di fotografia e firma autografa dello stesso, e controlla
la validità del codice fiscale verificando la tessera sanitaria anch'essa in corso
di validità””.
“Da oltre un anno,
dunque, - continua Ricciardi – gli operatori di patronato che non hanno la
cittadinanza italiana e, di conseguenza, non sono titolari di un documento di
identità italiano, non possono più svolgere gran parte del lavoro a cui sono
assegnati, perché non hanno i requisiti fondamentali per il rilascio di
un'identità digitale; l'utilizzo dello Spid consente lo svolgimento da parte
dei patronati all'estero di servizi al cittadino senza gravare sulla rete
consolare, ma l'applicazione letterale dell'articolo 7 del regolamento Agid
rende impossibile continuare a garantire servizi a centinaia di migliaia di
italiani all'estero, in particolare nei Paesi extra-europei”.
“Difatti, -
chiarisce il parlamentare dem – in assenza dello Spid, i patronati dovrebbero
ricorrere, per lo svolgimento delle migliaia di pratiche quotidiane, alla posta
elettronica certificata, con un conseguente aggravio e rallentamento del lavoro
soprattutto per Inps”.
“Gli uffici
consolari – ricorda Ricciardi – sono già in affanno per mancanze strutturali e
di personale e faticano a soddisfare l'attuale carico di lavoro; inoltre, il
centro patronati (CE-PA) (Acli, Inca, Inas, Ital) ha evidenziato più volte la
totale assenza di un dialogo da parte del Ministero del lavoro, senza aver
ricevuto, ad oggi, alcuna certezza o riscontro che la problematica possa essere
risolta”.
Ricordato che “già,
nel marzo 2024, alcuni Senatori del gruppo del Partito democratico avevano
presentato un atto di sindacato ispettivo al Ministro interrogato, senza allo
stato aver avuto alcun riscontro”, il deputato chiede ai Ministri Tajani e
Calderone “quali iniziative intenda intraprendere il Governo per risolvere la
problematica esposta in premessa e consentire agli operatori di continuare ad
assicurare l'erogazione dei servizi strumentali all'esercizio dei diritti dei
nostri connazionali all'estero”. (aise/dip 25.3.)
ROMA - M.I.R.T.A.
(Monitoraggio In Rete Tutela e Assistenza consolare): è la nuova piattaforma
digitale che permetterà alla rete diplomatico-consolare del Ministero degli
Esteri il monitoraggio degli interventi di assistenza a beneficio dei cittadini
italiani nel mondo.
La nuova
piattaforma, strumento versatile e articolato, è stata inaugurata oggi 3 aprile
su impulso del Vice Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro degli
Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Antonio Tajani. Assistenza ai
detenuti, prestiti ai connazionali in difficoltà, minori contesi e rimpatri
sanitari sono solo alcuni dei settori di intervento che impegnano
quotidianamente le Sedi italiane all’estero e la cui gestione – sottolinea la
Farnesina – i sarà, grazie alla nuova piattaforma, improntata a una capillarità
ancora maggiore, incentivata da un’interfaccia di più agevole consultazione e
aggiornamento e volta a prestare una più puntuale e costante assistenza a tutti
gli italiani nel mondo. “Con il lancio della nuova Piattaforma, continua
l’impegno della Farnesina per rendere sempre più efficiente ed efficace la
tutela degli italiani nel mondo” ha commentato Tajani, che ha aggiunto:
“Digitalizzazione e innovazione si confermano processi centrali anche nel
monitoraggio delle numerose e complesse vicende che coinvolgono i nostri
connazionali all’estero: dai detenuti ai rimpatri sanitari, dai minori contesi ai
connazionali indigenti”. (Inform/dip 3)
Porta (Pd): l’indebolimento della tutela previdenziale degli italiani
all’estero
ROMA -
“Nell’ultima rilevazione fornita dall’Inps per il 2023 risulta che su circa
680.000 pensioni in regime internazionale sono circa 317.000 le pensioni pagate
all’estero in 160 Paesi dall’Istituto previdenziale italiano per un importo
totale di 1.600 milioni di euro l’anno”. A ricordarlo è Fabio Porta, deputato
Pd eletto in Sud America, che specifica: “dal punto di vista tendenziale
diminuiscono le pensioni pagate nelle Americhe e in Oceania (continenti che
rappresentano storicamente le destinazioni preferite dei nostri emigrati nel
secolo scorso e che adesso ospitano i pensionati più anziani il cui numero
sembra destinato per ovvie ragioni a diminuire) mentre aumentano, anche se di
poco, quelle pagate in Europa, in America centrale, in Africa e in Asia”.
“Purtroppo –
rileva il deputato – sono ancora esclusi, come sto continuamente denunciando
nel corso della mia attività parlamentare, dalla possibilità di ottenere la
pensione in regime internazionale gli italiani i quali dopo aver lavorato in
Italia sono emigrati in Paesi con cui l’Italia non ha stipulato una convenzione
di sicurezza sociale, come ad esempio il Cile (vuoto normativo convenzionale
incomprensibile visto che l’accordo era già stato firmato tra i due Paesi negli
anni ’90 del secolo scorso), il Perù, la Colombia, l’Ecuador, il Messico ed
altri Paesi dell’America Latina dove vivono importanti comunità di italiani, e
quasi tutti gli immigrati in Italia con alcune eccezioni”.
“In realtà –
denuncia Porta – la tutela socio-previdenziale da parte dello Stato italiano a
favore dei nostri connazionali ha subito negli ultimi decenni un evidente freno
e indebolimento con lo stop alla stipula e al rinnovo delle convenzioni
bilaterali di sicurezza sociale e con il ridimensionamento del sistema di
tutela a causa dello smantellamento delle strutture di coordinamento dell’Inps
nazionale (vedi la soppressione della Direzione delle Convenzioni
Internazionali ora invece accorpata nella Direzione Centrale pensioni con un
inevitabile indebolimento delle risorse e del personale e quindi delle
funzioni, delle competenze che erano state svolte per anni con risultati
soddisfacenti dalla Direzione Convenzioni Internazionali)”.
“Questo
ridimensionamento a livello nazionale – continua il parlamentare dem – si è
inevitabilmente riflesso sull’operatività dell’Istituto a livello locale ove,
secondo le numerose segnalazioni degli Istituti di Patronato, le problematiche
persistenti e irrisolte relative alla scarsa funzionalità delle sedi Inps per
le pratiche in regime internazionale ostacolano la definizione delle domande di
pensioni, soprattutto di invalidità e di reversibilità. È comunque chiaro che siamo
di fronte a un problema politico, che se l’Inps e il Ministero del lavoro (lo
Stato italiano e il Governo) non riconoscono le difficoltà legate alle
procedura pensionistiche per la definizione delle pratiche in regime
internazionale e per il superamento delle molteplici criticità incontrate in
questi anni di ridimensionamento della tutela socio-previdenziale dei nostri
connazionali residenti all’estero e quindi non riconoscono l’assoluta
peculiarità del comparto delle convenzioni, rafforzando e riqualificando il
settore, valorizzando il lavoro che svolgono i patronati all’estero, e –
conclude – impegnandosi maggiormente con un rinnovato servizio di tutela, la
situazione è destinata a compromettere ulteriormente i diritti previdenziali
delle nostre collettività all’estero”. (aise/dip 3)
ROMA - I deputati
del Pd eletti all’estero, Fabio Porta, Christian Di Sanzo e Toni
Ricciardi, hanno in queste ore presentato un’interrogazione alla Ministra del
Lavoro e delle Politiche Sociali, Marina Elvira Calderone, riguardo il
respingimento da parte dell’INPS della domanda per la concessione dell'assegno
unico universale ai cittadini italiani residenti in Italia con figli minorenni
a carico residenti all'estero.
I due deputati,
infatti, chiedono “se il Ministro non intenda assumere le iniziative di
competenza volte a riconoscere il diritto all'assegno unico universale
attualmente negato al richiedenti residenti in Italia ma con nucleo familiare a
carico residente all'estero”, anche “in conformità con quanto disposto da
regolamenti e direttive comunitari e da numerose sentenze della Corte di
giustizia europea e alla luce delle recenti procedure di infrazione contro
l'Italia da parte della Commissione europea”.
I due deputati dem
hanno infatti spiegato di aver ricevuto numerose segnalazioni di cittadini
italiani residenti in Italia e con figli minorenni a carico residenti
all'estero ai quali gli uffici competenti dell'Inps respingono la domanda per
la concessione dell'assegno unico universale.
La normativa
italiana, attualmente in vigore, disciplina il diritto all'assegno unico
universale e, seguendo anche il diritto e i regolamenti europei di sicurezza sociale,
spiegano Porta, Di Sanzo e Ricciardi, “la prestazione in oggetto dovrebbe
essere erogata, fermo restando il rispetto dei requisiti di legge, anche per i
figli a carico residenti all'estero del richiedente residente in Italia”.
Secondo l'Inps,
spiegano ancora i due eletti all’estero, “il problema della mancata erogazione
dell'assegno unico universale sarebbe dovuto al fatto che i figli seppur
fiscalmente a carico sarebbero residenti all'estero e pertanto non inclusi nel
nucleo familiare ai fini Isee in quanto non conviventi con il richiedente la
prestazione”, ma “la legge istitutiva dell'assegno unico prevede la concessione
del beneficio, seppur con un importo minimo previsto dalla normativa, anche a
coloro i quali ne fanno richiesta in assenza di Isee”.
Secondo quanto si
apprende dai due onorevoli del Pd, in più occasioni la Corte di giustizia
europea ha statuito che (sulla scorta dell'articolo 7 del regolamento n. 883
del 2004, intitolato “Abolizione delle clausole di residenza”) le prestazioni
familiari in denaro dovute a titolo della legislazione di uno o più Stati
membri non sono soggette ad alcuna riduzione, modifica, sospensione,
soppressione o confisca per il fatto che il beneficiario o i familiari
risiedono in uno Stato membro diverso da quello in cui si trova l'istituzione
debitrice (l'ultima sentenza in materia è quella riferita alla Causa n.
328/2020 del 16 giugno 2022); l'Inps, nelle circolari n. 23 e n. 34,
rispettivamente del 9 febbraio e del 28 febbraio 2022, aveva indicato che in
riferimento ai riflessi della normativa comunitaria e bilaterale sulla
prestazione dell'assegno unico «verranno fornite successive istruzioni» in
attesa della valutazione in merito alla eventuale applicabilità di accordi
bilaterali e multilaterali stipulati dall'Italia nonché delle regole dettate
dal regolamento (CE) n. 883/2004 tuttavia ad oggi tali chiarimenti non
sarebbero ancora pubblicati.
“La Commissione
europea – concludono Porta, Di Sanzo e Ricciardi - ha aperto contro
l'Italia una procedura di infrazione sull'assegno unico e ha inviato al Governo
italiano una lettera con parere motivato – che prevede una risposta urgente per
evitare un eventuale deferimento alla Corte di giustizia europea – in cui
spiega che la richiesta di due anni di residenza e li requisito della “vivenza
a carico” – necessari per l'ottenimento dell'assegno unico – “violano il
diritto dell'Ue in quanto non trattano i cittadini dell'UE in modo paritario,
il che si qualifica come discriminazione””. (aise/dip 4)
Risorse ai consolati dalle pratiche – passaporto: il parere della
Commissione Affari Costituzionali
ROMA - Il Comitato
permanente per i pareri della Commissione Affari Costituzionali della Camera ha
approvato parere positivo alla proposta di legge “Destinazione agli uffici
diplomatici e consolari di quota dei proventi derivanti dal rilascio dei
passaporti all'estero” a prima firma Ricciardi (Pd) all’esame della Commissione
Esteri.
Nel presentare il
testo ai colleghi, Paolo Emilio Russo (Fi) ha spiegato che l’obiettivo della
proposta di legge è di “rafforzare gli uffici diplomatici e consolari
all'estero in modo che questi riescano a evadere più efficientemente e
rapidamente le richieste di emissione di passaporti all'estero che, stando alla
relazione illustrativa, rimangono spesso inevase”.
La proposta di
legge è composta da un solo articolo suddiviso in quattro commi: il primo, ha
elencato Russo, “prevede che i proventi derivanti dal versamento degli importi
dovuti da chi richiede il rilascio del passaporto all'estero siano attribuiti
mensilmente al bilancio dell'ufficio diplomatico-consolare che ha rilasciato il
relativo passaporto, in misura percentuale rispetto al totale degli introiti
collegati all'emissione di passaporti e carte di identità e destinati al
rafforzamento dei servizi consolari”. Il secondo “specifica che la percentuale
degli introiti in questione sia pari al 30 per cento. Il comma 2-bis prevede
che entro il 31 marzo di ogni anno, a decorrere dall'anno successivo
all'entrata in vigore della legge, nel sito internet del Ministero degli affari
esteri e della cooperazione internazionale venga pubblicata una relazione
contenente i dati aggregati relativi all'utilizzo dei proventi di cui al comma
1. Il comma 3 dispone che agli oneri derivanti dall'attuazione della legge si
provvede mediante corrispondente riduzione del Fondo per far fronte alle
esigenze indifferibili istituito nello stato di previsione del Ministero
dell'economia e delle finanze”.
Passando ai
profili di competenza della Commissione Affari costituzionali, Russo ha
rilevato che “per quanto riguarda il rispetto delle competenze legislative
costituzionalmente definite la disciplina del rilascio dei passaporti investe
le materie “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato”, “stato
civile e anagrafe” e “ordinamento civile”, di competenza legislativa statale
esclusiva ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettere g), i) e l), della
Costituzione”.
Il relatore ha
quindi formulato una proposta di parere favorevole che il Comitato ha
approvato. Ne riportiamo il testo integrale.
“Il Comitato
permanente per i pareri della I Commissione,
esaminata la
proposta di legge C. 960, recante “Destinazione agli uffici diplomatici e
consolari di quota dei proventi derivanti dal rilascio dei passaporti
all'estero”, come risultante dall'esame delle proposte emendative svolto presso
la Commissione di merito;
rilevato che:
la proposta,
composta da un solo articolo suddiviso in quattro commi, è finalizzata a
rafforzare gli uffici diplomatici e consolari all'estero in modo che questi
riescano a evadere più efficientemente e rapidamente le richieste di emissione
di passaporti all'estero;
in particolare, la
proposta prevede che i proventi derivanti dal versamento degli importi dovuti
da chi richiede il rilascio del passaporto all'estero siano attribuiti
mensilmente, nella misura del 30 per cento, al bilancio dell'ufficio
diplomatico-consolare che ha rilasciato il relativo passaporto, e destinati al
rafforzamento dei servizi consolari e che annualmente debba essere pubblicata
una relazione sull'utilizzo dei relativi proventi;
ritenuto che:
per quanto attiene
al rispetto delle competenze legislative costituzionalmente definite:
la disciplina del
rilascio dei passaporti investe le materie “ordinamento e organizzazione
amministrativa dello Stato”, “stato civile e anagrafe” e “ordinamento civile”,
di competenza legislativa statale esclusiva ai sensi dell'articolo 117, secondo
comma, lettere g), i) e l), della Costituzione, esprime PARERE FAVOREVOLE”.
(aise/dip 5)
Dottorati conseguiti all’estero: ddl per il riconoscimento automatico in
Italia
ROMA – “Fra i
motivi che scoraggiano i nostri giovani a tornare in Italia dopo aver
conseguito un dottorato all’estero, l’incertezza e il labirinto normativo che
regolano il riconoscimento del titolo nel nostro Paese giocano un ruolo
importante. L’attuale disciplina, infatti, non solo prevede un pesante iter
burocratico ma anche un margine di incertezza per quel che riguarda il successo
della procedura. La drammatica conseguenza è che la maggior parte degli
studenti italiani che consegue il dottorato in Università straniere non torna
in Italia ma sceglie di rimanere all’estero. Un danno inestimabile per il
nostro Paese”. Lo afferma il senatore del PD Andrea Crisanti (circoscrizione
Estero-ripartizione Europa), membro della 7^ Commissione (Cultura e patrimonio
culturale, istruzione pubblica, ricerca scientifica, spettacolo e sport),
che ha presentato un disegno di legge al fine di “assicurare il
riconoscimento automatico e l’equipollenza a tutti gli effetti di legge del
titolo di dottore di ricerca conseguito in Università estere che abbiano
determinati requisiti di qualità con il titolo conseguito presso le Università
italiane”. Il disegno di legge è stato firmato anche dal presidente della 7ª
Commissione Roberto Marti (Lega). “Il numero di persone in possesso del
dottorato di ricerca è un indicatore della competitività scientifica e
industriale di un Paese e dunque del suo potenziale di sviluppo” sottolinea
Crisanti ricordando che “l’Italia è purtroppo uno degli ultimi Paesi OCSE per
percentuale di dottori di ricerca sulla popolazione in età lavorativa 25-64
anni: si tratta infatti solo dello 0,5% della popolazione, un quarto rispetto a
Paesi come Svizzera, Stati Uniti, Svezia e Germania. Se a questo dato
aggiungiamo il progressivo calo di iscritti nelle nostre Università, il quadro
si fa ancora più preoccupante”. “Per il nostro Paese è dunque più urgente
che mai facilitare l’inserimento di coloro che hanno conseguito il dottorato
all’estero (italiani e non) nel nostro tessuto produttivo e scientifico, se non
vogliamo rassegnarci a un costante impoverimento di risorse economiche e
conoscitive” , conclude il senatore eletto all’estero. (Inform/dip 7)
Premio Italia Radici nel Mondo 2024 – I Edizione
Il John Fante
Festival “Il dio di mio padre” e il Piccolo Festival delle Spartenze
Migrazioni e Culturabandiscono la I edizione del concorso letterario
internazionale PREMIO ITALIA RADICI NEL MONDO per racconti inediti,
rivolto ad autori/autrici oriundi/e e a italiani/e residenti all’estero.
Il tema dell’edizione
2024 è: Le mie radici plurime.
Il Premio
Italia Radici nel Mondo 2024 è organizzato dal Comune di Torricella
Peligna, nell’ambito delle iniziative del MAECI “2024 – Anno delle radici
italiane nel mondo”, ed è un’attività culturale che si inserisce all’interno
della XIX edizione del John Fante Festival “Il dio di mio padre”, in
collaborazione con il Piccolo Festival delle Spartenze. Migrazioni e
Cultura, con il contributo della Fondazione Pescarabruzzo, dell’Associazione
AsSud e del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione
Internazionale.
Ideato da Giovanna
Di Lello e Giuseppe Sommario, il Premio nasce dalla volontà dei due Festival di
instaurare una collaborazione stabile e sistematica, tesa ad ampliare, in
Italia e all’Estero, la discussione sui temi e sui valori da sempre affrontati
nelle due manifestazioni, che riguardano l’emigrazione italiana e le sue
infinite declinazioni, l’italianità, il legame fra le comunità
dei restati e quelle degli spartiti, i tratti identitari, le
identità mobili, le radici che le due comunità condividono. Radici molteplici,
multisituate, plurime, che non sono ferme in/ad un luogo, in/ad un tempo.
Il Premio non
vuole essere celebrativo, o quantomeno non solo celebrativo, ma intende
contribuire alla discussione sulla nostra storia migrante, arricchendola di
nuovi contenuti, scrivendo nuove pagine, inaugurando una nuova narrazione, una
nuova stagione nei rapporti fra l’Italia, gli italiani, e gli oriundi italiani
sparsi in tutto il mondo.
Come afferma il
linguista Raffaele Simoni, da un lato, le prime generazioni di emigranti
italiani «pur avendo lasciato il paese da molto tempo hanno conservato molti
meccanismi generativi dell’italiano»; dall’altro, le generazioni successive
(II, III, IV) sono protagoniste «di una ripresa non accidentale di interesse e
di “lealtà” verso la lingua [e la cultura] delle origini». Date tali premesse,
si è pensato che un concorso letterario in lingua italiana fosse il modo
migliore per omaggiare gli italiani nel mondo e i valori legati alle radici
italiane di cui sono portatori sani.
PREMIO ITALIA
RADICI NEL MONDO 2024 – Racconto le mie radici plurime
Concorso
letterario internazionale per racconti inediti, rivolto agli autori e alle
autrici oriundi/oriunde italiani/italiane, e agli italiani e alle italiane
residenti all’estero.
Il tema
dell’edizione 2024: Le mie radici plurime.
Il racconto
inedito: in lingua italiana, o in altre lingue con traduzione in italiano.
Lunghezza: tra le
10.000 e le 20.000 battute, spazi inclusi.
Giuria. La giuria
è composta dagli ideatori del premio, Giovanna Di Lello e Giuseppe Sommario, da
personalità del mondo editoriale, scrittori/scrittrici ed esperti di
emigrazione.
Il presidente
della giuria dell’edizione 2024 è l’antropologo Vito Teti.
Scadenze. Chiusura
bando: 31 maggio.
Annuncio
semifinalisti: 8-11 agosto, nell’ambito del Piccolo Festival delle Spartenze.
Annuncio vincitore/vincitrice: 22-25 agosto, nell’ambito del John Fante
Festival. Cerimonia di premiazione: in autunno in una sede istituzionale (in
via di definizione).
Premi.
All’autore/autrice dell’opera vincitrice andrà un premio in denaro di Euro
1.000 (mille). A tutte le opere finaliste sarà garantita la pubblicazione.
Il bando: https://www.johnfante.org/premio-italia-radici-nel-mondo-2024-i-edizione/
dip
A Taranto il 17 aprile il 1° Meeting Internazionale sul “Turismo delle
Radici Italiane nel Mondo”
Taranto - In
occasione dell'"Anno del Turismo delle Radici", designato per il 2024
dal Ministero degli Affari Esteri, il 17 aprile dalle 9:00 alle 20:00 si svolgerà
a Taranto il primo “Meeting internazionale sul Turismo delle Radici” presso il
Dipartimento Jonico dell'Università degli Studi di Bari Aldo Moro – Via Duomo
259. In questa occasione, sarà anche presentato – alle 15:00 - il Rapporto
Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes, con la sua curatrice Delfina
Licata.
A ideare e curare
il Meeting, la giornalista Tiziana Grassi, per molti anni autrice di programmi
di servizio per gli italiani all’estero a RAI International, presidente
dell'Associazione "Turismo delle Radici a Taranto e provincia”.
La giornata di
studio, di testimonianze e progetti ha l’obiettivo di creare o implementare
stabili connessioni culturali e socio-economiche tra le “due Italie”, ovvero
tra le comunità italiane dentro e fuori i confini, riconoscendo e valorizzando
l'incommensurabile patrimonio affettivo e identitario costituito dalla diffusa
presenza dei connazionali nel mondo, giunti oggi sino alla quinta generazione,
che hanno coltivato legami profondi con i luoghi di partenza dei loro antenati.
Il Meeting sarà
aperto dai saluti di Paolo Pardolesi, Direttore del Dipartimento Universitario
Jonico, Loredana Capone, Presidente del Consiglio Regionale della Puglia, e dai
rappresentanti del Comune di Taranto e della Provincia di Taranto,
rispettivamente Assessore alla Pubblica Istruzione e Università Desirée
Petrosillo e Consigliere Provinciale Goffredo Lo Muzio.
Seguiranno gli
interventi - tra i partecipanti ai quattro panel tematici che si articoleranno
durante la giornata - di Giovanni Maria De Vita, Responsabile Progetto ITALEA
del Ministero degli Affari Esteri e Cooperazione Internazionale; Gianfranco Lopane,
Assessore al Turismo della Regione Puglia; Aldo Patruno, Direttore Dipartimento
Turismo, Economia della Cultura e Valorizzazione del Territorio della Regione
Puglia; Stella Falzone, Direttrice del Museo Archeologico Nazionale di Taranto;
Stefano Vinci, Coordinatore Corsi Giuridici del Dipartimento Jonico; i
Consiglieri Regionali Enzo Di Gregorio, Presidente Commissione Affari generali
Regione Puglia e Michele Mazzarano, Presidente Commissione Ecologia Regione
Puglia; Giovanni Battafarano, già Sindaco di Taranto e Parlamentare; Sergio
Prete, Presidente Autorità di Sistema Portuale del Mar Jonio - Porto di
Taranto; Leonardo Giangrande, Presidente Confcommercio Taranto; Marcello De
Paola, Presidente provinciale Federalberghi; Fabio Tagarelli Presidente Fondazione
Taranto25; Carmelo Fanizza, Fondatore Jonian Dolphin Conservation; Pierpaolo De
Padova, Direttore generale Taranto Opera Festival; Nunzia Nigro, già Project
Manager Progetto “Europa InCanto”; Enza Tomaselli “ambasciatrice” di Taranto
nel mondo, e numerosi rappresentanti dei comparti economico e
turistico-culturale del territorio jonico.
“Fondamentale è
per la nostra città e la sua provincia, stabilire ponti relazionali con
quell'altra straordinaria Italia che ha scritto una pagina fondamentale della
storia del nostro Paese”, annota Tiziana Grassi. “Una pagina che ho conosciuto
da vicino nel mio lavoro a Rai International, fatta di sogni, sacrifici e
conquiste, e che oggi si riverbera in oltre 80 milioni di oriundi che aspettano
da noi partecipativi segnali di attenzione e accoglienza nelle feconde sinergie
tra ‘Restanti e Ritornanti’, come giustamente auspica la ricercatrice sociale
Carla Sannicola. Perciò ringrazio le Istituzioni e i soggetti pubblico-privati
locali, nazionali e internazionali che con slancio hanno risposto al mio invito
a partecipare a questo Meeting, dal Consiglio Generale degli Italiani
all’Estero (CGIE) all’Associazione Nazionale Italiani nel Mondo, dall’Ordine
dei Giornalisti Puglia al Gruppo Protezione Civile Taranto e CSV Taranto. E le
tante appassionate Scuole del territorio, tra cui il Liceo Scientifico
“Battaglini”, l’Istituto Tecnico Commerciale “Pitagora” e l’Istituto
Professionale “Cabrini” di Taranto; l’Istituto Superiore “Mauro Perrone” di
Castellaneta che negli anni ha portato “i sapori di Puglia” nelle scuole del
Canada; la rete di eccellenze gastronomiche del nostro territorio “Salento
delle Murge”; FIPPA Federazione Italiana Panificatori e Pasticceri che, con
l’Associazione Autonoma Panificatori di Taranto e provincia e l’Istituto
Professionale per l’Ospitalità Alberghiera “Mediterraneo” di Pulsano,
generosamente cureranno per gli ospiti degustazioni di prodotti tipici locali;
Posa Edizioni che a dicembre prossimo pubblicherà gli Atti del convegno, e i
numerosi sostenitori che confermano quanto sia indispensabile fare squadra per
accompagnare attivamente lo sviluppo e la rinascita dell’area jonica
parallelamente alla necessità di una nuova narrazione di Taranto e delle sue
innumerevoli bellezze. La sfida oggi per il nostro territorio è fare rete tra
aziende, operatori, enti pubblici e associazioni, tutti testimoni attivi delle
innumerevoli risorse di cui disponiamo, che sono cultura, tradizioni, natura,
enogastronomia, antico senso dell’ospitalità. Siamo dunque la destinazione
ideale per il Turismo delle radici, o del ritorno, per accogliere gli italiani
nel mondo in un territorio multiforme e tutto da scoprire”.
In questo percorso
rigenerativo, un ruolo determinante avranno le Associazioni di Pugliesi nel
mondo iscritte all’Albo regionale e presenti in tutti i continenti, nell’ambito
delle iniziative avviate dal Dipartimento Sviluppo economico della Regione
Puglia che ha promosso una collaborazione con Aret PugliaPromozione per
realizzare attività mirate alla promozione del Turismo delle radici proprio con
il coinvolgimento attivo di tali Associazioni dalla forte spinta
culturale-identitaria. Con il patrocinio di RAI Puglia e RAI TGR Puglia Media
Partner, i panel del Meeting saranno moderati dai giornalisti Salvatore Catapano,
Giovanna Chiarilli, Monica Golino, Angelo Di Leo e Michele Tursi.
Sarà possibile
seguire l’evento anche in streaming sulla piattaforma zoom.
(aise/dip 10)
ROMA – Il Sottosegretario agli Esteri Giorgio Silli ha risposto, presso la
III Commissione della Camera, all’interrogazione, rivolta al Ministro degli
Esteri, del deputato del Pd Fabio Porta (ripartizione America Meridionale),
sulla disciplina del personale del Ministero degli Esteri assunto a contratto
nelle sedi estere. Nel testo, sottoscritto anche dai deputati Pd Di Sanzo, Toni
Ricciardi e Carè, si chiedono sia lumi su questioni previdenziali relative al
contratto sottoscritto dagli impiegati a contratto in servizio in Thailandia,
sia di intervenire “sulla disciplina in materia di dipendenti del Ministero
degli affari esteri e della cooperazione internazionale impiegati a contratto
sulla base delle disposizioni vigenti a livello locale attraverso una riforma
strutturale improntata alla salvaguardia dei diritti inderogabili dei
lavoratori”
“Sono al momento in servizio presso l’Ambasciata d’Italia a Bangkok – ha
spiegato nella risposta Silli – diciassette impiegati a contratto. Di questi,
tredici sono cittadini italiani. A norma dell’articolo 158, ultimo comma, del
decreto del Presidente della Repubblica n. 18 del 1967, ‘gli impiegati a
contratto di cittadinanza italiana possono optare per l’applicazione della
legislazione previdenziale italiana’. Ciò significa che questo personale può
sempre iscriversi alla gestione previdenziale INPS. Versando i propri
contributi, possono naturalmente godere di quelli a carico
dell’Amministrazione. Opzione che alcuni dipendenti in servizio in Thailandia
hanno preferito non esercitare, per utilizzare in altro modo la quota
contributiva di loro spettanza. Al personale di cittadinanza non italiana si
applica, invece, la disciplina locale in materia previdenziale. Anche questo è
previsto dall’articolo 158. Nel caso in cui la tutela previdenziale non sia
prevista dalla legislazione locale, o lo sia in maniera ‘manifestamente
insufficiente’, la norma prevede la facoltà di richiedere una tutela
previdenziale in forma privata. È una misura in favore dei dipendenti. Questa
facoltà – ha continuato il Sottosegretario – deve essere esercitata dal
dipendente, tramite specifica istanza, in seguito alla quale l’Amministrazione
verifica la sussistenza dei requisiti di legge per la stipula di una polizza privata
e trasmette le risultanze al vaglio degli organi di controllo della spesa.
Questa istanza è stata trasmessa dai dipendenti a contratto all’Ambasciata a
Bangkok la settimana scorsa, il 5 aprile. L’Amministrazione ha già iniziato a
esaminare la questione, assai complessa dal punto di vista contrattuale e
amministrativo-contabile, anche per l’assenza di precedenti in materia.
Confermo dunque che stiamo valutando le opportune iniziative a tutela dei
diritti previdenziali delle 4 unità di personale a Bangkok di cittadinanza non
italiana. Tutto il personale a contratto presso le sedi estere – ha proseguito
Silli – è oggetto della massima attenzione da parte dell’Amministrazione e,
personalmente, del Ministro Tajani. Che si è impegnato per ottenere, nell’ultimo
anno e mezzo, importanti riconoscimenti a favore della categoria. Ricordo ad
esempio il nuovo assegno per situazioni di famiglia, misura datoriale di
sostegno economico a beneficio del personale a contratto con familiari a
carico. Più di recente, una novità significativa ha interessato il personale a
contratto in Svizzera. Infatti, a seguito dell’approvazione del decreto
interministeriale Maeci -Mef dell’8 gennaio, questo personale viene
integralmente retribuito in franchi svizzeri. Si tratta di una misura che viene
incontro a numerose richieste ed è mirata a eliminare l’erosione del potere di
acquisto dell’Euro determinata dalle fluttuazioni del tasso di cambio,
perseguendo un principio di equità retributiva. Abbiamo concluso di recente,
per la prima volta sulla rete diplomatico-consolare, – ha concluso il
Sottosegretario – una polizza previdenziale integrativa per il personale a
contratto in servizio nei Paesi Bassi, che in attuazione dei regolamenti
europei era transitato al sistema previdenziale locale, meno generoso di quello
italiano”. In sede di replica il deputato Porta si è dichiarato parzialmente
soddisfatto della risposta dell’Esecutivo, anche in considerazione
dell’oggettiva complessità della problematica in oggetto. Per Porta comunque
l’attenzione specifica che l’amministrazione degli esteri ha dedicato alla
situazione dei dipendenti a contratto della sede diplomatica in Thailandia,
unita al quadro complessivo delineato dal sottosegretario, dimostra l’urgenza
di introdurre meccanismi strutturali e permanenti per superare le attuali
problematiche. Dal deputato è stata quindi auspicata l’elaborazione, anche con
il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali, di una riforma in grado di
garantire una copertura assicurativa e previdenziale omogenea per tutto il
personale a contratto, sia di cittadinanza italiana sia di nazionalità locale.
(Inform/dip 14)
EU-Asyl-Reform. Das erwartet
Schutzsuchende zukünftig in Europa
Das Europäische
Parlament hat der Reform des EU-Asylsystems zugestimmt. Es ist eine massive
Verschlechterung des bisherigen EU-Asylrechts – in vielerlei Hinsicht. Von
Wiebke Judith
Am 10. April 2024 hat das
Europäische Parlament der Reform des Gemeinsamen Europäischen Asylsystems
(GEAS) zugestimmt. Durch verpflichtende Grenzverfahren unter Haftbedingungen –
auch für Kinder – sowie gesenkte Standards für sogenannte „sichere
Drittstaaten“ und zusätzliche Verschärfungen im Fall von „Krisen“ stellt die
Reform eine massive Verschlechterung des bisherigen EU-Asylrechts dar. Am
Vortag hatten 161 Organisationen noch an das Parlament appelliert, diese
Verschärfung nicht mitzutragen.
Die beschlossenen
Gesetzestexte werden nach letzter Zustimmung der Mitgliedstaaten im Rat, die
sicher ist, voraussichtlich im Mai 2024 in Kraft treten. Sie sehen jedoch einen
Umsetzungszeitraum von zwei Jahren vor und finden damit erst ab der zweiten
Jahreshälfte 2026 Anwendung. Die Bundesregierung muss bis Ende dieses Jahres
einen Umsetzungsplan vorlegen. Hierzu werden auch verschiedenste
Gesetzesänderungen gehören müssen.
Was passiert konkret dann
künftig mit nach Europa fliehenden Menschen, wenn die Verordnungen ab 2026
angewendet werden? Ganz genau lässt sich das nicht vorhersagen, denn schon in
den letzten Jahren sind EU-Staaten vor allem dadurch aufgefallen, das geltende
Recht falsch oder gar nicht anzuwenden. Auch unterlaufen einige Regierungen
schon jetzt das EU-Recht, indem sie es mit neuen Deals umgehen wollen – wie die
italienische Ministerpräsidentin Meloni mit ihrem Albanien-Deal.
Um zu verdeutlichen, um wen
und um was es geht, hat die Menschenrechtsorganisation Pro Asyl basierend auf
den beschlossenen Verordnungen und einer realistischen Umsetzungsprognose
folgende Einzelfälle fingiert, die in der Ausgangslage auf typischen Fluchtgeschichten
beruhen.
Beispiel 1: Schnellverfahren
an den Außengrenzen – auch für politisch Verfolgte aus der Türkei
Bahar* engagiert sich für die
Rechte von Kurd:innen in der Türkei und wird zunehmend von der Polizei unter
Druck gesetzt. Als sie davon hört, dass es einen Haftbefehl wegen Unterstützung
einer „terroristischen Organisation“ – ein häufig gegen die politische
Opposition eingesetzter Vorwurf der politischen Verfolgung in der Türkei –
gegen sie gibt, beschließt sie spontan, das Land zu verlassen.
Sie schafft es mit ihrem
fünfjährigen Sohn trotz der weiterhin verbreiteten illegalen Pushbacks über die
Landgrenze nach Bulgarien. Sie will Asyl beantragen, kommt aber zunächst in das
neue Screening-Verfahren. Dieses ist nun für alle Personen vorgesehen, die an
den Grenzen aufgegriffen werden ohne die Einreisevoraussetzungen zu erfüllen
oder nach Seenotrettung an Land gebracht werden. Während des Screenings gelten
Bahar und ihr Sohn als „nicht eingereist“. Sie darf deswegen das
Screening-Zentrum an der Außengrenze nicht verlassen und sich nicht frei
bewegen. In dem Zentrum wird sie von bulgarischen Grenzschutzbeamt:innen zu
ihren persönlichen Daten befragt. Auch gibt es einen medizinischen Check. Nach
sieben Tagen ist das Screening vorbei.
Da Bahar während des
Screenings als Türkin registriert wurde, wird sie mit ihrem Asylantrag
automatisch nach dem Screening in das neue Asylgrenzverfahren der
Asylverfahrensverordnung weitergeleitet. Das neue Asylgrenzverfahren ist
verpflichtend, wenn jemandem vorgeworfen wird, eine Gefahr für die öffentliche
Sicherheit zu sein oder den Behörden zum Beispiel falsche Identitätsdokumente
vorgelegt zu haben – oder wenn die Anerkennungsquote des Herkunftslandes
weniger als 20 Prozent europaweit umfasst. Seit dem Januar 2024 liegt die
europaweite Schutzquote für das Herkunftsland Türkei bei nur noch 18 Prozent
und damit knapp unter der Schwelle.
Keine Ausnahmen vom
Grenzverfahren für Kinder mit ihren Familien
Bahar und ihre Sohn dürfen
deswegen auch weiterhin nicht einreisen und sind für die gesamten drei Monate
des Asylgrenzverfahrens in dem Lager an der Außengrenze festgesetzt – denn eine
Ausnahme für Kinder mit ihren Familien von der haftähnlichen Unterbringung gibt
es nicht. Ihr Asylverfahren soll lediglich priorisiert werden. Selbst die
angeordnete Inhaftnahme von Kindern während des Grenzverfahrens ist nicht
ausgeschlossen.
Statt ein reguläres
Asylverfahren zu bekommen, müssen sie also ein beschleunigtes Verfahren an den
Außengrenzen durchlaufen – abgeschottet von der Außenwelt. In Bulgarien wird
diese Art von Schnellverfahren schon seit 2023 in einem Pilotprojekt erprobt.
Anwält:innen in Bulgarien befürchten, dass sie durch die Reform künftig die
Schutzsuchenden gar nicht mehr erreichen und unterstützen können.
Sollten die beiden im
Asylverfahren abgelehnt werden – was bei einem absehbar voreingenommenen und
unfairen Verfahren ohne ausreichende Unterstützung trotz drohender Verfolgung
keine Überraschung wäre – können sie weitere drei Monate an der Außengrenze als
„nicht-eingereist“ isoliert werden.
Für dieses neue
Abschiebungsgrenzverfahren musste ganz zum Schluss der Verhandlungen noch eine
eigene Verordnung geschaffen werden, um es rechtssicher zu gestalten. Sollte
eine Abschiebung in der Zeit nicht erfolgen, kann immer noch die
Abschiebungshaft angeschlossen werden. Die Grenzverfahren erhöhen damit die
Gefahr, dass der Schutzbedarf geflüchteter Menschen nicht erkannt wird und sie
trotz drohender Verfolgung abgeschoben werden.
Beispiel 2: Märchen der
„sicheren Drittstaaten“
Fadi* flieht aus Syrien, denn
er ist wegen der Unterstützung von Anti-Assad-Demos in den Fokus des
Geheimdienstes geraten. Über die Türkei flieht er nach Griechenland und schafft
es, mit dem Boot auf einer griechischen Insel anzukommen. Während des Screenings
wird Fadi auch nach seinem Fluchtweg gefragt, im Screening-Formblatt wird
eingetragen, dass er sich nach seiner Flucht aus Syrien kurz in der Türkei
aufgehalten hat. Deswegen wird Fadi in das Lager nebenan verlegt, für ein
Asylverfahren einreisen darf er nicht. Denn in Griechenland gilt die Türkei
weiterhin als „sicherer Drittstaat“, laut der Asylverfahrensverordnung können
Mitgliedstaaten die Grenzverfahren auch zum Beispiel auf Personen anwenden, die
über „sichere Drittstaaten“ geflohen sind.
Die Türkei gilt seit 2016 für
Syrer:innen in Griechenland als „sicherer Drittstaat“ und seit 2021 unter
anderem auch für Afghan:innen, obwohl die Türkei die bisherigen Kriterien für
„sichere Drittstaaten“ hierfür nicht erfüllt (siehe auch hier für eine aktuelle
Studie). Mit der GEAS-Reform werden die Anforderungen an die Sicherheit in dem
Drittstaat stark heruntergeschraubt, was zumindest in Teilen sehr auf die
Türkei zugeschnitten scheint. So muss Fadi in der Türkei keinen
Flüchtlingsstatus nach Genfer Flüchtlingskonvention (GFK) bekommen können,
sondern es reicht, dass er dort einen sogenannten „effektiven Schutz“ erhalten
kann – der jedoch nicht alle Rechte nach der GFK umfasst.
Die Türkei hat die GFK nur
mit einem geografischen Vorbehalt ratifiziert, weshalb Flüchtlinge aus Syrien
und Afghanistan ihn nicht bekommen können. Deswegen war bisher umstritten, ob
die Türkei überhaupt für sie europarechtlich als „sicher“ gelten kann. Das soll
nun umgangen werden. Zudem schiebt die Türkei sogar regelmäßig in beide Länder
ab, was völkerrechtswidriges refoulement ist. Das müsste – wenn die Regeln
ernst genommen werden würden – auch künftig dazu führen, dass die Türkei nicht
als sicher gelten kann. Mit der GEAS-Reform muss zudem nicht mehr das ganze
Land sicher sein, Teilgebiete können ausreichen.
Durch die Reform liegt es
jetzt vor allem bei Fadi zu beweisen, dass die Türkei für ihn nicht sicher ist.
Er war allerdings nur kurz in dem Land, weil er viel Schlechtes über den Umgang
mit syrischen Flüchtlingen dort gehört hat. Auch nach der Reform muss es eine
Verbindung zu dem Drittstaat geben aufgrund derer es sinnvoll für Fadi
erscheint, in das Land zu gehen. Laut den Erwägungsgründen der Verordnung ist
dies zum Beispiel anzunehmen, wenn sich Familienangehörige von Fadi in diesem Land
aufhalten oder wenn sich Fadi in diesem Land niedergelassen oder aufgehalten
hat. Sollte all dies von den griechischen Behörden als gegeben angenommen
werden, dann wir der Asylantrag von Fadi als „unzulässig“ abgelehnt. Was ihm in
Syrien passiert ist, ist den Beamt:innen dann egal – für sie zählt nur, dass
sie ihn in einen außereuropäischen Staat abschieben wollen.
Und was heißt das alles für
Asylverfahren in Deutschland?
Aber nicht nur an den
europäischen Außengrenzen, sondern auch in Deutschland wird sich durch die
Reform sehr vieles ändern. Die Asylverfahrensverordnung wird – sobald sie ab
2026 in Anwendung kommt – wohl die meisten Regelungen im aktuellen Asylgesetz
verdrängen und ist direkt anwendbar. Wie genau die Umsetzung in Deutschland
aussehen wird, das muss die Bundesregierung bis Ende 2024 in einem
Umsetzungsplan festhalten. Viele Änderungen sind entsprechend der
Gesetzestexte, die nun final verabschiedet werden, aber schon absehbar: Auch in
Deutschland werden die neuen Screenings angewendet werden. Zum einen an den
deutschen EU-Außengrenzen, was primär die Flughäfen sind. Zum anderen gibt es
eine spezielle Norm für das Screening im Inland.
Wenn also eine Person in
Deutschland von der Polizei kontrolliert wird und kein Visum hat und auch nie
an den Außengrenzen registriert (gescreent) wurde, dann ist Deutschland
verpflichtet, ein Inlands-Screening durchzuführen. Während des Screenings muss
die Person den Behörden „zur Verfügung stehen“, Deutschland muss Regeln
erlassen um sicherzustellen, dass die Person nicht untertaucht. Das könnte zu
Haft oder haftähnlicher Unterbringung führen.
Die Person gilt aber – im
Gegensatz zum Screening an den Außengrenzen – als eingereist. Das ist wichtig,
denn wenn sie einen Asylantrag stellt, kann sie im Anschluss nicht einem
Asylgrenzverfahren zugeleitet werden – denn hierfür müsste sie noch als
„nicht-eingereist“ gelten. Die Screening-Verordnung stellt auch extra klar,
dass die Binnengrenzen auch bei der Anwendung von Grenzkontrollen Binnengrenzen
bleiben und dort aufgegriffene Personen nach dem Screening im Inland behandelt
werden müssen.
Es gibt jedoch eine
Sonderregelung, dass das Inlands-Screening nicht angewendet werden muss, wenn
die Person basierend auf einer bilateralen Vereinbarung direkt an der
Binnengrenze zurückgewiesen wird – das Screening findet dann in dem anderen
Mitgliedstaat statt. Asylsuchende müssten hiervon jedoch ausgeschlossen sein,
da auch nach dem neuen Schengener Grenzkodex ihre direkte Zurückweisung
europarechtswidrig bleibt (siehe hier zur aktuellen Praxis der Zurückweisungen
an deutschen Binnengrenzen).
Massive Änderung des
deutschen Grenzverfahrens
Die neuen Asylgrenzverfahren
sowie die Abschiebungsgrenzverfahren werden also primär an den deutschen
Flughäfen angewendet werden und werden das bisherige Flughafenverfahren
ersetzen. Während das bisherige deutsche Grenzverfahren nach 19 Tagen vorbei
ist, können ab 2026 die Verfahren zum Beispiel am Frankfurter Flughafen bis zu
drei Monate dauern. Insgesamt können dann Personen ein halbes Jahr im
Transitbereich festgehalten werden, wenn sie nach Ablehnung noch in das
Abschiebungsgrenzverfahren genommen werden. Fraglich ist aber, ob die bisherige
Art der Unterbringung an den deutschen Flughäfen für eine solch lange Zeit
geeignet ist. Auch wird man genau schauen müssen, ob die Standards, die das
Bundesverfassungsgericht für das Flughafenverfahren aufgestellt hat, im neuen
Grenzverfahren beachtet werden (siehe hier für eine Studie zum Vergleich des
Flughafenverfahrens und der GEAS-Reform).
Doch es gibt eine weitere
Konstellation, wann Asylsuchende in Deutschland ins Grenzverfahren kommen
können. Hierfür nehmen wir nochmal das Beispiel von Bahar und ihrem Sohn, der
kurdisch-türkischen Asylsuchenden, die in Bulgarien ins Grenzverfahren gekommen
ist: Schon bevor die beiden ins Grenzverfahren gekommen sind, hatte die
bulgarische Regierung bei der EU-Kommission eine Notifikation eingereicht, um
als Mitgliedstaat anerkannt zu werden, in dem ein sogenannter „Migrationsdruck“
herrscht. Seitdem dies anerkannt wurde, stehen Bulgarien Solidaritätsmaßnahmen
von anderen Mitgliedstaaten zu. Hierzu gehört auch die Aufnahme von
Asylsuchenden, wobei die meisten Mitgliedstaaten versuchen, stattdessen Geld zu
zahlen. Deutschland hatte im Zuge des neuen jährlichen High Level
Solidaritätsforums verbindlich zugesagt, 3.000 Asylsuchende aus Bulgarien
aufzunehmen. Insgesamt liegt der fair share Deutschlands – also der faire
Anteil an den Solidaritätsmaßnahmen – anhand der Quote von Bevölkerungszahl und
Bruttoinlandsprodukt bei circa 22 Prozent der benötigten Umverteilungsplätze
sowie der finanziellen Leistungen. Dies Solidaritätsmaßnahmen sollen pro Jahr
mindestens 30.000 Umverteilungsplätze und 600 Millionen Euro Finanzhilfen
umfassen, die an Mitgliedstaaten gehen, die unter Migrationsdruck stehen.
Bahar und ihr Sohn werden für
Deutschland für die Umverteilung ausgesucht, sie selbst haben kein
Mitspracherecht. In Deutschland kann das Asylverfahren von Bahar und ihrem Sohn
dann weiterhin als Grenzverfahren geführt werden, wofür Deutschland einen
weiteren Monat Zeit zur Bearbeitung bekommt. Auch über den
Umverteilungsmechanismus können also Asylsuchende künftig in Deutschland ins
Grenzverfahren kommen.
Das neue alte Dublin-System
Besonders relevant sind in
Deutschland in den letzten Jahren stets die sogenannten Dublin-Verfahren
gewesen, in denen festgestellt wird, ob ein anderer EU-Mitgliedstaat für den
Asylantrag zuständig ist und die asylsuchende Person in den Mitgliedstaat
überstellt wird. Auch wenn es ab 2026 keine Dublin-III-Verordnung mehr geben
wird sondern eine Verordnung über das Asyl- und Migrationsmanagement, so
bleiben die Grundprinzipien des Dublin-Systems bestehen. Der Mitgliedstaat, in
dem die asylsuchende Person als erstes eingereist ist, wird in den meisten
Fällen für den Asylantrag zuständig sein. Ein kleiner Zusatz bei den Kriterien
ist nur, dass im neuen System auch in einem Mitgliedstaat erworbene schulische
Qualifikationen in den letzten sechs Jahren als Zuständigkeitskriterium gelten.
Auch wenn sich unter anderem
die deutsche Bundesinnenministerin Nancy Faeser von der GEAS-Reform zu
versprechen scheint, dass künftig möglichst viele Asylsuchenden an den
Außengrenzen „hängen bleiben“ und es gar nicht erst nach Deutschland schaffen,
so scheint das nach den Erfahrungen der letzten Jahre eine wenig realistische
Prognose. Schon jetzt müssten Mitgliedstaaten wie Griechenland oder Italien
menschenwürdige Bedingungen für Asylsuchende garantieren und bei festgestellter
Zuständigkeit die Person zurücknehmen – in der Praxis passiert das jedoch kaum.
Der Erfahrung der letzten Jahre nach wird es weiterhin gute Gründe für viele
geflüchtete Menschen geben, weiter nach Deutschland zu flüchten. So auch im
fiktiven Fall von Fadi:
Dublin 4.0.: Kürzere Fristen
und weniger Rechtsschutz
Nachdem der Asylantrag von
Fadi als „unzulässig“ abgelehnt wurde, musste er noch weitere drei Monate im
Abschiebungsgrenzverfahren ausharren – obwohl die Türkei gar keine
Rückführungen akzeptiert (so auch der aktuelle Stand der EU-Türkei Erklärung).
Jetzt steht er in Griechenland vor dem Nichts, denn als offiziell abgelehnter
Asylsuchender steht ihm keine Unterstützung zu. Fadi hat schon einen Onkel in
Deutschland, deswegen entscheidet er sich, es nochmal in Deutschland mit dem
Asylverfahren zu versuchen. Doch hier angekommen gerät er in die Mühlen des
neuen Dublin-Systems: Die Fristen zur Kommunikation zwischen Deutschland und
Griechenland sind deutlich beschleunigt. So muss Deutschland der griechischen
Behörden innerhalb von nur zwei Wochen notifizieren, dass eine Wiederaufnahme
von Fadi stattfinden soll. Wenn Griechenland innerhalb von zwei Wochen keine
Gründe vorlegt, warum es doch nicht zuständig ist, wird die Zustimmung zur
Rückübernahme angenommen.
Ab dann läuft die sogenannte
Überstellungsfrist, die bei sechs Monaten bleibt. Sollte Fadi als flüchtig
gelten oder angeblich bestimmten medizinischen Vorgaben nicht folgen, die für
seine Überstellung notwendig sind, dann wird die Frist direkt auf drei Jahre
verlängert – eine Verdopplung gegenüber der aktuellen Regelung bei
„Flüchtigsein“. Zudem wurden für Fadi und andere betroffene Asylsuchende die
Rechtsschutzmöglichkeiten im Vergleich zur Dublin-III-Verordnung
verschlechtert, insbesondere soll offensichtlich ausgeschlossen werden, dass
Fadi nach Fristablauf auf ein Asylverfahren in Deutschland klagen kann.
Während die Frist läuft, kann
Fadi in Deutschland für die nicht gewünschte Weiterwanderung bestraft werden,
indem seine Sozialleistungen gekürzt werden. Dies ist so ähnlich schon im
Asylbewerberleistungsgesetz in Deutschland vorgesehen, wobei schon diese
Leistungseinschränkung verfassungsrechtlich höchst fragwürdig ist.
Für Fadi würde noch eine neue
Regelung gelten: Für Personen, die im Asylgrenzverfahren abgelehnt wurden, hört
die Zuständigkeit des Mitgliedstaates 15 Monate nach ergangener Ablehnung auf
zu gelten. Fadi kann also 15 Monate nach der Ablehnung im griechischen
Grenzverfahren doch einen neuen Asylantrag in Deutschland stellen, der dann
hier als neuer Asylantrag bearbeitet werden muss.
Verschärfungen im Fall von
Krisen, höherer Gewalt und „Instrumentalisierung“
Durch die Reform wird es
zudem zum ersten Mal eine Krisen-Verordnung geben, die den Mitgliedstaaten
verschiedene Ausnahmen von den dann eigentlich gültigen Regeln erlaubt – und
absehbar unerträglichen Zuständen an den Außengrenzen weiter Vorschub leisten
wird. Ob es eine Krise in einem Mitgliedstaat gibt, der solche Ausnahmen
erlaubt, wird von der Kommission auf Antrag des Mitliedstaates festgestellt und
in Entscheidungen der Kommission sowie einem Umsetzungsrechtsakt des Rates
festgehalten. Darin muss stehen, warum die Anwendung der Krisen-Verordnung
notwendig und verhältnismäßig ist, ab und bis wann die Ausnahmen gelten sollen
– aber nicht zwingend, welche Ausnahmen angewendet werden. Generell sollen die
Ausnahmen zunächst nur für drei Monate angewendet werden, was aber verlängert
werden kann. Insgesamt soll ein solcher „Krisen-Zustand“ nicht länger als zwölf
Monate gelten.
Sollte zum Beispiel Bulgarien
in dem Zeitraum, in dem Bahar mit ihrem Sohn ihren Asylantrag stellt, im
„Krisenmodus“ sein, so kann sich einiges für sie ändern. Erstens hätte
Bulgarien dann vier Wochen Zeit, um ihr Asylgesuch zu registrieren. Was harmlos
klingt kann in der Praxis zu einer stärkeren Pushback-Praxis führen, wenn die
schutzsuchenden Menschen länger nicht staatlich erfasst werden. Zweitens kann
Bulgarien das Grenzverfahren variieren: Wenn es sich um eine Krise wegen sehr
hoher Ankunftszahlen oder „höherer Gewalt“ handelt, dann kann Bulgarien den
Schwellenwert für die Quote, bei der das Grenzverfahren verpflichtend ist,
entweder auf 5 Prozent senken – dann wären Bahar und ihr Sohn nicht im
Grenzverfahren – oder auf 50 Prozent erhöhen, also deutlich mehr Menschen ins
Grenzverfahren nehmen. Wenn es keine ausreichenden Kapazitäten gibt, dann
müsste Bulgarien auch das Kriterium der Quote generell nicht mehr anwenden.
Wenn es jedoch um den Krisenfall einer Instrumentalisierung geht, dann kann
Bulgarien das Grenzverfahren auf alle Asylsuchenden ausweiten, die von einer anderen
Regierung oder nicht-staatlichen Akteuren „instrumentalisiert“ werden. Nur für
diesen Fall ist eine Ausnahme von Familien mit Kindern unter zwölf Jahren
vorgesehen.
Man merkt: Von einem wirklich
gemeinsamen Europäischen Asylsystem bleibt trotz einer ursprünglich gewünschten
stärkeren Angleichung der Verfahren in den Mitgliedstaaten wenig übrig, denn
durch die Krisen-Verordnung können ständig unterschiedliche Sonderregelungen
gelten. Das betrifft auch die Überstellungsfristen und Solidaritätsmaßnahmen.
*Die Fälle in diesem Text
sind fiktiv, aber nah an aktuellen Praxisfällen entwickelt. Mig 15
Deutlich härtere Regeln. Fragen und
Antworten zur EU-Asylreform
Jahrelang wurde über das europäische
Asylrecht gestritten - nun hat das EU-Parlament einer Reform zugestimmt.
Geplant ist insbesondere ein deutlich härterer Umgang mit Menschen aus Ländern,
die als relativ sicher gelten. Antworten auf wichtige Fragen. Von Stella Venohr
Warum soll die Asylpolitik in der EU reformiert werden?
An einer Reform wird bereits seit 2015 und 2016 intensiv
gearbeitet. Damals waren Länder im Süden Europas wie Griechenland mit einer
Vielzahl von ankommenden Menschen aus Ländern wie Syrien überfordert.
Hunderttausende kamen in andere EU-Staaten.
Dies hätte eigentlich nicht passieren dürfen, denn nach der
sogenannten Dublin-Verordnung sollen Asylbewerber da registriert werden, wo sie
die Europäische Union zuerst betreten haben.
Wie soll es in Zukunft ablaufen, wenn Geflüchtete an einer
EU-Außengrenze ankommen?
Die Reform sieht einheitliche Grenzverfahren an den
Außengrenzen vor. Geplant ist insbesondere ein deutlich härterer Umgang mit
Menschen aus Ländern, die als relativ sicher gelten. Bis zur Entscheidung über
den Asylantrag sollen diese Menschen bis zu zwölf Wochen unter haftähnlichen
Bedingungen in Auffanglagern untergebracht werden können.
Menschen, die aus einem Land mit einer Anerkennungsquote von
unter 20 Prozent kommen, sowie solche, die als Gefahr für die öffentliche
Sicherheit gelten, müssen künftig verpflichtend in ein solches Grenzverfahren.
Ankommende Menschen können dem Vorhaben nach mit Fingerabdrücken und Fotos
registriert werden, auch um zu überprüfen, ob sie eine Gefahr für die
öffentliche Sicherheit sein könnten.
Was passiert bei Ankunft besonders vieler Asylsuchender?
Bei einem besonders starken Anstieg der Migration könnte von
den Standard-Asylverfahren mit der sogenannten Krisenverordnung abgewichen
werden. Zum Beispiel kann der Zeitraum verlängert werden, in dem Menschen unter
haftähnlichen Bedingungen festgehalten werden können. Zudem könnte der Kreis
derjenigen vergrößert werden, der für die geplanten strengen Grenzverfahren
infrage kommt. Das gälte dann für Menschen aus Herkunftsländern mit einer
Anerkennungsquote von maximal 50 Prozent.
Sind Familien mit Kindern vom Grenzverfahren ausgenommen?
Nein, und das, obwohl die Bundesregierung zunächst gefordert
hatte, Familien mit Kindern aus humanitären Gründen von den Grenzverfahren
auszunehmen. Dieses zentrale Anliegen scheiterte jedoch. Nur unbegleitete minderjährige
Flüchtlinge bilden eine Ausnahme. Außenministerin Annalena Baerbock (Grüne)
bedauerte dies und sagte, dass nun bei der Umsetzung des neuen Asylsystems umso
mehr darauf geachtet werden müsse, „dass es fair, geordnet und solidarisch
zugeht“.
Wie werden die Geflüchteten dann verteilt?
Die Verteilung der Schutzsuchenden auf die EU-Staaten wird
den Plänen zufolge mit einem „Solidaritätsmechanismus“ neu geregelt: Wenn die
Länder keine Flüchtlinge aufnehmen wollen, müssen sie Unterstützung leisten,
etwa in Form von Geldzahlungen.
Ab wann soll das neue Recht gelten?
Die Einigung muss noch von den EU-Staaten bestätigt werden.
Das ist normalerweise eine Formalität. Dann haben die EU-Staaten zwei Jahre
Zeit, um die Vorgaben umzusetzen. Das soll den Staaten an den Außengrenzen
genügend Zeit geben, entsprechende Einrichtungen zur Unterbringung von Menschen
aus Staaten mit einer Anerkennungsquote von weniger als 20 Prozent zu schaffen.
EU-Innenkommissarin Ylva Johansson beteuerte, dass die Mitgliedstaaten
um Schnelligkeit bemüht seien. „Einige der Mitgliedsstaaten haben bereits mehr
oder weniger mit der Umsetzung begonnen.“
Was heißt das jetzt für Deutschland?
Kurzfristig wird sich an der Situation in Deutschland nichts
ändern. Denn bis die nun politisch geeinten Regelungen in die Praxis umgesetzt
werden, kann es noch dauern. Die Analyse des konkreten Anpassungsbedarfs in
Deutschland sei noch nicht abgeschlossen, sagte ein Sprecher des
Bundesinnenministeriums auf Nachfrage.
Dabei gehe es um rechtliche, praktische, technische und
sonstige Anpassungen. Die rechtlichen Anpassungen betreffen laut
Innenministerium voraussichtlich das Asylgesetz und das Aufenthaltsgesetz,
liegen zum Teil aber auch in den Zuständigkeitsbereichen anderer Ressorts und der
Länder. Gespräche mit den anderen betroffenen Bundesressorts und den Ländern
seien geplant.
Könnte die Reform die Zahl der Geflüchteten in Deutschland
verringern?
Ja, denn ein Teil der Schutzsuchenden wird dann von den
Außengrenzen direkt zurückgeschickt, und die verschärften Regeln könnten
abschreckend wirken. Darauf hoffen neben den Verhandlern auch CDU und CSU sowie
Länder und Kommunen. Kurzfristig wird sich an der Situation in Deutschland laut
Migrationsforscherin Zeynep Yana?mayan vom Deutschen Zentrum für Integrations-
und Migrationsforschung nichts ändern. „Wie die Aufnahmestaaten agieren, wirkt
sich auf Migration, vor allem auf Flucht, nur sehr begrenzt aus“, sagte sie.
Der Deutsche Städtetag dringt jedoch weiterhin auf sofortige
Unterstützung bei der Unterbringung der Geflüchteten. „Die Verordnung soll ab
2026 von den Mitgliedstaaten angewendet werden. Doch schon in einigen Monaten
müssen sie mit der Vorbereitung und Umsetzung beginnen. Das könnte sich dann
schon auf die Migrationszahlen auswirken, deutliche Effekte wird es aber von
heute auf morgen nicht geben“, sagte Hauptgeschäftsführer Helmut Dedy der
Deutschen Presse-Agentur. „Bund und Länder bleiben deshalb weiterhin in der
Pflicht, auch die in Deutschland beschlossenen Maßnahmen zur Flüchtlingsfinanzierung
und zur besseren Steuerung von Migration konsequent umzusetzen. Die Städte
müssen dringend entlastet werden.“ (dpa/mig 12)
In der EU heißt es, man müsse die
Militärausgaben drastisch erhöhen. Dabei sind diese deutlich höher als der
russische Verteidigungshaushalt. Herbert Wulf
Der große Bruch in der europäischen Sicherheitsarchitektur
ereignete sich im Februar 2022 durch Russlands Aggression gegen die Ukraine.
Vorher hatte man in Europa immer noch gehofft, mit den Minsker Abkommen eine
friedliche Lösung zu finden. Doch das heutige Russland, so die allgemeine
Einschätzung, ist auf absehbare Zeit die größte Bedrohung für Frieden und
Sicherheit im euro-atlantischen Raum. Deshalb auch die rasche Entscheidung für
ein 100 Milliarden Euro schweres Sondervermögen für die Bundeswehr.
In Reaktion auf den russischen Angriff gelobten NATO und EU
uneingeschränkte Solidarität mit der Ukraine und versprachen ihre politische,
wirtschaftliche und militärische Unterstützung. Die Rüstungsproduktion wurde in
vielen Ländern Westeuropas hochgefahren. Mehr und mehr NATO-Mitgliedsländer
verpflichteten sich, ihre Militärausgaben auf mindestens zwei Prozent des
Bruttoinlandsproduktes (BIP) zu steigern, entsprechende Vorkehrungen wurden von
den meisten Staaten bereits getroffen. Mit Finnland und Schweden kamen zudem
zwei neue NATO-Mitglieder dazu. Es sollte alles getan werden, um Moskau in die
Schranken zu weisen und sich vor Russlands imperialen Ambitionen zu schützen.
Seit dem russischen Angriff auf die Ukraine wurde zumindest
die Notwendigkeit einer einheitlichen EU-Sicherheits- und -Rüstungspolitik
gebetsmühlenartig wiederholt. Aber allzu oft wurden typische EU-Kompromisse
vereinbart, die die offensichtlichen Brüche und Spaltungen zwischen den
Mitgliedstaaten der EU kaum verschleiern können. Es bleibt eine offene Frage,
ob die EU wirklich ihre eigene Rolle in der Sicherheits- und
Verteidigungspolitik finden wird. Der im März 2022 vereinbarte Strategische
Kompass der EU verspricht „einen ehrgeizigen Aktionsplan für die Stärkung
der Sicherheits- und Verteidigungspolitik der EU … und einen Quantensprung
nach vorn“. Dazu sei es notwendig, nachzurüsten und die Lücken in den
Verteidigungskapazitäten so schnell wie möglich zu schließen. Aber gibt es
überhaupt ein europäisches oder ein NATO-Defizit?
Laut offiziellen Zahlen der NATO wuchsen die Militärausgaben
von NATO-Europa plus Kanada zwischen 2015 und 2022 in jedem einzelnen Jahr. Das
Wachstum schwankte real zwischen 1,6 und 5,9 Prozent. Im Jahr 2023 wuchsen die
Budgets sogar um 8,3 Prozent. Die europäischen NATO-Länder und Kanada haben
ihre Budgets von 235 Milliarden US-Dollar im Jahr 2014 auf geschätzte 380
Milliarden US-Dollar im Jahr 2024 erhöht – eine Steigerung um mehr als 60
Prozent. Die Gesamtausgaben der NATO, einschließlich der USA, erreichten im
Jahr 2024 zusammen 1 160 Milliarden US-Dollar.
Vergleicht man diese Entwicklungen und Trends mit den
russischen Militärausgaben, ergibt sich ein interessantes Bild. In den letzten
zehn Jahren hat Russland jährlich rund vier Prozent seines BIP für das
Militär ausgegeben (mehr als doppelt so viel, wie die NATO jetzt anstrebt).
2022 belief sich das russische Budget für die Streitkräfte auf 86,4 Milliarden
US-Dollar. Der russische Verteidigungshaushalt ist drastisch gestiegen und wird
im Jahr 2024 auf etwa 109 Milliarden US-Dollar geschätzt, knapp ein Drittel des
gesamten Staatshaushalts. Aber allein der Verteidigungsetat der europäischen
NATO-Länder ist größer als der gesamte russische Staatshaushalt. Obwohl die
Militärausgaben eine schwere Belastung für die russische Wirtschaft darstellen,
die inzwischen weitgehend auf Kriegswirtschaft umgestellt ist, sind die
Ausgaben der NATO in Europa und Kanada dreieinhalb Mal höher. Mit den neuen
NATO-Mitgliedern Finnland und Schweden ist die negative militärische Bilanz
Russlands noch ausgeprägter. Russlands Militärausgaben belaufen sich auf
lediglich zehn Prozent der Ausgaben der NATO, wenn man die US-Ausgaben mit
einbezieht. Allein Frankreich (53,6 Milliarden US-Dollar) und Deutschland (55,8
Milliarden US-Dollar) haben 2022 insgesamt so viel ausgegeben, wie Russland
jetzt plant.
Gemessen an diesen Zahlen hat es nie ein Defizit gegenüber
Russland gegeben und gibt es, trotz aller Anstrengungen Moskaus, auch heute nicht.
Selbst wenn die unterschiedliche Kaufkraft in Russland und in der NATO
berücksichtigt wird, zeigt sich ein deutliches Übergewicht der NATO. Ein
ähnliches Bild ergibt sich, wenn man die Zahl der Soldaten oder die Ausrüstung
mit Kampfflugzeugen, Kampfpanzern, Raketen, Kriegsschiffen und U-Booten
vergleicht. Schließlich waren Russlands Streitkräfte nicht in der Lage, die als
schwach eingestufte Ukraine sofort erfolgreich zu besetzen. Dass die NATO rein
quantitativ betrachtet hoch überlegen ist, wird aber kaum thematisiert.
Warum also das Narrativ, dass Europa nicht in der Lage sei,
sich selbst zu verteidigen? Warum schrillen die Alarmglocken in Westeuropa,
wenn Donald Trump verkündet, wer nicht bezahlt, wird „von uns“ nicht
verteidigt? Ist Europa ohne Unterstützung der USA wirklich nicht fähig, sich
konventionell gegen Russland zu verteidigen? Dass die Europäer tatsächlich zu
einer eigenständigen Rüstungs- und Verteidigungspolitik nicht in der Lage sind,
wird durch viele international bedeutsame militärische Aktionen der letzten
Jahrzehnte bestätigt. Im Kosovokrieg 1999 erwiesen sich die Europäer als
unfähig, ihre völkerrechtlich problematische Politik ohne die USA
durchzusetzen. Die Evakuierung der westlichen Truppen aus Afghanistan 2021
endete im Chaos. Die Europäer waren auf die Lufttransportkapazitäten der USA
angewiesen. Auch die militärisch gestützte EU-Sahelpolitik endete kürzlich mit
einem Misserfolg und dem Rückzug der Streitkräfte.
Der Hauptgrund für die jahrzehntelange Unfähigkeit der
Westeuropäer, im Rahmen der EU oder im europäischen Teil der NATO strategische
Autonomie zu erzielen, die der französische Präsident Emmanuel Macron seit
Langem fordert, ist die unkoordinierte, weitgehend national orientierte
Rüstungs- und Verteidigungspolitik – und eben nicht die angeblich fehlenden
finanziellen Mittel. Denn in den vergangenen Jahrzehnten wurden in Europa
Unmengen von Geldern bereitgestellt. So liegt Deutschland auf Platz 6 der
Weltrangliste bei den Militärausgaben. Dennoch heißt es, die Bundeswehr stehe
„blank“ da, sie sei „kaputtgespart“ worden. Was ist eigentlich aus den mehr als
3 000 Milliarden US-Dollar geworden, die die europäischen NATO-Länder in den
letzten zehn Jahren für ihre Streitkräfte aufgewendet haben?
Die Erklärungen und Versprechungen für eine eigenständige
europäische Politik und deren Umsetzung klaffen weit auseinander. Nach wie vor
ist die Verteidigungspolitik in der EU höchst umstritten. Die jüngsten
Diskussionen um die Möglichkeiten des Einsatzes europäischer Bodentruppen in
der Ukraine bestätigen die Kluft zwischen Anspruch und Wirklichkeit. Kaum hatte
der französische Präsident diese Möglichkeit ins Gespräch gebracht, zerfiel die
EU in zwei Lager: in Befürworter und vehemente Gegner.
Der Krieg Russlands gegen die Ukraine hätte das endgültige
Aus für eine national ausgerichtete Sicherheits- und Verteidigungspolitik in
Europa sein müssen. Doch das Gegenteil ist der Fall, wie auch der Streit um die
Möglichkeit zeigt, einen EU-Kommissar für Verteidigung zu schaffen. Die in
allen europäischen Ländern erklingenden Rufe nach mehr Waffen ist reine
Symbolpolitik. Es ist eine Ersatzhandlung, um nicht die wirklichen Konsequenzen
aus dem Ukrainekrieg ziehen zu müssen. Es ist symbolischer Aktionismus, mit dem
die gescheiterten gemeinsamen Konzepte und Strategien kaschiert werden. IPG 12
Schärfere Regeln: EU-Parlament
beschließt Asylreform
Seit Jahren streitet die EU über die gemeinsame Asylpolitik.
Am Mittwoch hat das EU-Parlament die EU-Asylreform final gebilligt. Die
Entscheidung gilt als „historisch“ beziehungsweise „unmenschlich“ – je nach
Betrachtungswinkel.
Nach jahrelangen Verhandlungen hat das EU-Parlament die umstrittene
EU-Asylreform final gebilligt. Eine Mehrheit der Abgeordneten stimmte am
Mittwoch in Brüssel für alle zehn Gesetzesvorschläge der Reform. Die neuen
Regeln soll die Zahl von Geflüchteten und Migranten in die EU begrenzen und
steuern.
Im Kern geht es um einheitliche Verfahren, schnellere
Abschiebungen und mehr Solidarität unter den EU-Staaten. Über viele der
Vorschläge streitet die EU bereits seit 2016, ausgelöst durch die große
Fluchtbewegung im Jahr 2015.
Proteste bei Abstimmung im EU-Parlament
Die Abstimmung im EU-Parlament wurde von Protestrufen
unterbrochen. Demonstrierende auf den Zuschauerrängen riefen auf Englisch „Der
Pakt tötet. Stimmt dagegen!“ und warfen Papierflugzeuge in das Plenum.
Parlamentspräsidentin Roberta Metsola musste die Abstimmung unterbrechen. Die
unerwartete Aktion sorgte für gemischte Reaktionen unter den Abgeordneten:
Einige standen auf und applaudierten, während andere den Protest kritisierten.
Bundeskanzler Olaf Scholz (SPD) bezeichnete die Asylreform
als historischen und unverzichtbaren Schritt. Im Internetdienst X, vormals
Twitter, schrieb Scholz am Mittwoch, die Reform stehe für die Solidarität unter
den europäischen Staaten. „Sie begrenzt die irreguläre Migration und entlastet
endlich die Länder, die besonders stark betroffen sind“, fügte er hinzu.
Außenministerin Annalena Baerbock (Grüne) schrieb bei X, mit dem Ja zur Reform
beweise die EU in schwierigen Zeiten Handlungsfähigkeit. Europa bekomme
verbindliche Regeln mit „Humanität und Ordnung“.
Faeser: Überlassen Thema nicht Rechtspopulisten
Bundesinnenministerin Nancy Faeser (SPD) begrüßte die
Zustimmung des EU-Parlaments ebenfalls. Die Reform werde die irreguläre
Migration wirksam begrenzen und zu einer Entlastung der Kommunen führen,
erklärte sie in Berlin. Mit der Einigung habe Europa „eine tiefe Spaltung“
überwunden. Die Ministerin kündigte an, sich dafür einsetzen zu wollen, dass
die Reform möglichst schnell Wirkung entfaltet. Deutschland werde jetzt
gemeinsam mit der EU-Kommission und der belgischen Ratspräsidentschaft „sehr
intensiv daran arbeiten, das Gemeinsame Europäische Asylsystem schnellstmöglich
umzusetzen“.
Die Entscheidung zeige auch: „Wir überlassen dieses zentrale
Thema nicht den Rechtspopulisten, die Menschen in Not für ihre Stimmungsmache
missbrauchen“, sagte Faeser. Kritiker bestätigten hämisch: die beschlossene
Asylreform sei rechtspopulistisch, mithin werde den Rechtspopulisten
tatsächlich nichts überlassen.
Unterschiedliche Reaktionen, SPD mit gemischten Gefühlen
Innerhalb des EU-Parlaments fällt die Bewertung der
EU-Asylreform sehr unterschiedlich aus. „Das heutige Votum ist ein historischer
Moment für Europa und ein Meilenstein für ein gemeinsames europäisches
Asylsystem“, erklärte die CDU-Europaabgeordnete Lena Düpont. Ähnlich sieht es
die FDP. „Endlich schaffen wir klare Regeln für die ankommenden Menschen und
schnellere Verfahren an den Außengrenzen. Damit bringen wir mehr Ordnung in das
europäische Migrationssystem“, erklärte der FDP-Parlamentarier Jan-Christoph
Oetjen.
Die Sozialdemokraten betrachten die Reform mit gemischten
Gefühlen. Die Europaabgeordnete Birgit Sippel (SPD) erklärte, um einen
Kompromiss zu erzielen, habe ihre Fraktion „hohe Zugeständnisse“ machen müssen.
Sie wolle Kritik nicht verschweigen. So seien etwa verpflichtende Grenzverfahren
für Familien eines der „hochproblematischen Elemente“.
Linke: Krokodilstränen von SPD und Grüne nicht glauben
Die Grünen im Europaparlament sehen das Paket als eine
„Verschlechterung der aktuellen Situation“ und stimmten gegen eine Mehrheit der
Gesetzesentwürfe, wie die Europaabgeordnete Katrin Langensiepen (Grüne)
erklärte.
Die Linke äußerte deutliche Kritik. Der Beschluss „ebnet den
Weg für einen beispiellosen Rechtsruck in der EU-Asylpolitik“, sagte die
Abgeordnete Cornelia Ernst. Der Vorsitzende der Linksfraktion im EU-Parlament,
Martin Schirdewan, kritisierte SPD und Grüne: „Niemand sollte den
scheinheiligen Krokodilstränen Glauben schenken, mit denen Vertreter von SPD
und Grünen dieses Ergebnis bedauern werden.“ Er warf ihnen ein „durchsichtiges
Spiel“ vor, denn sie würden der unmenschlichen Reform erst zustimmen und dann
erfolglos versuchen, sie abzumildern.
Kinderrechtler warnen vor EU-Asylreform
Das Gesetzespaket sieht unter anderem vor, dass Asylsuchende
mit geringer Bleibechance schneller und direkt von den EU-Außengrenzen
abgeschoben werden. Für die Schnellverfahren sollen die Menschen bis zu zwölf
Wochen unter haftähnlichen Bedingungen untergebracht werden. Während der
Verfahren gelten die Menschen juristisch als nicht eingereist („Fiktion der
Nicht-Einreise“). Das bedeutet, sie haben nicht dieselben Rechte wie
Asylbewerber. Deutschland wollte, dass Kinder von diesen sogenannten
Grenzverfahren ausgenommen werden, setzte sich mit dieser Forderung aber nicht
durch.
Das internationale Kinderhilfswerk Terre des Hommes hatte
bereits im Vorfeld der Abstimmung appelliert, gegen die EU-Asylreform zu
stimmen. Das Migrations- und Asylpaket sei mit Kinderrechten nicht vereinbar,
teilte das in Osnabrück ansässige Werk mit. Die Asyl-Reform bedeute für
zahlreiche Kinder auf der Flucht die „Inhaftierung hinter Stacheldraht und
Lagermauern und die Gefahr von Rückführungen in Länder, in denen sie nicht
sicher sind“, sagte Joshua Hofert, Vorstandssprecher von Terre des Hommes.
Insbesondere die Inhaftierung zur Migrationskontrolle widerspreche der
UN-Kinderrechtskonvention.
Sonderregeln für EU-Staaten
Die sogenannte Krisenverordnung ist ein weiterer Baustein
des Reformpaketes. Sie sieht Sonderregeln für EU-Staaten vor, die aufgrund
ihrer geografischen Lage vergleichsweise viele Geflüchtete aufnehmen. Zum
Beispiel können sie Schutzsuchende dann noch länger an der Außengrenze
festhalten. Deutschland hatte auch diese Regelung zunächst wegen humanitärer
Bedenken abgelehnt.
Gemäß den neuen Regeln ist grundsätzlich weiterhin das
EU-Land für einen Asylbewerber zuständig, in dem dieser zuerst europäischen
Boden betreten hat. Zusätzlich ist ein EU-Solidaritätsmechanismus geplant.
Dieser soll hauptsächlich die EU-Staaten an der Außengrenze entlasten und
Schutzsuchende innerhalb der EU umverteilen. Länder, die keine Personen
aufnehmen wollen, sollen aber auch Ausgleichszahlung leisten können.
Expertin: Auswirkungen der Reform „begrenzt“
Nach dem EU-Parlament muss noch der Rat der
EU-Mitgliedstaaten der Reform zustimmen. Dies gilt als Formsache. Anschließend
haben die EU-Staaten zwei Jahre Zeit für die Umsetzung. Das soll den Staaten an
den Außengrenzen genügend Zeit geben, entsprechende Einrichtungen zur
Unterbringung von Menschen aus Staaten mit einer Anerkennungsquote von weniger
als 20 Prozent zu schaffen.
Kurzfristig wird sich also an der Situation in Deutschland
nichts ändern. Migrationsforscherin Zeynep Yana?mayan vom Deutschen Zentrum für
Integrations- und Migrationsforschung mahnte an, dass sich Veränderungen in Fluchtbewegungen
vor allem nach Konflikt- und Verfolgungslagen in Herkunfts- und Transitländern
richteten. „Wie die Aufnahmestaaten agieren, wirkt sich auf Migration, vor
allem auf Flucht, nur sehr begrenzt aus“, sagte sie der Deutschen
Presse-Agentur. (epd/dpa/mig 12)
In Großbritannien bedauern immer mehr den EU-Austritt. Doch
auch unter einer Labour-Regierung wird es keine Neuauflage der
Brexit-Verhandlungen geben. Michèle Auga
Am 30. Juli 1966 läuft bereits die Verlängerung im
WM-Endspiel in Wembley zwischen England und Deutschland. Nach 101 Minuten steht
es noch immer 2:2, als der englische Spieler Geoff Hurst den Ball von der
rechten Seite des Torraums mit einem strammen Schuss über den Kopf des
deutschen Torwart Hans Tilkowski hinweg aufs Tor schießt. Der Ball prallt zunächst
an die Unterseite der Torlatte, von dort direkt auf die Tor-Linie und zurück in
den Strafraum, wo der deutsche Verteidiger Wolfgang Weber ihn beherzt über das
Tor ins Aus köpft. Tor oder nicht Tor – das ist hier die Frage. Das Spiel ist
lange abgepfiffen, England wurde Weltmeister und dennoch blieb das Wembley-Tor
eine Generationenfrage. Der Diskussionsprozess war so schmerzhaft, dass vor
allem die deutschen Spieler lange nicht darüber sprechen wollten.
Der britische Labour-Vorsitzende Keir Starmer, ein
Linksfüßler, spielt noch immer jede Woche Fußball (Alte Herren) in – wie er
sagt – „einer taktisch-kontrollierenden Rolle im Mittelfeld“. Was er an Fußball
liebe, seien die Toleranz und der Respekt, den man gegenüber dem gegnerischen
Team aufbringen müsse. Zwischen 2016 und 2019, als er die Rolle des
Schattenministers für die Brexit-Verhandlungen ausfüllte, musste er, der
überzeugte Europäer, diese Toleranz vor allem gegenüber weiten Kreisen der
eigenen Anhängerschaft aufbringen. Über 30 Prozent der klassischen
Labour-Wähler hatte sich für den Austritt aus der EU stark gemacht.
Gerade in den traditionellen Wahlkreisen der Arbeiterpartei
in den Midlands und im Norden Englands war die Anti-EU-Stimmung besonders
stark. Ausgerechnet diese ehemaligen Hochburgen von Labour gingen 2019 in der
von Boris Johnson ausgerufenen „Get Brexit Done“-Parlamentswahl krachend für
die Partei verloren. Seither hat sich das Vereinigte Königreich dramatisch
verändert. Das Land ist durch eine schwere Pandemie, einen heftigen Anstieg der
Lebenshaltungskosten und eine erneute Austeritätspolitik schwer gebeutelt. Die
Auswirkungen des Brexits sind nicht mehr nur abstrakte Warnungen der
Pessimisten, sondern werden vor allem im Alltag durch gestiegene Preise,
Fachkräftemangel und Beschwernisse beim Reisen deutlich.
Großbritannien wartet gespannt auf die nächsten
Parlamentswahlen, die bis zum Januar 2025 abgehalten werden müssen. Die
Entscheidung über den genauen Zeitpunkt obliegt allein dem derzeitigen
Premierminister Rishi Sunak. Am Wahltag wird die Konservative Partei seit mehr
als 13 Jahren an der Macht sein. Lange galt sie als fast unbesiegbar, aus den
letzten vier Wahlen zum Unterhaus ist sie jeweils als stärkste Partei
hervorgegangen. Seit 2021 befinden sich ihre Umfragewerte jedoch im freien
Fall. Eine Reihe von verlorenen Nachwahlen verstärkt den Eindruck, dass die
Tories an den Urnen auf eine dramatische Niederlage zusteuern. Von heute 365
Sitzen in Westminster würden ihnen nach jetzigem Stand nur noch 155 bleiben,
während die Labour-Fraktion von vormals 202 Abgeordneten auf 403 anwachsen
würde. Ein neues Schlagwort macht die Runde: „Bregret“ – das Bedauern über den
Brexit.
Labour dürfte sich die Downing Street nicht nur für eine,
sondern mindestens zwei Wahlperioden sichern. Wäre es daher jetzt nicht an der
Zeit, dass der Europäer Starmer den „Fehler“ des EU-Austritts wiedergutmacht?
So kurz vor den Europawahlen böte es sich doch an, die mediale Aufmerksamkeit
für das Thema zu nutzen. Im März 2024 waren schließlich 55 Prozent der Menschen
in Großbritannien der Meinung, dass es falsch war, die EU zu verlassen,
gegenüber 34 Prozent, die es weiterhin für eine richtige Entscheidung halten.
Der Anteil derjenigen, die den Brexit bedauern, liegt bereits seit zwei Jahren
durchgehend über 50 Prozent. Diese Zahlen spiegeln die sinkenden
Zustimmungswerte der Regierung wider, zumal die Tories und ihr ehemaliger
Premierminister Johnson stark mit dem Brexit und dem „Leave“-Votum in
Verbindung gebracht werden.
Obwohl es eine klare Mehrheit gibt, die den Brexit
tatsächlich bedauert, gibt es noch immer keine bestimmte Politik mit Blick auf
die EU. Noch Ende 2023 wollten nur 31 Prozent der Britinnen und Briten
tatsächlich zurück in die EU, während 30 Prozent lediglich die
Handelsbeziehungen verbessern und weder der EU noch dem Binnenmarkt wieder
beitreten wollten. Auch der Ukraine-Krieg hat daran nichts geändert.
„Es ist von grundlegender Bedeutung, dass das Vereinigte
Königreich und Europa engste Beziehungen unterhalten, und die Zeit des Brexits
ist vorbei, die Situation ist geklärt“, so Labours vermeintlich zukünftiger
Außenminister David Lammy auf der Münchner Sicherheitskonferenz im Februar
2024. Labour werde einen neuen Sicherheitspakt mit der EU anstreben, der
regelmäßige Treffen zwischen Ministerinnen und Ministern beider Seiten vorsehe
– derzeit gibt es keine Treffen dieser Art. Im EU-Lager der Labour-Partei
hoffen viele, dass ein regelmäßiger Sicherheitsdialog eine katalysatorische
Wirkung hätte. Wer über Sicherheit spreche, der werde bald auch über andere
Themen Informationen austauschen wollen wie zum Beispiel Energie, Lieferketten
oder Migration.
Bereits 2026 steht die nächste Herausforderung im
bilateralen Verhältnis mit der EU an: die im Handelsabkommen (TCA) vorgesehene
Überprüfung der bisherigen Vereinbarungen. Vorstellbar sei deshalb auch, dass
sich Labour für atmosphärische Verbesserungen einsetzen könnte, unter anderem
durch ein Abkommen zum Abbau von Handelshemmnissen, über die gegenseitige
Anerkennung beruflicher Qualifikationen, die Erleichterung der visafreien
Kurzzeitbeschäftigung von Briten in der EU und umgekehrt oder über die
Übernahme von EU-Standards im Bereich Pflanzen- und Tiergesundheit. Auch die
viel zitierten Schwierigkeiten bei der Durchführung von Musik-Tourneen könnte
man leicht aus dem Weg räumen. Anders als die Tories werde man sicherlich auch
nicht permanent nach Divergenz zur EU streben, sondern versuchen, gemeinsame
Standards zu halten.
Der Taktiker Starmer ist jedoch nicht bereit, das Vereinigte
Königreich zurück in den Binnenmarkt oder die Zollunion zu führen. Eine
Rückkehr zur Personenfreizügigkeit wäre aus seiner Sicht eine Verletzung der
Spielregeln. Die Kontrolle darüber, wer ins Land kommt, dürfe nie wieder
aufgegeben werden. Die Brexit-Parole „Take back control“ schwingt vor allem in
den ehemaligen Bergbaustädten Englands noch immer nach und die Parteistrategen
sind überzeugt, dass sie von der dortigen Wählerschaft – ohne deren Stimmen ein
Wechsel in London unmöglich bleibt – sofort abgestraft würden, sollten sie das
Thema Migration preisgeben. Ein weiteres Abkommen mit der EU könne auch die
Vorteile der Freihandelsregeln mit Australien und Neuseeland gefährden oder die
Bedeutung der Mitgliedschaft in der CPTPP-Freihandelszone schmälern. Zwar
möchte Labour gern eine Vereinbarung mit der EU treffen, um die Auswirkungen
der Kontrollen von Lebensmitteln und landwirtschaftlichen Erzeugnissen zu
mildern, aber dies würde wahrscheinlich voraussetzen, dass man eine Angleichung
an zukünftige EU-Vorschriften akzeptierte – ein Narrativ, das Starmer tunlichst
vermeiden will.
Der Wahlexperte Rob Ford von der Organisation UK in a
Changing Europe hält den derzeitigen Kurs aus wahltaktischen Gründen durchaus
für sinnvoll: „In Dudley, Nuneaton, Leigh und all den anderen Orten, die viel
stärker von der Linken geprägt sind, funktioniert das gut.“ Andererseits, so
warnt er, könnte die Partei später in der Regierung von ihren eigenen
Abgeordneten unter Druck gesetzt werden.
Das Lager um Abgeordnete wie Stella Creasy, die im Labour
Movement for Europe den Vorsitz innehat, formiert sich wiederum gerade neu und
stellt erfolgversprechende pro-europäische Kandidatinnen und Kandidaten
auf. Die Labour-Partei unter Starmer ist zwar instinktiv pro-europäisch, aber
im Vorfeld der Parlamentswahlen bleibt sie vorsichtig und konzentriert sich
darauf, die red wall seats zurückzugewinnen. Brexit ja oder nein, das war keine
Wirtschafts-, sondern Identitätspolitik und viele Unzufriedene könnten sich
vielleicht schnell an ihre starke „Leave“-Identität erinnern, sollte sich die
politische Auseinandersetzung wieder vermehrt um Europa drehen.
Starmer weiß, es gibt noch viele andere Gegner auf dem
Spielfeld. Möchte Brüssel tatsächlich eine Neuauflage der Brexit-Verhandlungen?
Hat das Königreich diesbezüglich nicht ein Glaubwürdigkeitsproblem? Und wer
garantiert, dass eine europafeindliche Konservative Partei bei der nächsten
Wahl nicht doch wieder an die Macht gelangt? Haben die Hardliner unter den
Brexiteers wirklich an Einfluss verloren? Die rechtspopulistische Reform
UK-Partei (früher „Brexit-Partei“) erfährt wieder Zulauf und hat mit dem
TV-Sender GB News ein neues, lautes Sprachrohr.
Ob Wembley oder Brexit: Das Spiel ist aus. Es ist
abgepfiffen, aber ob die Schiedsrichterentscheidung korrekt war, darüber wird
wohl noch über Jahre gesprochen werden. Bis eine nächste Generation auf dem
Feld steht, könnte die Spieltaktik von Labour lauten: Festlegung einer Agenda
und Prioritäten, Kommunikation mit Brüssel, Ermutigung der britischen Behörden,
ihre Netzwerke in den EU-Hauptstädten zu halten und auszubauen, Verbreitung von
Wissen über Europa, Schaffung von strukturellen Verbindungen in der Außen- und
Verteidigungspolitik, Aushandlung eines zusätzlichen Kapitels über Mobilität
sowie Abkehr von der Divergenz und Anerkennung der EU-Vorschriften zur
Pflanzen- und Tiergesundheit sowie zur Lebensmittelsicherheit.
Es war lange unklar, ob der Ball im Wembley-Stadion hinter
der Torlinie war oder nicht. Erst in den 1990er Jahren kam eine von britischen
Ingenieuren veröffentlichte Studie zu dem Schluss, der Ball sei nicht im Tor
gewesen. Aufbereitete Fotos und Filmaufnahmen zeigen den hochgeschleuderten
Kalk der Torlinie. Starmer weiß, spätere Generationen werden anders auf Europa
schauen: Nach dem Spiel ist vor dem Spiel. IPG 12
EU-Asylpakt: „Historischer Tag“
oder „Tiefpunkt“
Nach jahrelanger Diskussion hat das Europäische Parlament am
Mittwoch einer weitreichenden Reform des Europäischen Asylsystems zugestimmt.
Dies markiert einen historischen Moment, da zum ersten Mal einheitliche
Asylverfahren an den Außengrenzen der EU eingeführt werden. Die Reaktionen aus
Politik, Gesellschaft und Kirche gehen weit auseinander.
Das Europäische Parlament hat am Mittwoch über eine Reform
des Asylsystems abgestimmt. Die zentrale Änderung der Reform besteht darin,
dass Ankommende unter Bedingungen ähnlich der Haft in Lagern untergebracht und
registriert werden sollen.
Personen aus Ländern mit einer Anerkennungsquote von weniger
als 20 Prozent und die nicht minderjährig sind, sollen innerhalb von drei
Monaten abgeschoben werden. Zudem wird es für einzelne Länder möglich sein,
Geld zu bezahlen als Alternative zur Aufnahme von Flüchtlingen.
Die Bestätigung der ausgehandelten Kompromisstexte durch den
Rat der 27 Mitgliedsstaaten steht noch aus. Bis die Reform in Kraft tritt, kann
es bis zu zwei Jahren dauern.
Aus den ersten Reaktionen von Vertretungen der Politik, NGO’s
und der Kirche lassen sich sehr unterschiedliche Sichtweisen erkennen.
Migrationspolitik auf „bessere Beine gestellt“
Auf der Plattform X haben sich viele Politiker und
Politikerinnen zu Wort gemeldet.
„Die EU-Migrationspolitik wird auf neue und bessere Beine
gestellt. Die EU ist handlungsfähig. Ein guter Tag für Europa,“ schreibt
Manfred Weber (CSU), Vorsitzender der Europäischen Volkspartei.
EU-Parlamentspräsidentin Roberta Metsola nennt die
Beschlüsse einen „robusten Gesetzesrahmen für den Umgang mit Migration und Asyl
in der EU“.
„Ein historischer, unverzichtbarer Schritt,“ nennt sie
Olaf Scholz.
Die deutsche Innenministerin, Nancy Faeser (SPD), sieht in
der Einigung eine tiefe Spaltung Europas überwunden. „Wir schützen weiterhin
die Menschen, die aus furchtbaren Kriegen, vor Terror, Folter und Mord zu uns
fliehen. Aber diese Verantwortung für Geflüchtete wird künftig auf mehr
Schultern verteilt sein.“
Bundesaußenministerin Annalena Baerbock zeigt sich ebenfalls
zufrieden mit dem Ergebnis der Abstimmung. Mit der Zustimmung zur Asylreform
„beweist die EU in schwierigen Zeiten Handlungsfähigkeit“, schreibt die
Grünen-Politikerin.
Pakt kann die unerträgliche Situation nicht lösen
Die Grünen zeigen verschiedene Meinungen zu diesem Thema.
Terry Reintke, Ko-Vorsitzender der Grünen im Europaparlament, beklagt, dass der
Asyl- und Migrationspakt „die unerträgliche Situation an den EU-Außengrenzen
nicht lösen“, und kaum dazu beitragen, werde, Migration besser zu steuern,
stattdessen aber mehr Bürokratie schaffen werde.
Tiefpunkt für Flüchtlingsschutz
Amnesty International bezeichnet die gebilligte Asylreform
als „verpasste Chance“ und „beschämend“. Die Organisation Pro Asyl nennt das
Paket einen „Tiefpunkt für den Flüchtlingsschutz in Europa“. „Ärzte ohne
Grenzen“ warnt, dass das System bestehende Dynamiken verschärfen und Menschen
dazu zwingen wird, noch gefährlichere Fluchtrouten zu wählen.
„Scheitern der europäischen Solidarität“
Europa vernachlässige die Dramen der Migranten auf der
Flucht und ersetze Aufnahme durch Geldzahlungen, kommentiert die bischöfliche
Stiftung Migrantes am Donnerstag. Der Pakt markiere das Scheitern der
europäischen Solidarität. Auf Grenzländer wie Italien kämen nicht weniger,
sondern mehr Herausforderungen zu, etwa schnellere Kontrollen. Die kommenden
Europawahlen seien ein wichtiger Test, um Europa nicht Nationalismus und
Populismus zu überlassen. Im laufenden Jahr sind laut italienischem
Innenministerium mehr als 15.000 Menschen über die Mittelmeerroute nach Italien
gekommen. (sz / kna 11)
Fachleute warnen vor Zuspitzung der
Schuldenkrise armer Länder
Geld für Gläubiger – darunter Deutschland – statt
Schulbücher oder Ärztinnen: Viele wirtschaftlich schwachen Länder leiden laut
einem Report unter hohen Staatsschulden. Das Geld fehlt für notwendige
Investition in Bildung und Gesundheit. Folge: Migration in reichere Länder.
Die Situation für hoch verschuldete Staaten im globalen
Süden spitzt sich einem Bericht zufolge weiter zu. Nicht zuletzt durch die
wieder gestiegenen Zinsen erreiche der Schuldendienst an die ausländischen
Gläubiger in diesem Jahr neue Höchststände, hieß es in dem veröffentlichten
Schuldenreport 2024 des katholischen Hilfswerks Misereor und des Bündnisses
erlassjahr.de. Demnach fließen in den untersuchten 152 Ländern insgesamt über
eine Milliarde US-Dollar pro Tag in den Schuldendienst – so viel wie noch nie.
Bundesentwicklungsministerin Svenja Schulze (SPD) mahnte eine „gerechte Lösung
der Schuldenproblematik“ an.
Kritisch bis sehr kritisch verschuldet sind dem Bericht
zufolge inzwischen 55 Prozent der Länder, im Vergleich zu 37 Prozent im Jahr
2019 vor Beginn der Corona-Pandemie. Als Folge geht ein wachsender Teil der
Staatseinnahmen in die Tilgung der Verbindlichkeiten. In 45 Staaten seien es
bereits mehr als 15 Prozent.
Geld fehlt für Bildung, Gesundheit, Klima
Dieses Geld fehle für dringend notwendige Investitionen in
Bildung, Gesundheit und Klimaschutz. „Viele Länder im Süden stehen buchstäblich
mit dem Rücken zur Wand“, warnen die Fachleute. So sind im Libanon die Ausgaben
für den Schuldendienst laut dem Bericht inzwischen zehnmal so hoch wie die für
Bildung. In Ghana fließt elfmal mehr Geld in Zins- und Tilgungszahlungen als in
das Gesundheitswesen.
Info & Download: Der "Schuldenreport 2024"
kann kostenfrei heruntergeladen werden.
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Einen Ausweg aus der Schuldenkrise seien umfangreiche
Schuldenerlasse. Ohne die Streichung von Verbindlichkeiten könne eine bessere
wirtschaftliche und soziale Entwicklung in den betroffenen Ländern nicht
erreicht werden.
Schulze: Überschuldung eine „tickende Zeitbombe“.
Entwicklungsministerin Schulze sagte mit Blick auf den
Bericht, es brauche einen „neuen internationalen Konsens zum Umgang mit der
dramatischen Verschuldung“. Für die Stabilität der Weltwirtschaft sei die
Überschuldung eine „tickende Zeitbombe“. Eine gerechte Lösung sei nur möglich,
wenn sich alle Gläubiger gleichwertig an Schuldenerlassen beteiligten. Die
SPD-Politikerin verwies in diesem Zusammenhang insbesondere auf China, das zum
größten staatlichen Gläubiger armer Länder geworden sei.
Die ersten Umschuldungen nach der Corona-Pandemie zeigen den
Fachleuten zufolge, dass Gläubiger so wenig Erlass wie möglich gewährten.
„Gläubigerinteressen dominieren. Es sind die Menschen in den Schuldnerländern,
die dafür bezahlen“, sagte Klaus Schilder, Experte für Entwicklungsfinanzierung
bei Misereor. Folge: Immer mehr Menschen in diesen Ländern verlieren die
Hoffnung auf eine Zukunft und migrieren in andere Länder.
Deutschland weltweit viertwichtigster Gläubiger
Mit Blick auf den im Herbst anstehenden UN-Zukunftsgipfel
appellieren Misereor und erlassjahr.de an die Bundesregierung, sich dort für
einen neuen Konsens zum Schuldenmanagement einzusetzen, um die Weichen für
faire Entschuldungsverfahren zu stellen. So müssten sich öffentliche und
private Gläubiger verpflichtend an Schuldenerleichterungen beteiligen. Zudem
brauche es endlich den „politischen Grundstein“ für ein
Staateninsolvenzverfahren.
Zu den größten Gläubigerstaaten von Ländern mit niedrigem
Einkommen gehört inzwischen China. Auch die G7 als die Gruppe der größten
Industriestaaten spielen eine bedeutende Rolle. Deutschland ist der
viertwichtigste sogenannte bilaterale Gläubiger weltweit. Bilaterale Schulden
sind Kredite eines Staates bei einem anderen Staat. Zu den privaten Gläubigern
gehören insbesondere Investmentbanken. (epd/mig 11)
Wegweisendes Klima-Urteil. Europäischer
Gerichtshof: Klimaschutz ist Menschenrecht
Der Europäische Gerichtshof für Menschenrechte hat
wegweisende Klima-Urteile gesprochen: Die sogenannten Klimaseniorinnen siegten,
Jugendliche aus Portugal scheiterten hingegen mit ihrer Klage. Die Urteile
stellen wichtige Präzedenzfälle dar. Klimaforscher begrüßen Urteil.
Der Europäische Gerichtshof für Menschenrechte (EGMR) hat
geurteilt, dass Staaten gegen Menschenrechte verstoßen, wenn sie zu wenig für
den Klimaschutz tun. Der mangelhafte Klimaschutz der Schweiz habe das Recht auf
Achtung des Privat- und Familienlebens der Europäischen Konvention für
Menschenrechte verletzt, entschieden die Straßburger Richter am Dienstag in
einem wegweisenden Klima-Urteil. Geklagt hatte der Schweizer Verein der
Klimaseniorinnen.
Zwei weitere Klima-Klagen scheiterten aus formellen Gründen
vor dem Gerichtshof. Auch Jugendliche aus Portugal und ein französischer
Bürgermeister hatten wegen Folgen des Klimawandels geklagt.
Recht auf Schutz durch vor den Auswirkungen des Klimawandels
Die Klage der Schweizer Seniorinnen gilt als erste
Klima-Klage, die vor dem Menschenrechtsgerichtshof verhandelt wurde. Die von
Greenpeace unterstützte Gruppe wollte damit erreichen, dass die Schweiz ihre
Treibhausgasemissionen stärker reduzieren muss. Die Seniorinnen argumentierten,
dass sie durch ihr Alter besonders durch den Klimawandel gefährdet seien,
beispielsweise wegen großer Hitze.
Die Straßburger Richter gaben den Frauen recht. Der
Gerichtshof stellte fest, dass Artikel 8 der Menschenrechtskonvention ein Recht
auf wirksamen Schutz durch die staatlichen Behörden vor den schwerwiegenden
nachteiligen Auswirkungen des Klimawandels auf Leben, Gesundheit, Wohlbefinden
und Lebensqualität beinhaltet. Das Urteil bindet nur die Schweiz, schafft
darüber hinaus aber einen Präzedenzfall für weitere Klima-Klagen auch vor
nationalen Gerichten.
Zwei weitere Klagen aus formellen Gründen abgelehnt
In zwei weiteren Fällen wies der Gerichtshof am Dienstag die
Klage ab. In einem Fall hatten Jugendliche aus Portugal eine Klima-Klage
eingereicht. Auslöser waren verheerende Waldbrände im Jahr 2017. Die Kläger
warfen ihrem Heimatland, Deutschland und weiteren europäischen Staaten vor, die
Klimakrise verschärft zu haben und damit die Zukunft ihrer Generation zu
gefährden. Die Straßburger Richter entschieden am Dienstag, die Jugendlichen
hätten sich zuerst in Portugal durch die Instanzen klagen müssen, bevor sie den
Gerichtshof in Straßburg anrufen.
Im dritten Verfahren ging es um die Klage eines ehemaligen
französischen Bürgermeisters. Auch er hatte wegen mangelhaften Klimaschutzes
gegen sein Heimatland Frankreich geklagt. Seine Klage wurde abgewiesen, weil er
nicht als Opfer der potenziellen Menschenrechtsverletzung betroffen sei. Der
Mann lebt aktuell nicht in Frankreich.
Klimaforscher begrüßen Urteil
Klimaforscher haben das Urteil begrüßt. Dass das Gericht dem
Verein der Schweizer Klimaseniorinnen recht gegeben und unzureichende
Klimapolitik als menschenrechtsverletzend anerkannt habe, „ist bahnbrechend“,
erklärte der Direktor des Potsdam-Instituts für Klimafolgenforschung, Ottmar
Edenhofer, am Dienstag: „Dieses Urteil sollte auch andere Staaten an ihre
internationalen Verpflichtungen erinnern: Wer sich Klimaziele setzt, ist dafür
verantwortlich, diese einzuhalten.“
Edenhofer betonte zugleich, Europa könne das
„1,5-Grad-Celsius-Ziel“ des Pariser Abkommens zur Begrenzung der Erderwärmung
alleine nicht halten. Auch die Schweiz trage hier nicht alleine die Verantwortung.
Verantwortlich für die Bekämpfung des Klimawandels sei die gesamte
internationale Staatengemeinschaft, vor allem die Hauptemittenten. Es seien
bindende Mechanismen über Staatsgrenzen hinweg nötig, um Kooperation zu
ermöglichen. Ko-Direktor Johan Rockström erklärte, zum ersten Mal habe sich ein
internationales Gericht zum Klimawandel als Menschenrechtsfrage geäußert. Dies
werde wichtige Auswirkungen für alle Politiker, insbesondere für die
Regierenden haben.
Der EGMR ist für die Einhaltung der Menschenrechtskonvention
zuständig. Er ist ein Organ des Europarates. Zu diesem zählen unter anderem die
EU-Staaten, die Schweiz, Großbritannien und die Türkei. (epd/mig 10)
EURO 2024 in Deutschland:
Nachhaltig wie nie zuvor
„Wir wollen, dass diese Europameisterschaft das
nachhaltigste Sportereignis der Geschichte wird“: Diesem Vorsatz haben sich die
Organisatoren der Fußball-Europameisterschaft EURO 2024 verschrieben, die ab
Mitte Juni in Deutschland ausgetragen wird. Vorgestellt wurde das Sportevent an
diesem Mittwoch in der Residenz des deutschen Botschafters in Italien,
Hans-Dieter Lucas.
Unter den Gästen waren neben Weltmeister Miroslav Klose und
dem UEFA-Direktor für soziale und ökologische Nachhaltigkeit, Michele Uva, weitere
Starfußballer und Funktionäre. Mit einem ähnlichen Format wurde die EURO
2024 auch in anderen europäischen Ländern offiziell vorgestellt. In Rom
moderierte Valentina Maceri. Die Deutsch-Italienerin hatte selbst mehrere Jahre
in der deutschen Frauen-Nachwuchs-Nationalmannschaft gespielt.
„Heimspiel für Europa“ ist das Motto für die EM, das die
gastgebende Bundesregierung gewählt hat. Allerdings soll die
Europa-Meisterschaft nicht nur ein großes Fest des Fußballs sein, sondern auch
neue Maßstäbe für die Nachhaltigkeit von Sportgroßveranstaltungen setzen –
unter sozialen, ökologischen und wirtschaftlichen Gesichtspunkten.
„Wir wollen, dass diese Europameisterschaft das
nachhaltigste Sportereignis der Geschichte wird“, betonte Botschafter Lucas bei
der Vorstellung, für die er Sportgrößen und Funktionäre eingeladen hatte. Zwar
stehe der Sport im Mittelpunkt der Meisterschaft, so Lucas weiter: „Aber wir
wollen nicht den Kontext vergessen, in dem diese Europameisterschaften
stattfinden. Der Krieg ist nach Europa zurückgekehrt. Deshalb muss diese
Meisterschaft auch deutlich machen, was für unsere Vereine und für den Fußball
in Europa wichtig ist: gegenseitiger Respekt, friedlicher und fairer
Wettbewerb, Vielfalt und Freiheit.“
Dem stimmt Weltmeister Miroslav Klose zu. Der ehemalige
Torjäger der Deutschen Nationalmannschaft saß gemeinsam mit Ex-Mitgliedern der
italienischen Nationalmannschaft, Simone Perrotta und Damiano Tommasi, auf dem
Podium. Was die Werte angehe, die mit EURO 2024 vermittelt werden sollten, so
seien dies wohl vor allem die, für die er selbst einstehen wolle, so Klose
gegenüber Radio Vatikan:
„Vor allem Respekt. Wenn man weiß, wie viele Nationen nach
Deutschland kommen, wenn man weiß, wie unsere Nationalmannschaft, die ja 2014
auch Weltmeister wurde, aufgebaut war - mit Podolski, mir selbst, der ich in
Polen geboren wurde, Mesut Özil mit seiner türkischen Abstammung, Khedira mit
seiner tunesischen Abstammung… Das war bei uns schon kunterbunt und wir haben
das auch so gelebt, weil jeder etwas dazu beigetragen hat. Dieses Miteinander
ist auch ein Wert, den ich vorlebe: mit Respekt. Das ist mir immer wichtig und
ich hoffe, dass das auch bei dieser EM der Fall sein wird.“
Innovativ werde die EM auf jeden Fall unter zahlreichen
Gesichtspunkten sein, und auch der Spaß solle nicht zu kurz kommen, so Klose,
der sich auch „schönes Wetter wie 2006“ - als Deutschland die Weltmeisterschaft
ausgetragen hatte - für die EM wünschte. Damals sei das Wetter jedenfalls so
gut gewesen, dass ihm der italienische Torhüter Buffonversichert habe, er wolle
seine nächsten Ferien in Deutschland verbringen, schmunzelte er.
Nachhaltigkeit auf allen Ebenen
Besonderes Gewicht legen die Organisatoren des
Sportgroßereignisses jedenfalls auf die Tatsache, dass für diese Europameisterschaft
kein einziges Stadion neu gebaut werden musste. Klimafreundlich soll es vor
allem dadurch werden, dass Fans mit verbilligten Zugtickets aus ganz
Deutschland und dem Ausland für die Spiele anreisen können, auch ist ein
ausgetüftelter Spielplan entstanden, der aufeinanderfolgende Spiele in
denselben Gegenden Deutschlands bündelt, um weite Reisewege bestmöglich zu
vermeiden. Eine Neuigkeit stellt außerdem der Fokus auf die Achtung der
Menschenrechte dar: So wurde im Vorfeld der Spiele durch die UEFA und den DFB
nicht nur das Versprechen abgegeben, besonders auf den Respekt der
Menschenrechte zu achten, sondern auch eine eigene Anlaufstelle eingerichtet,
bei der erlittene oder beobachtete Menschenrechtsverletzungen jeder Art
angezeigt werden können. Diese sollen dann zentral weiterverfolgt und möglichst
auch bereinigt werden – bis hin zu einer eventuellen strafrechtlichen Anzeige
bei den zuständigen Behörden.
„United by
Football - Together for Nature“
Während der gesamten Europameisterschaft werden darüber
hinaus Maßnahmen zur Reduzierung und Messung der CO2-Emissionen ergriffen.
Unter dem Motto „United by Football - Together for Nature“ hat die UEFA im
Namen der Nachhaltigkeit auch einen Fonds für Klimaschutzprojekte eingerichtet,
in den für jede Tonne CO2, die während der EURO 2024 produziert wird, ein
Beitrag von 25 Euro eingezahlt wird. Derzeit wird mit rund 7 Millionen Euro
gerechnet. Soziale Nachhaltigkeit soll dadurch garantiert werden, dass
flächendeckend in Deutschland vor allem Jugendmannschaften in ihrer Arbeit
gefördert werden.
51 Spiele in zehn Städten
Die Fußball-Europameisterschaft der Männer findet vom 14.
Juni bis 14. Juli in Deutschland statt – die der Frauen wird 2025 in der
Schweiz ausgetragen. Zehn Stadien werden die 51 Spiele der EURO 2024
beherbergen; Austragungsorte sind Berlin, Hamburg, Leipzig, Köln, Dortmund,
Gelsenkirchen, Düsseldorf, Stuttgart, Frankfurt und München. Es handelt sich um
die erste Fußball-EM in Deutschland seit 1988, als der internationale Wettkampf
– noch vor der Wiedervereinigung – in Westdeutschland ausgetragen wurde. 24
Mannschaften treten in der aktuellen Ausgabe an. Das Eröffnungsspiel bestreitet
Deutschland gegen Schottland am 14. Juni in München. Das Endspiel wird am 14.
Juli in Berlin ausgetragen. (vn 10)
Umfragen. Rechtspopulistische
Wähler für Abbau des Sozialstaats – wegen Zuwanderern
Wähler rechtspopulistischer Parteien werden beim Thema
Zuwanderung von Neid getrieben. Sie sehen im Sozialstaat eine Umverteilung hin
zu Zuwanderern. Das geht aus einer Forschungsumfrage in mehreren Ländern
hervor. Auch in Deutschland steht Zuwanderung im Zentrum politischer
Forderungen.
Wähler rechtspopulistischer Parteien sprechen sich stärker
für einen Abbau sozialer Leistungen aus. Zu diesem Ergebnis kommt eine Umfrage
unter 12.000 Wählern in Deutschland, Frankreich, Spanien und dem Vereinigten
Königreich, wie das ifo Institut in München mitteilte. „Das rechtspopulistische
Spektrum sieht im Sozialstaat eine Umverteilung hin zu Zuwanderern“, sagte
Marcel Thum, Leiter der ifo-Niederlassung in Dresden, laut Mitteilung.
Linkspopulistische Wähler lehnten dagegen einen Abbau des
Wohlfahrtsstaats am vehementesten ab. Die Ansichten derer, die
nicht-populistische Parteien wählen, liegen demnach dazwischen. „Trotz dieser
verschiedenen Wahrnehmung des Sozialstaates unterscheiden sich die drei
Wählergruppen nicht in den Sorgen um ihr derzeitiges Haushaltseinkommen“, sagte
Thum. Auch ihre Zukunftsaussichten sehen alle drei Gruppen ähnlich.
Der Blick auf die offenen Grenzen in der EU unterscheide
sich ebenso je nach gewählter Partei: Je weiter rechts jemand eingestellt sei,
desto größer werde die Gefahr offener Grenzen für die eigene
Arbeitsplatzsicherheit angesehen.
Die Armut im eigenen Land wird laut der Umfrage von
Wählenden populistischer Parteien deutlich überschätzt. Am stärksten sei dies
bei Wählern von Rechtspopulisten der Fall. „Wer populistischen Tendenzen
entgegenwirken will, sollte diese überschätzte Armuts-Wahrnehmung mit kluger
Information korrigieren“, sagte Thum.
Für den Aufsatz „Den populistischen Wähler verstehen“ wurden
Personen im Alter von 18 bis 92 Jahren befragt. Die Teilnehmer wurden gefragt,
für welche Partei sie bei der jüngsten Wahl gestimmt haben und welcher Partei
sie bei der nächsten Wahl ihre Stimme geben wollen.
Mehrheit in Deutschland sieht Handlungsbedarf bei
Zuwanderung
Wie aus einer anderen Umfrage, dem ARD-Deutschlandtrend,
hervorgeht, sehen Deutsche bei den Themen Zuwanderung und Flucht großen
politischen Handlungsbedarf. Jeder Vierte (26 Prozent) nannte das Thema als
eines der wichtigsten Probleme. Den Ukraine-Krieg nannten 21 Prozent der
Befragten als drängendes Thema für die deutsche Politik. An dritter Stelle
folgte mit 19 Prozent der Befragten der Komplex der Wirtschaft.
Beim Thema Ukraine-Krieg sei mit einem Plus von zwölf
Prozentpunkten gegenüber September 2023 das Problembewusstsein deutlich
angestiegen, hieß es. Beim Thema Zuwanderung blieb der Wert demnach auf dem
gleichen Niveau.
Als weitere Themen für politischen Handlungsbedarf wurden
soziale Ungerechtigkeit, Armut, Klimawandel sowie Bildung genannt. Infratest
dimap hatte für den ARD-Deutschlandtrend am Dienstag und Mittwoch vergangener
Woche 1.304 Wahlberechtigte befragt. Die Umfrage erfolgte nach einem
Zufallsprinzip per Telefon oder online.
Eine deutliche Mehrheit von fast 80 Prozent befürwortete
Kürzungen des Bürgergeldes, wenn Leistungsempfänger Arbeitsangebote ablehnen.
Sieben von zehn Deutschen (72 Prozent) sprachen sich für bessere
Rahmenbedingungen für Familien aus, damit vor allem Mütter mehr arbeiten
können. Ebenso viele sprachen sich für eine schnellere Integration von
Flüchtlingen in den deutschen Arbeitsmarkt aus. Eine Mehrheit von 56 Prozent
befürwortete eine erleichterte Einwanderung nach Deutschland für ausländische
Fachkräfte. Mehr als jeder zweite Befragte (52 Prozent) sieht das Rentenalter
nicht ausreichend abgesichert. (epd/mig 9)
Im Rennen um das Weiße Haus liegt Donald Trump laut Umfragen
derzeit vorne. Doch die große Panik bleibt bislang aus. Warum? Marco Bitschnau
Was sich lange abgezeichnet hat, ist seit kurzem offiziell:
Donald Trump ist designierter Präsidentschaftskandidat der Republikaner. Noch
gut vier Monate muss er sich gedulden, dann werden ihm die Delegierten seiner
Partei auf der Bühne des Fiserv-Forums zu Milwaukee offiziell den Spitzenplatz
auf ihrem presidential ticket antragen. Trump – so steht zu erwarten – wird
annehmen, eine (je nach Parteitagsterminologie) feurige oder patriotische Rede
halten, für diese viel Applaus entgegennehmen und so seinen Eintrag in den
Geschichtsbüchern um einen neuen Passus erweitern. Nur wenige US-Präsidenten
haben sich je um ein Comeback bemüht, keiner davon in den letzten acht
Jahrzehnten. Und lediglich einem ist es am Ende gelungen: Grover Cleveland, der
als New Yorker Gouverneur die Wahlen 1884 gewann, 1888 von Benjamin Harrison
abgelöst wurde und diesen dann seinerseits 1892 schlug. Für Trump eine offensichtliche
Blaupause, zumal ihn mit dem Demokraten Cleveland nicht nur Leibesfülle und
Heimatstaat verbinden, sondern auch eine beachtliche Vorwahldominanz.
Vermutlich ist umstandslos das richtige Wort, um die
Beiläufigkeit zu beschreiben, mit der der 77-Jährige diesmal seine
innerparteiliche Konkurrenz beiseitegeräumt hat. Ron DeSantis, der
wahrscheinlichste Brutus, der monatelang den Dolch gewetzt hatte? Strich nach
der ersten Vorwahl in Iowa die Segel. Mike Pence, einstiger Vizepräsident und
erklärter Liebling der Evangelikalen? Schaffte es erst gar nicht so weit,
sondern gab noch vor den Vorwahlen auf. Vivek Ramaswamy, jugendlicher
Hoffnungsträger der Partei mit indischen Wurzeln? Stimmte immer wieder
Loblieder auf seinen nominellen Rivalen an und hofft nun auf einen Platz am
Kabinettstisch. Und Nikki Haley, die letzte im Rennen verbliebene Kandidatin,
die Wolfram Weimer noch im Dezember zu seiner Person der Woche kürte („Ihre
Umfragewerte steigen nicht bloß, sie springen nach oben“)? Wurde von Trump in
South Carolina – dem Staat, dem sie einst als Gouverneurin vorstand – mit mehr
als 20 Prozentpunkten Unterschied abgewatscht und bald darauf von ihren wohl
bedeutendsten Geldgebern als Fehlinvestition abgeschrieben.
In der Folge blieb auch ihr nichts anderes übrig, als sich
dem übermächtigen Rivalen geschlagen zu geben. Wenn auch mit schmollendem
Unterton: Sie könne ihren Wählern derzeit nicht die Unterstützung Trumps
empfehlen, verkündete sie. Vielmehr müsse dieser in den kommenden Monaten hart
dafür arbeiten. Ein durchsichtiges Manöver, um den Rest politischen Kapitals zu
bewahren, den sich Haley als last (wo)man standing zusammengeklaubt hat. Nur
dass sie hier bei Trump an den Falschen geraten sein dürfte, denn dieser
verlangt bekanntlich bedingungslose Loyalität und hat keinen allzu langen
Geduldsfaden für die Machtspielchen einer Gescheiterten. Gleiches gilt übrigens
für DeSantis, der sich nach seiner Kapitulation widerwillig hinter seinen
vormaligen Gönner gestellt hat und dem das Geziere der Ex-Kontrahentin
sichtlich aufzustoßen scheint: „Jetzt nach Hause gehen und den Ball mitnehmen,
das geht nicht.“
Indes läuft für den Wahlfloridianer Trump auch ohne Haley
als Sekundantin vieles nach Plan. So etwa die Umfragen, in denen er inzwischen
meist vor Amtsinhaber Joe Biden rangiert – und die insofern ein Novum
darstellen, als seine bisherige Rolle ja immer die des Underdogs war, des
Mannes, dem niemand im Vorfeld eine Chance gibt (und der diese „Nicht-Chance“
dann nutzt). Jetzt aber prasseln die guten Werte wie ein warmer Regen auf ihn
ein, während der historisch unbeliebte Biden einen Nackenschlag nach dem
anderen hinnehmen muss. Dabei stemmt der Präsident sich mit aller Kraft gegen
den Trend und lässt keine Gelegenheit aus, die Bilanz seiner Regierung in ein
günstiges Licht zu rücken. Zuletzt funktionierte er gar die alljährliche Rede
zur Lage der Nation in eine kämpferische Kampagnenansprache um, was von der
Presse auch entsprechend goutiert wurde. Nur an den Zahlen hat sein Auftritt
denkbar wenig geändert.
Zusammengefasst gilt also: Donald Trump ist
Präsidentschaftskandidat. Er weiß, anders als bei seiner ersten Kandidatur (die
ja von diversen Nickligkeiten und Sabotageversuchen begleitet war), seine
Partei fast geschlossen hinter sich. Er liegt augenscheinlich in Front und hat
gute Aussichten auf eine baldige Revanche. Sollten da, fragt man sich, nicht
längst alle Alarmglocken schellen? Vor acht Jahren genügte schon das
Gedankenspiel, dieser Reality-TV-Zampano könnte tatsächlich den Sieg
davontragen, um in Redaktionen und Regierungskreisen wahlweise kalten
Angstschweiß oder hysterische Lachsalven hervorzurufen. Nun aber tut sich bis
auf einige Unkenrufe vergleichsweise wenig, was natürlich auch daran liegen
mag, dass es im Moment einfach genug andere Krisenfelder zu beackern gibt.
Dennoch: Irgendwie scheint die Luft aus dem Thema raus zu sein, scheint Apathie
statt Aufregung an der Tagesordnung.
Nur weshalb? Ganz unvermittelt kommt einem hier die
Äsop’sche Fabel vom Hirtenjungen und dem Wolf in den Sinn. In ihr narrt der
titelgebende Hirtenjunge die Bewohner seines Dorfes ein ums andere Mal mit
falschen „Wolf“-Rufen, sodass sie ihm keinen Glauben schenken, als der Wolf
eines Tages tatsächlich auftaucht und die ganze Schafsherde reißt. Versucht man
sich an der naheliegendsten Analogie, erscheinen die unzähligen Warner und
Fabulanten der letzten Jahre als leichtsinnige Jungen und Trump als
ausgedachter Wolf. Zu oft haben sie die Paniktrommel geschlagen, zu schrill
waren ihre Schreckensvisionen, seine Wahl vor acht Jahren würde einen dritten
Weltkrieg auslösen oder die Errichtung einer faschistischen Diktatur nach sich
ziehen. Trump im Oval Office, so hieß es, wäre eine Revolution, eine Zäsur,
eine gewaltige Farce mit verheerendem Ausgang. Ein Paradebeispiel: Die Journalistin
Anne Applebaum, die im März 2016 in einem vielbeachteten Kommentar klagte, sie
könne sich in ihrem ganzen Erwachsenenleben an keinen „Moment erinnern, der so
dramatisch war, wie dieser“.
Da stand Trump (anders als heute) zwar noch nicht als republikanischer
Kandidat fest, doch Applebaum bediente sich bereits munter aus dem Füllhorn
düsterer Ahnungen: „Wir sind zwei oder drei Wahlen entfernt vom Ende der NATO,
dem Ende der EU sowie dem Ende des liberalen Westens, wie wir ihn kennen.“
Damals ließ sich eine solche Position schon ob des fehlenden Erfahrungswerts
noch halbwegs vermitteln. Doch wie bei der Geschichte mit dem Jungen und dem
Wolf wird auch die schönste Bedenkenträgerei schal, wenn sie sich immer wieder
als übertrieben herausstellt – und zugleich die Sinne für jene Konstellationen
abstumpfen, in denen Bedenken tatsächlich angebracht sein könnten. Gerade im
Falle Trumps – der einst im Wahlkampf versprochen hatte, „weitaus schlimmere“
Verhörtechniken als Waterboarding abzusegnen, Massenabschiebungen durchzuführen
und eine gewaltige, von Mexiko finanzierte Mauer entlang der Grenze zu bauen –
lehrt der vielzitierte gesunde Menschenverstand, nicht jede unsinnige Aussage
direkt auf die Goldwaage zu legen.
Das gilt namentlich auch für den neuesten Kurzzeitaufreger,
nämlich die Haltung des Kandidaten zur NATO. Geradezu seltsam mutet hier die
Annahme an, derselbe Mann, dem man jahrelang in Faktenchecks Lug und Trug
vorgehalten hat, lasse sich irgendwie auf einen dahingeschluderten
Wahlkampfhalbsatz festnageln. Zumal eine gewisse Kaltschnäuzigkeit gegenüber
den eigenen Ergüssen bei ihm seit jeher zum guten Ton gehört: Wenn „die Partner
fair spielen“, bleibe man dem Bündnis natürlich „zu 100 Prozent“ treu, stellte
er jüngst in einem Fernsehgespräch mit der Brexit-Ikone Nigel Farage klar. Jede
anderslautende Aussage sei nichts als Taktik, um die anderen Mitgliedstaaten zu
diesem Fairspielen zu bewegen, also zum Einhalten des 2014 beschlossenen
Zweiprozentziels. Der Ton mag dahingehend ruppig erscheinen, die Absicht aber
ist kaum zu beanstanden: Noch immer gibt die Mehrheit der europäischen
NATO-Partner deutlich zu wenig für Verteidigung aus und versteckt sich lieber
hinter bestehenden US-Kapazitäten. Ein Umstand, der die Entscheidungsträger in
Washington, D. C. schon seit einiger Zeit frustriert und Zweifeln an der
Wertigkeit der Allianz Vorschub leistet.
In jedem Fall dürfte auch bei einer zweiten
Trump-Präsidentschaft die alte (und auch im Fall Meloni gültige) Lebensweisheit
zutreffen, dass nichts so heiß gegessen wie gekocht wird. Die relative
Unbetroffenheit, mit der man diesem Szenario entgegensieht, spricht dabei Bände
– der Junge hat einmal zu oft geschrien und die Dorfbewohner sind misstrauisch
geworden. Auch der gelegentlich zu hörende Einwand, diesmal sei wirklich alles
anders, weil Trump entweder besser vorbereitet oder schlicht „radikaler“ sei
als 2016, überzeugt nur bedingt. Denn selbst wenn außer Acht bleibt, dass es
sich dabei vorrangig um Kaffeesatzleserei handelt, lassen sich gegen beide Punkte
zahlreiche Einwände vorbringen: etwa, dass auch die Weltgemeinschaft dieses Mal
besser vorbereitet ist, dass Trump im Amt lieber den Showman als den Ideologen
spielt und dass ihm eine zum Durchregieren nötige Kongressmehrheit keineswegs
sicher ist. Auch und gerade vor diesem Hintergrund erscheint (wachsame)
Gelassenheit als Gebot der Stunde. IPG 9
Pfingsten in Kalabrien. Beste
Reisezeit für den Süden des Stiefels von Mai bis Mitte Oktober
München – Italien ist eines der beliebtesten
Reiseländer der Welt. Eine Region, die es noch zu erkunden gilt und die alle
schönen Dinge des italienischen Lebens beinhaltet, ist die „Stiefelspitze“
Kalabrien. Traumhafte Buchten, azurblaues Meer, bezaubernde historische
Küstenstädtchen wie Pizzo, Tropea, Scilla und vor allem eine herzliche
Gastfreundschaft zeichnen die südlichste Region Italiens aus. Kalabrien ist
bislang von den großen Touristenströmen noch nicht erreicht, es ist ein
Geheimtipp für Italienliebhaber, ein Geheimtipp für Menschen, die sich nach
einem Urlaub an traumhaften Stränden und Buchten sehnen, für Familien, die die
Urlaubskasse nicht überstrapazieren möchten, und für Kulinariker, die sich
gerne auf die Spur neuer Geschmäcker begeben.
Flüge nach Lamezia Terme
Lamezia Terme ist der Flughafen, der aus Deutschland,
Österreich und der Schweiz angeflogen wird. Je nach Abflugflughafen dauert ein
Direktflug zum Beispiel aus Deutschland zwischen zwei und drei Stunden. Von
Lamezia Terme aus empfiehlt es sich, einen Leihwagen zu mieten, einige Hotels
bieten aber auch Shuttle an. Wer sich für die Ostküste Kalabriens, also das
Tyrrhenische Meer, entscheidet, fährt entlang der Küste Richtung Pizzo und
Tropea. Nach einer Stunde erreicht man Tropea auf einem Felsen thronend mit
Blick auf das Meer und die Äolischen oder Liparischen Inseln
Stromboli, Vulcano, Lipari, Panarea und Salina. Tropea gehört zu den „I borghi
più belli d’italia“, den schönsten kleinen Städtchen Italiens, und befindet
sich so unter anderem mit Capri, San Gimignano oder Positano in bester Gesellschaft.
Familienurlaub mit viel Abwechslung und Erholung für alle
Von Tropea ist es nur ein Katzensprung zu den Hotels wie zum
Beispiel das Familienresort Baia del Sole und das Capovaticano Resort
Thalasso Spa, die beide direkt an weißen Sandstränden am Tyrrhenischen Meer
liegen, dessen Wasser zu Pfingsten bereits Badetemperatur erreicht. Kleine
Bungalows und Häuser mit Gästezimmern und Suiten liegen im Baia del Sole in
einem üppig bewachsenen Garten zwischen, Palmen, Bananenstauden, Gewürzgärten,
bunten Blumen und mit direktem Zugang zu Strand und Meer. Für Kinder wird im
Baia del Sole die ganze Woche täglich ein Programm aus Spielen und kreativen
Aktivitäten wie Malen und Basteln geboten, und auch zum Mittag- und Abendessen
ist eine Betreuung möglich, so dass die Eltern ein paar freie Stunden genießen
können. Dieser Service ist kostenlos. Für Teenager bieten sich insbesondere die
Aktivitäten des Wassersportclubs an, um sich auszupowern und neue
Freundschaften zu schließen. Tennis, Kanu- und Tretbootfahren, Yoga, Pilates
und die Nutzung des Fitnessraumes sind im Preis inbegriffen. Annehmlichkeiten
wie Sonnenliegen und Sonnenschirme sind für die Gäste kostenlos.
Dies gilt ebenso für das Capovaticano Resort Thalasso Spa,
auch hier werden keine Gebühren für Sonnenliegen und -schirm erhoben. Das für
seine Thalasso-Therapien bekannte Resort liegt nur unweit einer der schönsten
Aussichtspunkte an der kalabrischen Küste. Von Capovaticano kann man bis nach
Sizilien sehen. Einer der schönsten Plätze für einen Sundowner mit Aussicht ist
die Strandbar und die Terrasse des Resorts, von der man die Äolischen Inseln
liegen und die Sonne ins Tyrrhenische Meer fallen sieht. Das weitläufige Resort
verfügt über einen direkten Zugang zum Strand und Meer. Für Taucher und
Schnorchler ist das Gebiet um Capovaticano durch Klippen und Untiefen ideal.
Das Hotel kümmert sich um den Verleih von Ausrüstungen und organisiert geführte
Tauchgänge und Tauchkurse. Auch Wanderungen, Fahrradtouren und Bootsausflüge
sowie Weinverkostungen werden angeboten und geplant.
Auch die Liebe zu Kalabrien geht durch den Magen
Kalabrien bietet nicht nur einzigartige Naturerlebnisse und
kulturelle Schätze, es ist außerdem das Land des Geschmacks und der Aromen.
Essen und Genuss ist ein wichtiger Teil des Reiseerlebnisses geworden. In
Kalabrien ist die bekannte Bergamotte zuhause, eine intensive Zitrusfrucht; die
berühmte Chilischotte, das Viagra Kalabriens; die süße rote Zwiebel aus Tropea,
die sich in Saucen wiederfindet, aber auch als Marmelade oder Chutney daherkommt;
die berühmte „nduja“, eine pikante, würzige Wurst zu Brot oder auch in
Pastagerichten, und nicht zuletzt das Tartufo-Eis, das in Pizzo erfunden wurde
und in den Cafés in allen möglichen Varianten angeboten wird. Für Familien mit
Kindern der absolute Gelato-Himmel, und schließlich sind es die besonderen
Spezialitäten, die einen Urlaub zum Erlebnis und unvergesslich machen. Von den
Griechen stammen vermutlich die Rebsorten Gaglioppo, Greco Bianco und
Trebbiano, die bis heute die Weine aus Kalabrien prägen. Der überwiegende Teil
kalabrischer Weine sind übrigens Rotweine. Fangfrischer Fisch und Meeresfrüchte
sind selbstverständlich fester Bestandteil auf jeder Speisenkarte in
Kalabrien.
Reisebuchungen
Reisen in die beiden Resorts können unter anderem über TUI
und FTI gebucht werden. Fit Reisen hat außerdem das Capovaticano Resort
Thalasso Spa im Programm. GCE 8
Der Krieg in Zahlen. Sechs Monate
Gaza-Krieg und kein Ende in Sicht
Es ist der längste und blutigste Krieg Israels seit dem
Unabhängigkeitskrieg 1948. Die Zahl der Toten im Gazastreifen ist so hoch wie
noch nie. Die Kriegsziele Israels sind bisher unerreicht, eine Befriedung der
Region nicht in Sicht. Menschenrechtler schlagen Alarm. Israel immer stärker in
der Kritik. Von Sara Lemel und Lars Nicolaysen
Die Bilanz des seit sechs Monaten wütenden Gaza-Krieges ist
verheerend. Mehr als 33.000 Menschen wurden nach Angaben der von der Hamas
kontrollierten Gesundheitsbehörde bisher im Gazastreifen getötet und knapp
76.000 weitere verletzt. Die Behörde unterscheidet dabei nicht zwischen
Zivilisten und Kämpfern. Nach israelischen Angaben wurden im Gazastreifen rund
12.000 Terroristen getötet, das wären mehr als ein Drittel der Toten. Die
Angaben beider Konfliktparteien lassen sich derzeit nicht unabhängig
überprüfen.
Auslöser des Krieges
Auslöser des Krieges war der Terrorangriff der
islamistischen Hamas auf das israelische Grenzgebiet am 7. Oktober vergangenen
Jahres, bei dem mehr als 1.200 Menschen getötet wurden. Es war das schlimmste
Massaker in der Geschichte des Landes; einschließlich Leichenschändungen und
Vergewaltigungen. Außerdem verschleppten Terroristen der Hamas und anderer
extremistischer Organisationen mehr als 250 Menschen in den Gazastreifen. Bis
heute werden dort nach israelischen Informationen noch 133 Menschen
festgehalten, davon sollen aber höchstens noch knapp hundert am Leben sein.
Auf der israelischen Seite wurden seit dem 7. Oktober
insgesamt mehr als 1.500 Menschen getötet, darunter 600 Soldaten. Mehr als
15.000 erlitten Verletzungen.
Verheerende Reaktion Israels im Gazastreifen
Israel reagierte mit massiven Luftangriffen und einer
zerstörerischen Bodenoffensive im Gazastreifen. Rund 300.000 israelische
Reservisten wurden zu Beginn des Krieges einberufen.
Mehr als 1,7 Millionen der insgesamt 2,2 Millionen Einwohner
des Küstenstreifens wurden nach UN-Angaben seitdem zu Binnenvertriebenen. Das
Gebiet am Mittelmeer, das flächenmäßig etwa so groß ist wie München, liegt
weitgehend in Schutt und Asche. Unter den mehr als 33.000 Toten sind auch
Sanitäter, Journalisten und Mitarbeiter von Hilfsorganisationen.
Alle Gaza-Einwohner sind nach UN-Angaben von „hoher, akuter
Ernährungsunsicherheit“, die Hälfte von ihnen sogar von „katastrophaler Ernährungsunsicherheit“
betroffen. Hilfsorganisationen warfen Israel vor, die Hilfslieferungen zu
behindern. Israel wies dies zurück und sagte, das Problem liege vielmehr im
Gazastreifen, weil die Akteure dort offenbar nicht in der Lage seien, mehr
Hilfsgüter zu verteilen.
Nach Angaben der israelischen Cogat-Behörde wurden seit
Beginn des Krieges mehr als 388.850 Tonnen humanitärer Hilfsgüter in den
Gazastreifen transportiert, in mehr als 20.700 Lastwagen.
Krieg verursachte Schäden in zweistelliger Milliardenhöhe
Der Gaza-Krieg hat einer Schätzung der Weltbank und der
Vereinten Nationen zufolge einen Sachschaden in zweistelliger Milliardenhöhe
verursacht. Die Institutionen bezifferten den Schaden an der kritischen
Infrastruktur im Gazastreifen mit rund 18,5 Milliarden US-Dollar (rund 17,2
Milliarden Euro). Dies entspricht den Angaben zufolge 97 Prozent des
Bruttoinlandsprodukts im Gazastreifen und Westjordanland im Jahr 2022.
Dem Bericht zufolge machten Schäden an Wohngebäuden 72
Prozent des Gesamtschadens aus. Auch im israelischen Grenzgebiet zum
Gazastreifen sowie zum Libanon hat der Krieg schwere Verwüstungen angerichtet.
Dauergefechte an der Grenze zum Libanon
Seit Kriegsbeginn hat die sogenannte „Achse des Widerstands“
– Iran und seine nicht staatlichen Verbündeten im Libanon, Irak und Jemen sowie
in Syrien – Israel in Kämpfe an mehreren Fronten verwickelt. Der Iran hat nach
einem mutmaßlich israelischen Luftangriff auf ein Gebäude der iranischen
Botschaft in Syriens Hauptstadt Damaskus mit mehreren Toten Vergeltung
angekündigt.
Seit Beginn des Gaza-Kriegs kommt es bereits täglich zu
Konfrontationen zwischen Israels Armee und militanten libanesischen
Gruppierungen wie etwa der Hisbollah. Bei Angriffen auf den Norden Israels
wurden bislang 18 Menschen getötet – zehn Soldaten und acht Zivilisten. Im
Libanon wurden nach Medienberichten 279 Kämpfer getötet, die große Mehrheit
davon aus den Reihen der Schiitenmiliz Hisbollah. Außerdem seien 68 Zivilisten
bei Angriffen ums Leben gekommen.
43 israelische Wohnorte an der Grenze zum Libanon wurden
evakuiert. Mehr als 60.000 Israelis und mehr als 90.000 Libanesen mussten
angesichts der fortwährenden Gefechte das jeweilige Grenzgebiet verlassen. Nach
israelischen Angaben wurden mehr als 3.100 Raketen von Syrien und Libanon aus
auf den israelischen Norden geschossen.
Attacken auch aus dem Jemen
Die aus dem Jemen agierenden Huthi-Miliz hat nach
Informationen des israelischen Instituts für Nationale Sicherheit (INSS)seit
Beginn des Gaza-Kriegs 63 Angriffe auf Israel verübt. 159 Mal habe sie zudem
Schiffe im Roten Meer attackiert. Die Miliz will so ein Ende der israelischen
Militäreinsätze im Gazastreifen erzwingen.
Gewaltanstieg auch im Westjordanland
Während des Gaza-Kriegs hat sich die Sicherheitslage auch in
dem von Israel besetzten Westjordanland noch massiv verschlechtert. Nach
Angaben des palästinensischen Gesundheitsministeriums in Ramallah wurden in dem
Zeitraum 438 Palästinenser getötet – bei Militäreinsätzen Israels,
Konfrontationen oder ihren eigenen Anschlägen. 19 Israelis wurden bei
Anschlägen im Westjordanland oder Jerusalem getötet. Rund 3.700 Palästinenser
wurden im Westjordanland festgenommen, 1.600 davon mutmaßliche
Hamas-Mitglieder.
Kriegsziele sind weiter unerreicht
Erklärte Ziele des Gaza-Kriegs sind laut Israel die
Zerstörung der Führung sowie der militärischen Fähigkeiten der Hamas sowie die
Freilassung der Geiseln. Der israelische Ministerpräsident Benjamin Netanjahu
versprach mehrfach den „totalen Sieg“ über die Hamas. Diese Ziele sind
allerdings auch nach sechs Monaten verheerenden Krieges nicht erfüllt.
Trotz massiver internationaler Warnungen plant Israel einen
militärischen Einsatz in der Stadt Rafah an der Grenze zu Ägypten, wo sich mehr
als eine Million Flüchtlinge drängen. Israel will dort die letzten Bataillone
der Hamas zerschlagen, um ein Wiedererstarken der Terrororganisation nach dem
Krieg zu verhindern.
Auch die Raketenangriffe auf israelische Grenzorte zum
Gazastreifen konnten bislang nicht vollends unterbunden werden. Insgesamt sind
seit dem 7. Oktober nach Militärangaben mehr als 14.000 Raketen aus dem
Gazastreifen auf Israel abgefeuert worden. Mehr als 9.000 davon seien auf
israelischem Gebiet abgefangen worden oder eingeschlagen.
Strategie der harten Linie bisher gescheitert
Die Hamas kämpft unter anderem aus einem Hunderte Kilometer
langen, weitverzweigten Tunnelsystem unter dem Gazastreifen gegen die
israelische Armee. Auch nach sechs Monaten ist es nicht gelungen, die
Hamas-Führung – an der Spitze Jihia al-Sinwar – zu fassen, die in Tunneln im
Süden des Gazastreifens vermutet wird. Die Annahme ist, dass Sinwar sich zu
seinem eigenen Schutz mit Geiseln umgeben hat und ein Einsatz gegen ihn daher
extrem riskant wäre.
„Israel hat militärischen Druck zu verschiedenen Zeitpunkten
Verhandlungen vorgezogen, unter der Prämisse, dass je mehr die Hamas in die
Ecke gedrängt wird, desto flexibler ihre Verhandlungspositionen werden“,
schrieb ein Kommentator der Zeitung „Israel Hajom“ am Sonntag. „Die harte Linie
der Hamas in den vergangenen Monaten zeigt jedoch, dass dieser Ansatz
gescheitert ist.“
Israelische Regierung zunehmend unter Druck
Wegen seiner brutalen Kriegsführung ist Israel auf der
Weltbühne zunehmend isoliert. Selbst Verbündete üben nun offen Kritik an
Ministerpräsident Netanjahu. In den Vereinigten Staaten und Großbritannien
mehren sich Rufe nach einem Stopp der Waffenlieferungen an Israel. Gleichzeitig
stehen Netanjahu und seine Regierung im eigenen Land unter wachsendem Druck.
Kritiker werfen ihm vor, den Schutz der Gaza-Grenze vernachlässigt zu haben und
die Interessen des Landes seinem politischen Überleben unterzuordnen.
Bei Massenprotesten am Samstagabend entfachten Demonstranten
mehrere Feuer auf der Straße. Dabei kam es zu Zusammenstößen mit der Polizei,
wie Medien berichteten. Angehörige der Verschleppten werfen Netanjahu vor,
einem Geisel-Deal im Wege zu stehen. Im Laufe einer einwöchigen Feuerpause Ende
November hatte die Hamas 105 Geiseln freigelassen. Im Gegenzug entließ Israel
240 palästinensische Häftlinge aus seinen Gefängnissen. Knapp 100 der im
Gazastreifen verbliebenen Geiseln dürften nach israelischen Schätzungen noch
leben. Israel und die Hamas verhandeln seit Monaten – aber nicht direkt
miteinander. Stattdessen treten die USA, Katar und Ägypten als Vermittler auf.
Die Gespräche über eine Feuerpause und Freilassung der Geiseln stocken seit
Wochen. Washington will einen Durchbruch erzwingen.
„Ärzte ohne Grenzen“: Arbeitssituation in Gaza „ein
Albtraum“
Die Hilfsorganisation „Ärzte ohne Grenzen“ in Deutschland
fordert einen sofortigen und dauerhaften Waffenstillstand im Gaza-Streifen. Die
Situation vor Ort sei „gelinde gesagt ein Albtraum“, sagte Geschäftsführer
Christian Katzer am Samstag im WDR5-„Morgenecho“. Die Lage sei sehr angespannt.
Bei einem israelischen Luftangriff Anfang der Woche waren sieben Mitarbeitende
der Hilfsorganisation World Central Kitchen getötet worden.
Dieser Angriff sei kein Einzelfall. „Wir sehen immer wieder
ganz klar Angriffe auf medizinische Einrichtungen“, betonte Katzer: „Seit
Beginn des Krieges sind fast 200 Mitarbeitende von Hilfsorganisationen getötet
worden, darunter auch fünf Mitarbeitende von Ärzte ohne Grenzen.“ Entweder
seien die Angriffe der israelischen Armee Absicht oder „rücksichtslose
Inkompetenz“, kritisierte der Geschäftsführer. Denn mit allen Konfliktparteien
sei abgesprochen, mit welchen Fahrzeugen Hilfsorganisationen unterwegs und wo
sie tätig seien.
Bericht: USA drängen Israel zu Zugeständnis
Wie das „Wall Street Journal“ am Samstag unter Berufung auf
amerikanische, israelische und ägyptische Beamte berichtete, will die
US-Regierung erreichen, dass Israel bei einer neuen Verhandlungsrunde der
Vermittler in Kairo eine begrenzte Rückkehr von Zivilisten in den Norden des
umkämpften Gazastreifens erlaubt.
Die von der Hamas geforderte Rückkehr der palästinensischen
Zivilisten in den Norden des abgeriegelten Küstengebiets sei ein entscheidender
Streitpunkt bei den Gesprächen, berichtete das „Wall Street Journal“. Israel
sei bereit, die Rückkehr von täglich 2.000 Menschen, hauptsächlich Frauen und
Kinder, in den Norden zuzulassen. Insgesamt bis zu 60.000 Palästinenser könnten
nach einem von Israel als akzeptabel erachteten Vorschlag zurückkehren. Männer
zwischen 18 und 50 Jahren wären davon aber ausgeschlossen.
Experten warnen vor Anarchie in Gaza
CNN zitierte am Samstag den Nahost-Experten Nathan Thrall in
Jerusalem: „Israel kann sein erklärtes Ziel, die Hamas zu eliminieren, nicht
erreichen, weil die Hamas ein integraler Bestandteil der palästinensischen
Gesellschaft im Westjordanland und im Gazastreifen ist. Ihre Popularität hat in
den vergangenen Monaten zugenommen. Nachdem Israel erklärt hat, dass es die
Hamas im Norden besiegt hat, sieht man, dass jede Woche israelische Soldaten im
Norden sterben“, sagte Thrall. Es sei offensichtlich, dass die Hamas auch nach
dem Krieg existieren werde.
Höchstwahrscheinlich werde es zu einer unbefristeten
israelischen Militärpräsenz in Gaza kommen, sagte Elgindy dem Sender. „Es wird
so etwas wie einen Zusammenbruch von Recht und Ordnung und immer mehr Chaos
geben. Wir werden Warlords, Banden und Clans sehen (…) Gaza ist zu einem Ort
geworden, der nicht wirklich lebenswert ist“, wurde der Experte zitiert. Wenn
es jemanden geben sollte, der glaubt, dass diese Situation den Israelis
Sicherheit bringen werde, „dann ist das eine völlig wahnhafte Vorstellung“,
sagte Elgindy. (dpa/epd/mig 8)
Oldenburg. Entsetzen nach Anschlag
auf Synagoge
Eine widerwärtige Attacke und eine feige Tat: Mit deutlichen
Worten haben Vertreter aus Politik und Kirchen auf den Brandanschlag auf die
Oldenburger Synagoge reagiert. Auch die Polizei äußerte sich am Samstag erneut.
Der Brandanschlag auf die Synagoge in Oldenburg hat
bundesweit Entsetzen ausgelöst. Bundesinnenministerin Nancy Faeser (SPD)
bezeichnete auf der Plattform X die Tat als „widerwärtigen,
menschenverachtenden Angriff“. Auch Vertreter der katholischen und
evangelischen Kirche prangerten die Attacke an. Medienberichten zufolge
versammelten sich am Freitagabend, zu Beginn des jüdischen Ruhetags Schabbat,
Hunderte Menschen zu einer Mahnwache in Oldenburg (Niedersachsen). Die Polizei
sagte am Samstagvormittag der Katholischen Nachrichten-Agentur (KNA), dass es
keine neuen Erkenntnisse gebe und weiter nach dem Täter oder den Tätern gefahndet
werde.
Die Polizei hatte die Sicherheitsmaßnahmen an der Synagoge
erhöht. Es werde in alle Richtungen ermittelt, auch der polizeiliche
Staatsschutz sei einbezogen worden, hatte es am Freitag geheißen. Am selben Tag
war nach Polizeiangaben ein Brandsatz auf eine Tür der Synagoge geworfen
worden. Die Tür sei dadurch in Mitleidenschaft gezogen worden, Menschen hätten
keine Verletzungen erlitten. Das Feuer habe sich wegen eines schnellen
Eingreifens nicht weiter ausgebreitet, und die Feuerwehr habe nicht mehr
löschen müssen. Die Gemeinde hatte angekündigt, den Betrieb in der Synagoge wie
geplant aufrechtzuerhalten.
Reaktionen
Faeser betonte, dass der oder die Täter ermittelt und zur
Verantwortung gezogen werden müssten. Ihre Gedanken und ihre Solidarität seien
bei der jüdischen Gemeinde.
Das Bistum Münster sprach auf Instagram von einem „feigen
Anschlag“. „Alle Christinnen und Christen sind aufgerufen, sich mit ihren jüdischen
Geschwistern solidarisch zu zeigen.“ Antisemitismus dürfe in der Gesellschaft
keinen Platz haben.
Der Bischof der Evangelisch-Lutherischen Kirche in
Oldenburg, Thomas Adomeit, zeigte sich entsetzt. „Dieser niederträchtige und
menschenverachtende Anschlag zeigt leider erneut, dass wir das Übel des
Antisemitismus in unserer Gesellschaft nicht überwunden haben“, erklärte
Adomeit am Freitagabend. „Dass unsere jüdischen Schwestern und Brüder Sorge um
ihr eigenes Leben haben müssen, ist nicht hinnehmbar.“
Der Präsident der Polizeidirektion Oldenburg, Andreas
Sagehorn, verurteilte den Angriff „auf das Schärfste. Die Polizei wird alles
tun, um die Hintergründe dieser feigen Tat aufzuklären und den oder die Täter
zu ermitteln.“ (kna 6)
Erdogan kassiert bei den Kommunalwahlen die heftigste
Niederlage seiner politischen Karriere. Wie nah ist ein Machtwechsel in der
Türkei? Henrik Meyer
Keine 48 Stunden nach seinem rauschenden Wahlsieg hatte die
Realität des Bürgermeisteralltags Ekrimmamoglu wieder eingeholt. „Möge Gott
unseren Bürgern, die ihr Leben verloren haben, gnädig sein“, schrieb er
sichtlich angefasst auf dem Nachrichtendienst X. Bei einem Brand im quirligen
Stadtbezirk Beikta waren 29 Menschen ums Leben gekommen. Das tragische Ereignis
und die Wut der Angehörigen der Opfer zeigten, wie schnell sich Stimmungen
verändern können. Für Imamoglu sowie andere siegreiche Politikerinnen und
Politikern der Opposition waren die erfolgreichen Kommunalwahlen sicherlich ein
wichtiger Schritt. Wie lange die Freude hierüber anhalten wird, ist jedoch
keineswegs sicher.
Dennoch: Am Sonntag ereignete sich Historisches in der
Türkei. In nicht für möglich gehaltener Manier räumten die Oppositionsparteien
ab. Erstmals seit 1977 wurde die sozialdemokratische CHP mit knapp 38 Prozent
landesweit stärkste Kraft und gewann die Wahl in 35 von 81 Provinzen. Die
linke, pro-kurdische Partei DEM errang die Mehrheit in zehn Provinzen. Die
Rathäuser von Istanbul, Ankara, Izmir, Antalya, Adana und Diyarbakir – um nur
einige der größten zu nennen – bleiben in den Händen der Opposition. Unter
anderem die Millionenstadt Bursa, die Schwarzmeerstadt Zonguldak und das zentralanatolische
Krykkale kamen sogar noch neu hinzu. Mehr als zwei Drittel aller Türkinnen und
Türken leben von nun an in Städten und Gemeinden, die von oppositionellen
Parteien regiert werden. Man kann es drehen und wenden, wie man will: Die
Wahlen waren eine schallende Ohrfeige für Staatspräsident Erdogan und die
regierende AKP. Der im vergangenen Jahr bei den Präsidentschaftswahlen noch
knapp siegreiche Langzeitherrscher der Türkei muss erkennen, dass sein Stern
weiter sinkt.
Dieser Niedergang zeigte sich insbesondere in Istanbul. Die
Wahl hier wurde bereits weit im Voraus von allen Parteien als herausragend
wichtig bezeichnet. Die 16-Millionen-Metropole am Bosporus ist nicht nur
wirtschaftliches und kulturelles Zentrum der Türkei, sondern gilt als Gradmesser
für nationale Entwicklungen. Ein Sieg hier hat eine enorm hohe Symbolkraft.
Bereits vor fünf Jahren hatte die AKP gegen den damals noch nahezu unbekannten
Ekremmamolu von der CHP verloren. Erdogan, 1994 einst selbst Bürgermeister von
Istanbul, hat diese schmerzliche Niederlage nie verwunden. Seit dem damaligen
Wahltag hat er Kmamolu als gefährlichsten Rivalen auf nationaler Ebene
ausgemacht und lässt ihn die ganze Härte des türkischen Staatsapparats spüren.
In einem laut Human Rights Watch politisch motivierten Prozess wurde Mamolu
2022 wegen Beleidigung erstinstanzlich zu einem Politikverbot verurteilt – ein
wesentlicher Grund, warum dieser bei den letztjährigen Präsidentschaftswahlen
nicht als Kandidat aufgestellt wurde, obwohl er beste Chancen gehabt hätte, für
die Opposition siegreich zu sein.
Erdogan, ein erwiesenermaßen begnadeter Wahlkämpfer, nahm
sich bei den diesjährigen Kommunalwahlen der Sache persönlich an. Der
Nominierung des blassen AKP-Kandidaten Murat Kurum folgte ein Wahlkampf, in dem
es für Außenstehende so aussehen musste, als trete Erdogan persönlich gegen Imamoglu
an. Immer wieder lenkte er die Debatte weg von kommunalen Themen, hin zu Fragen
nationaler Identität. Erdogan insinuierte mehr als einmal, dass es doch sehr
hilfreich für Vorhaben aller Art sei, wenn kommunale und nationale Politik in
einer Hand lägen. Und selbst bei Kundgebungen außerhalb der Stadt rief er dazu
auf, in Istanbul für die AKP zu stimmen. Dass in diesem de facto-Duell Imamoglu
gegen Erdogan der CHP-Bürgermeister eine absolute Mehrheit erringen konnte,
muss beim Staatspräsidenten alle Alarmglocken schrillen lassen.
Schmerzlich aus Sicht der AKP ist ebenfalls die erneute
Bestätigung, dass sie in den kurdischen Gebieten der Südosttürkei längst nicht
mehr mehrheitsfähig ist. Die pro-kurdische DEM-Partei errang dort
erwartungsgemäß mit großem Abstand die meisten Mandate. Von der Anziehungskraft
der AKP auf konservative Kurdinnen und Kurden ist nicht mehr viel übrig.
Schlimmer noch: Die in Anatolien traditionell schwache CHP gewann in Kilis und
Adiyaman die Mehrheit, in den früheren AKP-Hochburg Ganlurfa und Yozgat siegte
mit der Yeniden Refah-Partei gar erstmals eine als direkte Konkurrenz zur AKP
angetretene islamisch-konservative Partei. Der identitäre Block, den Erdogan
über so viele Jahre erfolgreich aufbauen und hinter sich versammeln konnte,
wackelt.
Diese Erschütterungen der in der Vergangenheit so
festgefahrenen politischen Landschaft können indes leicht dazu verleiten,
bestehende Realitäten und Machtverhältnisse aus den Augen zu verlieren.
Tatsächlich müssen bei nüchterner Analyse viele aus Sicht der demokratischen
Opposition positive Zeichen relativiert werden. Die regierenden Parteien AKP
und MHP haben gemeinsam nach wie vor mehr Stimmen als die derzeit ohne Bündnispartner
dastehende CHP. Ekrem Imamoglu könnte jederzeit per Gerichtsurteil aus dem
politischen Verkehr gezogen werden. Die von der pro-kurdischen HDP gewonnenen
Kommunen der Osttürkei wurden nach der Kommunalwahl 2019 unter Zwangsverwaltung
gestellt und die gewählten Bürgermeisterinnen und Bürgermeister abgesetzt.
Eine Wiederholung der Geschichte ist, diesmal für die
DEM-Partei, durchaus möglich, wie sich bereits kurz nach der Wahl am Gerangel
um den Bürgermeister der Stadt Van zeigte. Und schließlich: Staatspräsident
Erdo?an wurde erst vor zehn Monaten für fünf Jahre wiedergewählt. Ihm bleibt
viel Zeit, sich aus der politischen Zwickmühle zu befreien. Ein Kunststück, das
ihm in seiner Karriere schon mehrfach gelungen ist. Sollte die lahmende
türkische Wirtschaft wieder anspringen, ist ihm dies ohne Weiteres zuzutrauen.
Die teils euphorische Berichterstattung, gerade in den deutschen Medien,
verkennt diese Ambiguität.
Was als Hoffnungsschimmer allerdings bleibt und in den
Analysen der Kommunalwahl beinahe untergeht, ist eine Beobachtung jenseits der
Mehrheitsverhältnisse. Die säkulare Opposition scheint begriffen zu haben, dass
für eine echte Machtperspektive ein Kulturwandel nötig ist. In der von einer
langen Geschichte der gesellschaftlichen Spaltung geprägten Türkei, in der seit
Gründung der Republik identitäre Trennlinien zwischen Ost und West, Stadt und
Land, säkular und religiös, arm und reich in unversöhnlicher, polarisierter
Rhetorik und Politik resultierten, scheint sich eine vorsichtige Trendwende
einzustellen. Die bei den Kommunalwahlen erfolgreichen Politikertypen der
Opposition haben sich vom teils allzu plakativen Laizismus der Vergangenheit
glaubhaft losgesagt. Sie wollen die Lagerbildung aktiv aufbrechen. Ekrem Imamoglu
und Mansur Yava, überaus erfolgreicher Bürgermeister von Ankara, verzichten auf
spaltende Rhetorik und Symbole.
Der im letzten Jahr neu gewählte CHP-Vorsitzende Özgür Özel
sorgte durch eine konsequente Verjüngung sowie die verstärkte Einbindung von
Frauen für eine angemessene Modernisierung der Partei. Er gibt den sanften Weg
der nationalen Aussöhnung als Linie vor und setzt damit die Politik der
Sozialdemokratisierung der CHP fort, die bereits sein Vorgänger, Kemal
K?l?çdaro?lu, gegen große Widerstände angestoßen hatte. Alle drei
Führungsfiguren hielten am Wahlabend Reden, in denen sie auf Siegesgeheul
verzichteten, Gemeinsamkeiten betonten und auf ihre politischen Rivalen
zugingen. Die zukünftigen Herausforderer nehmen Erdo?an somit ganz bewusst
seine mächtigste Waffe aus den Händen: Die Fähigkeit zur Mobilisierung der
Massen durch Zuspitzung und Polarisierung.
Die Kommunalwahlen waren für die türkische Opposition ein
Etappenerfolg. Weder bedeuten sie das politische Ende Erdo?ans, noch die
triumphale Rückkehr der Demokratie. Wenn die Opposition den eingeschlagenen Weg
weitergeht, könnte der 31. März 2024 dennoch als Wendepunkt für die
demokratische Kultur der Türkei in die Geschichte eingehen. IPG 5
Klagen gegen „Schikane“. Seenotretter
wehren sich gegen Italien
Italiens Regierungschefin Giorgia Meloni hatte im Wahlkampf
versprochen, die Migration massiv einzudämmen. Doch Maßnahmen gegen Schiffe von
zivilen Seenotrettern werden von Gerichten immer öfter als rechtswidrig
einkassiert. Von Almut Siefert
Etwa 50 Personen haben sich versammelt. Anfang April
demonstrieren sie vor dem Gerichtsgebäude in Massa. Auf ihrem Banner steht:
„Solidarität ist kein Verbrechen“. In der toskanischen Stadt wird derzeit
darüber verhandelt, ob die Festsetzung des Rettungsschiffes „Geo Barents“ von
„Ärzte ohne Grenzen“ rechtens war. Für diesem Freitag ist ein weiterer Termin
angesetzt.
Die Hilfsorganisation hatte gegen die Festsetzung Klage
eingereicht – nicht die einzige in den vergangenen Wochen. Zuletzt konnten die
Seenotretter Erfolge vor Gericht erzielen.
Schiff festgesetzt
Am 20. März war die „Geo Barents“ mit 249 im Mittelmeer
geretteten Flüchtlingen und Migranten an Bord im Hafen von Marina di Carrara
eingelaufen. Kurz darauf wurde das Schiff von den italienischen Behörden für 20
Tage festgesetzt. Der Grund: Die Crew war den Schutzsuchenden in drei
aufeinanderfolgenden Einsätzen zu Hilfe gekommen. Das aber ist nach aktueller
italienischer Gesetzeslage verboten.
Anfang 2023 hatte die italienische Regierung unter der
rechtsnationalen Ministerpräsidentin Giorgia Meloni ein entsprechendes Dekret
erlassen. Dieses schreibt unter anderem vor, dass zivile Schiffe nach einer
Rettung sofort den ihnen zugewiesenen Hafen anlaufen müssen. Bei einem Verstoß
drohen bis zu 10.000 Euro Strafe und die Festsetzung des Schiffes für
mindestens 20 Tage. Die „Sea-Eye 4“ der gleichnamigen Organisation wurde am 11.
März in Reggio Calabria sogar für 60 Tage festgesetzt.
Zuweisung entfernter Häfen
Auch darüber hinaus haben die Behörden die Gangart gegenüber
den Seenotrettern verschärft. Laut SOS Humanity wurde den Schiffen von
Hilfsorganisationen 2023 in 107 Fällen nach dem Rettungseinsatz ein weit
entfernter Hafen zugewiesen. Insgesamt seien so mehr als 150.000 zusätzliche
Kilometer zurückgelegt worden.
Maßnahmen, die wohl vor allem Symbolpolitik sind: Nur acht
Prozent der rund 157.000 Flüchtlinge und Migranten, die 2023 über das
Mittelmeer nach Italien gekommen sind, wurden von zivilen Rettungsschiffen an
Land gebracht. Für den Großteil der Rettungen ist die italienische Küstenwache
verantwortlich.
Seenotretter klagen gegen „Schikane“
Gegen die „Schikane“ durch die italienischen Behörden, wie
sie es nennen, setzten sich die Seenotretter nun immer öfter mit Klagen zur
Wehr. Die Festsetzung der „Humanity 1“ erklärte ein Richter zuletzt vorläufig
als rechtswidrig. Das Schiff wurde sofort wieder freigegeben. Die finale Anhörung
vor dem Zivilgericht in Crotone ist für Mitte April geplant.
Ein weiterer juristischer Erfolg: Strafen drohten laut dem
Gesetz auch, wenn die Seenotretter die Menschen nicht nach Libyen
zurückbringen, sollte ihnen das von der Leitstelle in Rom befohlen werden.
Diese Regel ist seit ein paar Wochen faktisch hinfällig. Im Februar stufte das
Oberste Gericht Italiens die Rückführung von Bootsmigranten nach Libyen als
Verstoß gegen italienisches und internationales Recht ein.
Rechtsexperte: Italiens Vorgehen rechtswidrig
Der Rechtsexperte Valentin Schatz, der die Organisation
Sea-Eye berät, hält das Vorgehen der italienischen Behörden und das Gesetz für
rechtswidrig. Dafür gebe es mehrere Gründe, sagte der Juniorprofessor für
öffentliches Recht und Europarecht an der Leuphana Universität in Lüneburg dem
„Evangelischen Pressedienst“. So widerspreche ein Verbot mehrerer
Rettungseinsätze internationalen Übereinkommen, die eine Rettungspflicht
beinhalten.
„Aus diesen Übereinkommen lässt sich ohne Weiteres eine
Pflicht ableiten, Handlungen zu unterlassen, die der Verhinderung von
Rettungshandlungen dienen und diese faktisch auch zur Folge haben“, sagt
Schatz. Zudem habe kein Küstenstaat die Kompetenz, Regeln zur Seenotrettung
ausländischer Schiffe auf Hoher See zu erlassen.
14.000 Unterschriften
Trotz der Teilerfolge vor Gerichten haben die Seenotretter
das Gefühl, dass Italien seine Regeln derzeit rigider durchsetzt als zuvor.
Sea-Watch spricht gar von einer Eskalation der Behinderung ziviler
Seenotrettung. Nachdem in der letzten Märzwoche vier Schiffe zeitgleich
festgesetzt waren, hat „Sea-Eye-4“-Einsatzleiterin Julia Schweickert unter dem
Hashtag #FreeTheShips eine Petition gestartet, um die Schiffe aus der Blockade
zu befreien.
Mehr als 14.000 Mal wurde der Aufruf bisher unterzeichnet.
„Eigentlich wäre ich auf dem offenen Meer und hätte keine Zeit, das hier zu
schreiben“, betont Schweickert. (epd/mig 5)
„Inflation ist ein echter
Präsidentenkiller“
Der konservative Politikberater Geoffrey Kabaservice über
Trumps Übernahme der Republikaner, Bidens Fehler und Deutschlands
internationale Rolle. Die Fragen stellte Mira Groh.
Joe Biden gegen Donald Trump – im November kommt es in den
USA aller Voraussicht nach zum ersten Mal seit fast 70 Jahren zur Neuauflage
eines Wahlduells, das es schon einmal gab. Der 77-jährige Ex-Präsident
sucht die Revanche, der 81-jährige Amtsinhaber hatte wiederum vor seinem
Wahlsieg signalisiert, er werde nach einer Amtszeit den Stab an eine neue
Generation übergeben. Heute behauptet er, nur er sei in der Lage, Trump zu
besiegen. Sind die Vereinigten Staaten im Stillstand gefangen?
70 Prozent der Amerikanerinnen und Amerikaner waren dagegen,
dass bei der diesjährigen Präsidentschaftswahl Biden und Trump zum zweiten Mal
gegeneinander antreten. Trotzdem würde ich nicht sagen, dass die USA nicht mehr
fähig wären, sich vorwärts zu bewegen. Im politischen System der Vereinigten
Staaten gibt es bestimmte Strukturelemente, die früher gute Dienste geleistet
haben und heute nicht mehr funktionieren. Das hat vor allem zwei Gründe.
Erstens ist die Gesellschaft viel stärker in Lager gespalten und polarisiert
als in früheren Zeiten, und zweitens wirken sich genau dadurch manche
Strukturen, die sich früher kaum bemerkbar machten, inzwischen sehr deutlich aus.
Das offensichtlichste Beispiel ist das Electoral College – das
Wahlleutegremium. Dieses demokratische Konstrukt läuft dem Mehrheitsprinzip
zuwider und hat sich schon kurz nach seiner Einführung im 18. Jahrhundert als
dysfunktional erwiesen. Heute führt es dazu, dass es bei der bevorstehenden
Wahl genau wie bei jeder Wahl der vergangenen 20 Jahre letztlich auf sechs
Bundesstaaten ankommt – und auf die Stimmen von vielleicht gerade einmal 50 000
Menschen in diesen Staaten. Dass eine demokratische Gesellschaft mit dieser
Methode ihre politische Führung wählt, ist aberwitzig.
Es gibt in der Gesellschaft ein Gefühl von Stillstand oder
vielleicht sogar von Erschöpfung. Die Aufspaltung in parteipolitische Lager ist
so tief, dass wir es noch nicht einmal schaffen, Gesetze zu verabschieden, die
eigentlich Routine sein sollten, aber nötig sind, um den Staat am Laufen zu
halten. Es fehlt die Fähigkeit, Kompromisse einzugehen oder sich auf etwas zu
einigen, besonders auf Seiten der Republikaner. Schon bevor er nominiert wurde,
hat Trump den Republikanern im Kongress erfolgreich verboten, sich mit den
Demokraten auf Vereinbarungen zu verständigen. Ein Beispiel ist das Thema
Einwanderung: Trump will, dass die Situation an der Grenze zu Mexiko sich so
schlimm wie möglich gestaltet, damit er Biden dafür verantwortlich machen kann.
Die Demokraten waren sogar bereit, für ein Einwanderungsgesetz Positionen
aufzugeben, an denen sie seit Jahrzehnten festhalten. Viele Republikaner waren
gewillt, dieses Gesetz anzunehmen, das viel striktere Kontrollen an den Grenzen
vorsah. Im Nachhinein werden viele bedauern, dass sie diese parteiübergreifende
Übereinkunft ausgeschlagen haben. Wer weiß, was ein Präsident Trump bei diesem
Thema erreichen kann, falls die Demokraten keine Kompromisse machen?
Andererseits: Werden die Wählerinnen und Wähler sich im November überhaupt noch
daran erinnern, dass Trump und die Republikaner die Kompromissverhinderer
waren?
Was heißt es für die Republikanische Partei, dass Trumps
Schwiegertochter Lara Trump neuerdings Co-Vorsitzende des Republican National
Committee (RNC) ist – also des nationalen Organisationsgremiums der Partei?
Dass Trump die Kontrolle über den RNC übernimmt, hat für die
Republikaner eine große Tragweite. An sich ist es nichts Ungewöhnliches, dass
ein Präsidentschaftskandidat in dem Gremium seine eigene Mannschaft
installieren will, zumal wenn die vorherige Führungsriege eine andere
ideologische Einstellung hatte. Aber dass ein Präsident so viele Mitarbeitende
des RNC vor die Tür setzt und seine Schwiegertochter ernennt, ist schon sehr
außergewöhnlich. Gegen Trumps Vorgehen gab es auch bereits einigen Widerstand –
nachdem er zum Beispiel im ganzen Land Kontaktstellen (sogenannte Outreach
Centers) dichtgemacht hatte, die Amerikaner mit hispanischen, afrikanischen und
asiatischen Wurzeln als Wähler für die Republikaner gewinnen sollten.
Größere Sorgen bereiten den Republikanern allerdings zwei
andere Dinge: Zum einen gibt es die Befürchtung, Trump könnte die gesamten
Ressourcen der republikanischen Wahlkampforganisation für seine Anwaltskosten
aufbrauchen. Die zweite Sorge ist, dass er den RNC benutzen könnte, um
Trump-Anhänger als republikanische Kandidaten für die vielen anderen bei der
Wahl zu vergebenden Ämter auszusuchen. Das wäre deswegen ein Problem, weil die
Republikaner ideologisch ein breiteres Spektrum abbilden müssen, wenn sie auch
dort gewinnen wollen, wo sie nicht traditionell die stärkste Kraft sind. Dass
Trump die Angewohnheit hat, ihm treu ergebene und deshalb genehme Kandidaten zu
platzieren, hat er am deutlichsten bei den Midterms 2022 bewiesen. Man kann
fast mit Sicherheit sagen, dass dies 2022 den Republikanern die Senatsmehrheit
gekostet hat – und das Gleiche könnte in diesem Jahr bei der Wahl zum
Repräsentantenhaus passieren.
Gibt es für Republikaner, die keine Trump-Anhänger sind,
überhaupt noch Platz in der Partei?
Der Platz ist sehr begrenzt. Natürlich gibt es Ausnahmen.
Ein Beispiel ist David Valladeo. Er ist einer der beiden Republikaner im
Repräsentantenhaus, die nach dem Aufstand vom 6. Januar für Trumps
Amtsenthebung gestimmt haben. Er hält sein Mandat noch immer. Doch die Basis
der Republikanischen Partei steht hinter Trump und diese Basis ist so stark,
dass sie gegen alle Widerstände seine erneute Nominierung durchsetzen konnte.
Sie wird auch nicht verschwinden, selbst wenn Trump sich morgen in Luft
auflösen würde. Diese Art von Populismus in Frage zu stellen, ist für
Republikaner, die ein Amt oder Mandat innehaben, sehr schwer.
Die meisten Republikaner sind im Grunde ihres Herzens
Konservative à la Ronald Reagan. Sie sind weder überzeugt von Trumps Absage an
den Globalismus noch von seinem Wunsch, unsere Verbündeten und speziell die
NATO sich selbst zu überlassen. Sie sind auch nicht von Trumps erklärter
Präferenz für Russland und von der Abkehr von Handel oder nationaler
Geschlossenheit überzeugt. Das dürfen sie aber nicht öffentlich sagen – und das
ist in der politischen Geschichte der USA eine durchaus erstaunliche und ganz neuartige
Entwicklung. Die Wenigen, die dafür bekannt sind, dass sie ihre Stimme gegen
Trump erheben, sind überwiegend ehemalige Mandatsträger wie Liz Cheney.
2020 verlor Trump die Stimmen der weiblichen Wählerschaft in
den Vorstädten. Werden diese Stimmen auch diesmal eine Rolle spielen?
Bei dieser Wahl werden sie wohl keinen signifikanten
Einfluss haben, weil die Dynamik nicht sehr viel anders sein wird als bei den
beiden vorangegangenen Wahlen. Eine etwas größere Rolle könnte die weiße
Arbeiterschaft spielen, denn sie hat 2020 mehrheitlich für Biden votiert und
wird das diesmal möglicherweise nicht tun. Der Grund dafür ist eine massive
Strukturveränderung, die seit relativ kurzer Zeit in Amerikas politischer
Landschaft vor sich geht: Die Parteien sind dabei, ihre Klassenbasis zu
tauschen. Bill Clinton verlor die Stimmen der Akademiker, gewann aber dafür
eine stattliche Mehrheit bei der amerikanischen Arbeiterschaft hinzu. Heute ist
es umgekehrt. Trump wird bei den Amerikanern ohne Hochschulbildung die Mehrheit
holen und dafür fast alle Stimmen der Akademiker verlieren, zu denen
tendenziell auch die Wählerinnen in den Suburbs gehören. Bei ihnen ist die
Wahrscheinlichkeit, dass sie die Demokraten wählen, sehr hoch – und auch der
Stimmenvorsprung der Demokraten dürfte sich bei dieser Gruppe gegenüber der
letzten Wahl vergrößern. Um ihre Stimmen wird Trump sich im Wahlkampf nicht
besonders intensiv bemühen. Die entscheidende Frage ist, wie viele von ihnen
zur Wahl gehen, denn sie gehören nicht zur klassischen Demokraten-Wählerschaft.
Sie wünschen sich einen Kandidaten, der viel mehr als Joe Biden über einen
ausgeglichenen Staatshaushalt, ein starkes Amerika mit einer starken
Verteidigung, über Hochschulbildung und die Leistungsgesellschaft redet.
Wirtschaftspolitisch kann sich Bidens Bilanz sehen lassen.
Er sorgt wieder für mehr Beschäftigung und arbeitet im Vergleich zum Chaos der
Trump-Regierung geräusch- und reibungslos. Warum verliert er den Rückhalt der
amerikanischen Arbeiterschaft?
Fakt ist, dass Biden eine bessere Wirtschaftsbilanz
vorzuweisen hat als Trump 2019. Was Bidens wirtschaftspolitisches Team in
gerade einmal anderthalb Jahren bewerkstelligt hat, damit das Land sich von der
Inflation erholt, gehört zu den größten Leistungen, die ich in meinem ganzen Leben
unter irgendeinem Präsidenten erlebt habe. Trotzdem haben die Menschen nach wie
vor das Gefühl, es wäre ihnen 2019 besser gegangen. Der Präsident steht vor
einem doppelten Problem: Erstens versteht Bidens Team sich nicht gut darauf,
seine Erfolge kommunikativ zu vermitteln. Die meisten Wählerinnen und Wähler
wissen gar nicht, dass es diese Erfolge gab. Zweitens ist die Inflation nicht
verschwunden und trifft die Arbeiterschicht am härtesten. Momentan wenden die
Amerikaner einen so großen Anteil ihres Einkommens für Lebensmittel auf wie
seit 30 Jahren nicht mehr. Inflation ist leider in vielen Fällen ein echter
Präsidentenkiller.
Aktuell liegt Trump in den Umfragen vorn. Was würden Sie den
führenden Politikern in Europa in der jetzigen Situation raten?
Wir wissen nicht, ob Trump die Wahl gewinnt, und wir wissen
auch nicht, was passiert, wenn er sie denn gewinnt. Wie viele andere Populisten
auch kündigt Trump bestimmte Maßnahmen an, die er in Wahrheit nicht durchziehen
will oder nicht durchziehen kann. Zum einen hat er anscheinend wirklich eine
Antipathie gegenüber den Bündnissen der USA und ein empathisches Verhältnis zu
Diktatoren. Zum anderen gab es aber während Trumps Präsidentschaft keine
signifikante Hinwendung der USA zu Russland oder China. Europa sollte jetzt
nicht in Panik verfallen, aber sich darauf einstellen, dass Amerika weniger als
bisher eine weltweite Führungsrolle spielen würde. Auch für den Fall, dass
Trump verliert, sollte Europa sich bereitmachen, denn Sätze wie „Wir müssen
raus aus der NATO, unsere Verbündeten hauen uns alle übers Ohr“ könnte Trump
nicht sagen, wenn sie nicht der tatsächlichen Stimmung in Teilen der
amerikanischen Bevölkerung entsprechen würden.
Die Politiker in Europa müssen begreifen, dass für die USA
die transatlantische Beziehung nicht mehr den gleichen Stellenwert hat wie
früher. Sie müssen sich mehr als bisher ernsthaft klarmachen, was eine
„Zeitenwende“ real bedeuten würde: dass Europa entschlossener als bisher die
Führung übernimmt, dass Deutschland seine militärischen Kapazitäten stärkt und
bereit ist, sich der amerikanischen Führungsrolle zu widersetzen und zu einer
Instanz zu werden, die demokratische Gesellschaften in der ganzen Welt
zusammenführt. Deutschland muss in Europa und in der Welt eine andere Rolle einnehmen
und in vielfältiger Weise das Vakuum füllen, das durch Amerikas Rückzug
entsteht. IPG 5
Studie: Rassismus-Opfer werden zweites Mal Opfer durch
Polizei und Justiz
Sympathien für Täter, blind am rechten Auge, Verfahrensverschleppung,
Täter-Opfer-Umkehr – Studie belegt: Betroffene rassistischer Gewalt werden nach
der Tat oft ein zweites Mal Opfer durch Polizei und Justiz. Forscher stellen
gravierende Mängel fest.
Eine Studie wirft ein Schlaglicht auf die Erfahrungen von
Personen, die Opfer rechter, rassistischer, antisemitischer und sexualisierter
Gewalt wurden, insbesondere im Umgang mit Polizei und Justiz. Viele Betroffene
erleben nach der Tat weitere Diskriminierungen durch staatliche Stellen,
hauptsächlich im Kontext der Polizei und Justiz. Insbesondere die Erfahrungen
von Geflüchteten und Migranten würden heruntergespielt oder ignoriert.
Der Untersuchung zufolge bemängeln 82 Prozent der Befragten,
dass rechte Tatmotive bei polizeilichen Ermittlungen nicht berücksichtigt
wurden. Mehr als die Hälfte der Befragten fühlten sich durch Polizeibeamten in
ihrer Würde verletzt. Zwei Drittel stimmten der Aussage zu, sie seien von
Polizisten „wie ein Mensch zweiter Klasse“ behandelt worden. Die Kommunikation
mit der Polizei wird von 66 Prozent der Befragten als „schwierig“ empfunden.
Besonders gravierend: Immer wieder wurde eine Täter-Opfer-Umkehr wahrgenommen,
mit der den Betroffenen zumindest eine Mitverantwortung an Angriffen zugewiesen
wird.
Viele Verfahrenseinstellungen
Die aktuelle Studie „Sekundäre Viktimisierung von
Betroffenen rechter, rassistischer, antisemitischer und sexualisierter Gewalt –
Fokus: Polizei und Justiz“ folgt auf die im Jahr 2014 veröffentlichte
Untersuchung „Die haben uns nicht ernst genommen“. Ein interdisziplinäres Team
von Forschern analysierte die Erfahrungen von Geflüchteten, Migranten und
anderen marginalisierten Gruppen, die Gewalttaten ausgesetzt waren.
Durchgeführt wurde die aktuelle Studie vom Institut für Demokratie und
Zivilgesellschaft (IDZ) in Kooperation mit Opferberatungsstellen.
Herausgearbeitet haben die Forscher ein hohes Maß an
Verfahrenseinstellungen durch Staatsanwaltschaften nach Strafanzeigen. In den
wenigen Fällen, in denen es zu einer Anklageerhebung kam, berichteten die
Betroffenen überwiegend, dass ihr Wunsch nach Gerechtigkeit – juristische
Verhandlung bzw. Bestrafung der Täter – nicht erfüllt wurde. Richter hätten
teilweise Sympathien für die Täter gezeigt, unnötige Begegnung mit Tätern
wurden nicht verhindert. Zwei Drittel der Betroffenen mit Justizkontakt
stimmten der Aussage zu, durch die Justiz erneut eine Viktimisierung erfahren
und geschädigt worden zu sein.
Lange Verfahrensdauer
„Die Ergebnisse der Studie geben einen Einblick, was
Betroffene auch nach der eigentlichen Tat noch an diskriminierenden Erfahrungen
in Behörden machen müssen. Das beginnt oftmals mit der ungleichen Behandlung
durch Polizist:innen am Tatort und hört auch bei der Verhandlung im
Gerichtssaal – wenn es überhaupt dazu kommt – nicht auf“, erklärt Janine
Dieckmann, stellvertretende wissenschaftliche Leiterin des Instituts für
Demokratie und Zivilgesellschaft (IDZ).
Die Forscherin verweist exemplarisch auf einen aktuellen
Fall für verschleppte Strafverfolgung. Der Prozess gegen einen Teil von zwei
Dutzend Neonazis, die im September 2018 in Chemnitz zivilgesellschaftliche
Gegendemonstranten angegriffen haben, hatte erst nach fünf Jahren begonnen. Die
Angegriffenen hätten jahrelang darum kämpfen müssen, dass es überhaupt zu einer
Hauptverhandlung kommt.
Vom Rechtsstaat im Stich gelassen
Theresa Lauß, Beraterin bei der Thüringer
Gewaltopferberatungsstelle ezra fasst zusammen: „Seit Jahren weisen wir auf die
fatalen Auswirkungen sekundärer Viktimisierung durch Strafverfolgungsbehörden
hin, die die Betroffenen zusätzlich zu den unmittelbaren Tatfolgen zu
verarbeiten haben“. Betroffene würden vom Rechtsstaat im Stich gelassen. Viele
Ermittlungsverfahren würden verschleppt und letztlich eingestellt. „Kommt es zu
Gerichtsverhandlungen, stellen wir eine starke Zentrierung auf die Täter:innen
fest, Betroffene werden nur in Ausnahmefällen adäquat geschützt“, so Lauß
weiter.
Die Forscher betonen die Notwendigkeit von
Sensibilisierungsmaßnahmen und Schulungen für Polizei- und Justizpersonal. Die
Perspektiven und Bedürfnisse von Geflüchteten, Migranten und anderen
marginalisierten Gruppen müssten stärker berücksichtigt werden in den
Sicherheitsbehörden und in der Justiz, um eine gerechtere und respektvollere
Behandlung sicherzustellen. (mig 5)
Vom Stadion ins Gefängnis? Das
Rassismus-Problem des Fußballs
Die jüngsten Vorfälle in Spanien und Italien zeigen:
Rassismus in Fußballstadien ist ein wachsendes Problem – auch in Deutschland.
Die Verbände sind vor der EM alarmiert. Doch reichen ihre Initiativen noch aus?
Von Sebastian Stiekel und David Joram
In zweieinhalb Monaten beginnt in Deutschland die
Fußball-EM. Und ein Problem dieses eigentlich so völkerverbindenden Sports
beschäftigt die Verbände immer mehr: der zunehmende Rassismus in den europäischen
Stadien. Der Deutsche Fußball-Bund (DFB) hat bereits im März ein
Anti-Rassismus-Projekt zu seiner Heim-EM gestartet. Der Weltverband FIFA will
im Mai bei seinem Kongress in Bangkok eine entsprechende Resolution aller 211
Mitgliedsstaaten verabschieden.
Die Frage ist nur: Reicht Symbolpolitik allein noch aus
angesichts der Szenen, die sich in den vergangenen Wochen vor allem in Italien
und Spanien gehäuft haben? Oder braucht es andere Maßnahmen wie härtere Strafen
und schnellere Spielabbrüche, wenn der Fußball rassistische Vorfälle nachhaltig
bekämpfen will?
„Zu lange nichts gegen Rassismus getan.“
„Was wir beim Fußball sehen, ist nicht nur ein
gesamtgesellschaftliches Problem, sondern hat auch mit dem Fußball selbst zu
tun: Denn an diesem sozialen Ort wurde viel zu lange nichts gegen Rassismus
getan, es wurde jahrzehntelang toleriert, fast schon normalisiert“, sagt
Rassismus-Forscher Lorenz Narku Laing von der Evangelischen Hochschule Bochum.
Empfindlichere Strafen könnten helfen, meint er: „Wir müssen tatsächlich
darüber nachdenken, ob man Spiele abbrechen soll und zu Ungunsten der
rassistisch agierenden Fanblöcke wertet.“
Der brasilianische Stürmerstar Vinicius Junior von Real
Madrid brach in der vergangenen Woche in Tränen aus, als er bei einer Pressekonferenz
seines Nationalteams zum Thema Rassismus befragt wurde. Am Osterwochenende
forderte der 23-Jährige dann via X, dem früheren Twitter: „Rassisten müssen
entlarvt werden und die Spiele dürfen nicht mit ihnen auf der Tribüne
fortgesetzt werden. Wir werden nur dann gewinnen, wenn die Rassisten die
Stadien direkt ins Gefängnis verlassen, den Platz, den sie verdienen.“
Vinicius ist schon häufiger Opfer rassistischer Anfeindungen
geworden – im Stadion und darüber hinaus. 2021 baumelte eine schwarze Puppe mit
einem Trikot des Stürmers von einer Brücke in Madrid – aufgehängt wie an einem
Galgen.
Laing: Seminar statt Gefängnis
Von Stadionverboten oder gar Gefängnisstrafen für einzelne
Täter ist Forscher Laing aber wenig überzeugt. „Mein Traum ist eigentlich, dass
ein Mann, der in der Kurve eine rassistische Beleidigung loslässt, von seinen
Mitmenschen gesagt bekommt, dass das nicht geht. Dann sollte der Fall gemeldet
werden und dieser Mensch vom Sportverband ein Seminarangebot zum Thema
Rassismus bekommen, damit er wirklich für sich verstehen lernt, was das
bedeutet, wie sehr es Menschen verletzt.“
Die Wahl müsse am Ende sein: Stadionverbot oder Seminar. „Es
geht nicht nur um Rauswürfe, mehr Polizei in Stadien und Verbote, sondern es
geht um mehr Empathie, mehr Fairness, mehr Miteinander, Vergebung und
tatsächlich eine emotional persönliche Lernreise der Menschen, die sich da
falsch verhalten“, meint Laing.
Ob die Täter dazu bereit sind? Zumindest in Spaniens vierter
Liga setzten die Spieler jüngst ein Zeichen: Der Torwart des Madrider
Vorstadt-Clubs Rayo Majadahonda wurde von einem Zuschauer mutmaßlich
rassistisch beleidigt, ging auf diesen los und sah dafür die Rote Karte. Aus
Solidarität mit dem Senegalesen Cheikh Kane Sarr verließen seine Mitspieler mit
ihm das Spielfeld.
Momentaufnahme aus Deutschland: Spielabbruch in der
Landesklasse
Nach einem Rassismus-Vorwurf ist in der Landesklasse
Sachsen-Anhalts am 23. März 2024 ein Punktspiel abgebrochen worden. Beim Stand
von 3:1 für Gastgeber SV Plötzkau verließ die Mannschaft des VfB Ottersleben II
nach etwa 70 Minuten geschlossen das Spielfeld. Abseits des Balls soll ein
Plötzkauer Spieler einen Gegenspieler mit Migrationshintergrund rassistisch
beleidigt haben.
„Der Junge hat in der Kabine geweint. Er ist vom Plötzkauer
als Affe bezeichnet worden und soll sich gefälligst dorthin verpissen, wo er
hergekommen sei“, berichtete der VfB-Trainer Stefan Otremba. „Rassismus hat auf
dem Sportplatz nichts zu suchen. Wir stehen als Team hinter unserem Mitspieler
und konnten deswegen nicht einfach so zur Tagesordnung übergehen, weiterspielen
und so tun, als sei nichts passiert.“
Plötzkaus Trainer Christian Bilkenroth distanzierte sich von
jeglicher Art Diskriminierung. „Wir haben in allen Mannschaften unseres Vereins
selbst Spieler mit Migrationshintergrund in unseren Reihen. Deswegen kann ich
mir auch nicht vorstellen, dass solche Worte gefallen sind. Ich bin ein
absoluter Gegner von rassistischen Äußerungen und ausländerfeindlicher Hetze“,
sagte Bilkenroth.
Der Spielabbruch ist nun ein Fall für das Sportgericht des
Fußballverbandes Sachsen-Anhalts. Im Spielberichtsbogen hatte der
Schiedsrichter den Punkt „Rassistische Beleidigung“ jedoch nicht angekreuzt.
Weder er noch seine beiden Assistenten hätten solche Äußerungen vernommen.
Eine neue Sensibilität gegen Rassismus
In der italienischen Serie A lief es im Januar genau
andersherum. Torwart Mike Maignan vom AC Mailand verließ den Platz, weil ihn
Fans von Udinese Calcio mit rassistischen Gesängen überzogen hatten. Das Spiel
wurde unter-, aber nicht abgebrochen: Die eigenen Teamkollegen überredeten den
Franzosen im Kabinengang zum Weitermachen. „Ganz häufig galt die Mentalität:
der Fußballer auf dem Platz hat doch hart zu sein, er ist doch ein
hochbezahlter Profi“, erklärt Laing.
In der Gesellschaft gebe es zwar eine „neue Sensibilität
dafür, dass Rassismus falsch ist, auch wenn er Millionären passiert.“ Nur fehle
es im Fußball noch häufig an diesem Bewusstsein. „Es ist ein Problem, dass der
Fußball es noch nicht schafft, Rassismus als ein eigenes Problem zu begreifen.
Entweder distanziert man sich davon, weil man sagt, dass das eben in der Hitze
des Gefechts passiert. Oder man distanziert sich davon, weil man es an die
Justiz, an die Polizei, die Anwälte, delegiert“, erklärt Laing.
In Italiens Profi-Fußball soll es nun einen Verhaltenskodex
geben, der für alle Spieler und Trainer verpflichtend ist. Der Sportminister
der Mitte-Rechts-Regierung, Andrea Abodi, kündigte in der Zeitung „La
Repubblica“ eine „Charta der Pflichten“ an. Darin soll auch ein Bekenntnis
gegen Rassismus festgeschrieben werden.
Erst in der vergangenen Woche wurde der italienische
Nationalspieler Francesco Acerbi von einem Sportgericht freigesprochen. Er soll
den Brasilianer Juan Jesus vom SSC Neapel rassistisch beleidigt haben. Acerbi
dementiert dies, sein Verein Inter Mailand verteidigt ihn. Doch der seit zwölf
Jahren in Italien spielende Juan Jesus hält an seiner Anschuldigung fest. „Ich
bin wirklich entmutigt über den Ausgang dieser ernsten Angelegenheit“, sagte
der 32-Jährige über das Sportgerichts-Urteil.
Nur „rein kosmetische Initiativen“
Sein Club aus Neapel will sich aus Protest an keiner
Anti-Diskriminierungs-Maßnahme des italienischen Verbands mehr beteiligen. Das
seien nur noch „rein kosmetische Initiativen“, heißt es in einer Stellungnahme
des Clubs. „Diese Kampagnen sind natürlich der Versuch, dass der Sport eine
klare Haltung zeigt. Und Haltung ist wichtig, aber nicht alles“, meint auch
Laing.
Doch was soll der Fußball stattdessen tun? Schon 2011 führte
der europäische Fußball-Verband UEFA einen Drei-Stufen-Plan ein, der im Fall
rassistischer Vorfälle in einem Stadion bis zum Spielabbruch führen kann.
Erster Schritt: Spielunterbrechung. Zweiter Schritt: Spieler zeitweise in die
Kabine schicken. Dritter Schritt: Abbruch.
Doch das geht selbst dem umstrittenen FIFA-Chef Gianni
Infantino offenbar nicht mehr weit genug. „Das Problem ist, dass wir
unterschiedliche Wettbewerbe, unterschiedliche Wettbewerbsorganisatoren,
unterschiedliche Regeln haben. Und alles, was wir tun, ist offensichtlich nicht
mehr genug“, sagte der Weltverbands-Präsident im Februar bei einem
UEFA-Kongress. Infantino will die Rassismus-Bekämpfung im Mai zum Thema in
Bangkok machen: „Wir brauchen eine starke Resolution. Alle zusammen. Alle 211
Länder der FIFA!“ (dpa/mig 4)
Die größte Protestmobilisierung. Die
Massendemos gegen rechts flauen ab – was haben sie gebracht?
Nach den Enthüllungen des Medienhauses Correctiv über ein
Treffen radikaler Rechter gingen Hunderttausende auf die Straße. Jetzt wird es
weniger. Aus, vorbei, abgehakt? Nicht ganz, sagen Experten. Von Verena
Schmitt-Roschmann und Jörg Ratzsch
Weiter geht es in den nächsten Tagen in Vilsbiburg, Jüterbog
und Nienburg an der Weser. Auch in Buxtehude, Wismar und Roßlau wollen wieder
Menschen gegen Rechtsextremismus auf die Straße gehen. Aber die Riesendemos,
die vor rund drei Monaten mit den Enthüllungen des Medienhauses Correctiv zu
einem Treffen rechter Radikaler in Potsdam begannen, flauen sichtbar ab. „Es
war absehbar, dass die Proteste nicht auf Dauer die Massen mobilisieren
können“, sagt der Berliner Protestforscher Simon Teune. „Das ist die Logik von
Protesten, dass sie nicht langfristig auf diesem Niveau bleiben.“
Und nun? Was hat es gebracht, dass Hunderttausende bei Kälte
und Regen hinter Bannern mit „Aufstehen für Demokratie“ herliefen und „Nie
wieder ist jetzt“ riefen? „Es ist nicht zu vernachlässigen, welche Dimension
diese Proteste haben“, sagt Teune. „Es ist wahrscheinlich die größte
Protestmobilisierung seit Bestehen der Bundesrepublik.“ Anders als bei den
Lichterketten der 1990er Jahre seien die Aktionen in die Fläche getragen worden
– in Hunderte kleinere Orte in Ost und West. Was davon bleibt, kann auch Teune
nicht genau einschätzen. Aber spurlos dürfte das alles nicht an Deutschland
vorübergehen.
Die AfD sinkt in den Umfragen – aber sie hat viele neue
Mitglieder
Die AfD war für viele Demonstranten Protestziel Nummer eins.
Die Partei war nicht Organisatorin des Potsdamer Treffens vom 25. November 2023
– das war der Zahnarzt Gernot Mörig. Die AfD referierte dort nicht ihr Programm
– es war der neurechte Österreicher Martin Sellner, der nach eigenen Angaben über
die sogenannte Remigration redete, also wie Millionen Menschen mit
ausländischen Wurzeln aus Deutschland hinausgedrängt werden sollen. Aber
mehrere AfD-Mitglieder waren dabei, darunter Roland Hartwig, persönlicher
Referent von AfD-Chefin Alice Weidel. Weidel warf Hartwig sofort raus. Aber
ansonsten ging die AfD-Chefin in den Angriffsmodus. Sie sprach von
„unglaublichen Lügen“ in der Berichterstattung und nannte Correctiv eine
„Hilfs-Stasi“ im Dienste der Regierung.
Trotzdem oder deswegen erlebte die AfD seit Januar zwei
unterschiedliche Tendenzen: Die Zahl der Parteimitglieder wuchs nach Angaben
der Bundesgeschäftsstelle von knapp unter 40.000 zum Jahreswechsel auf
inzwischen mehr als 43.000. Andererseits büßte die AfD in Umfragen ein. Nach
bundesweiten Höchstwerten bis zu 23 Prozent sackte die Partei zwischenzeitlich
bis auf 16 Prozent ab. Derzeit liegt sie bei 18 bis 20 Prozent. Offen ist,
welchen Anteil die Correctiv-Recherche daran hat und wie sehr die neue
Konkurrenz durch das Bündnis Sahra Wagenknecht verantwortlich ist, das ziemlich
zeitgleich Anfang Januar gegründet wurde und auch auf AfD-Wähler abzielt.
Die AfD sei verunsichert, beobachtet Protestforscher Teune.
„Die Proteste haben dazu geführt, dass die AfD nicht mehr so uneingeschränkt
das Heft des Handelns in der Hand hat.“ Das bedeute nicht, dass sich Menschen
in Scharen von der AfD abwenden. „Aber wer nicht ideologisch überzeugt ist,
könnte nach den Protesten noch einmal ins Nachdenken kommen und bei den Wahlen
zu Hause bleiben, anstatt die AfD zu wählen.“
Die grüne, gebildete Mitte
Dass die Menschen gegen rechts auf die Straße gingen, lobte
nicht nur Bundeskanzler Olaf Scholz, sondern auch Bundespräsident Frank-Walter
Steinmeier. „Diese demokratische Mitte hat mit den Demonstrationen etwas erreicht“,
bilanzierte Steinmeier Mitte Februar. „Sie hat die Gleichgültigkeit vertrieben.
Sie hat Mut gemacht. Wir atmen wieder freier.“ Und er verband das mit einem
Appell: „Wirtschaft, Arbeit, Kultur, Zivilgesellschaft, Vereine und Verbände,
alle sind gefragt. Wir brauchen den Schulterschluss der Demokraten. Nicht nur
heute, sondern an 365 Tagen im Jahr.“
Wer aus der „demokratischen Mitte“ auf die Straße ging, dazu
gibt es inzwischen erste Daten. Forscher der Universität Konstanz haben 500
Teilnehmerinnen und Teilnehmer an drei Demos im Südwesten befragt, nämlich in
Konstanz, Singen und Radolfzell. Zumindest dort galt: Eine Mehrheit (53
Prozent) ordnete sich selbst der mittleren Mittelschicht und ein Drittel der
oberen Mittelschicht zu. Sechs von zehn Befragten besaßen einen
Hochschulabschluss, 20 Prozent zumindest Abitur. Somit ergebe sich „eine
demografische Schräglage zugunsten eines höher gebildeten
Bevölkerungsabschnitts am oberen Ende der Mittelschicht“, schließen die Autoren
Marco Bitschnau und Sebastian Koos.
61 Prozent der Befragten hatten bei der vorigen
Bundestagswahl Bündnis 90/Die Grünen gewählt, 18 Prozent die SPD und 8 Prozent
die CDU. Doch waren es nicht Menschen, die ohnehin ständig demonstrieren: Zwei
Drittel der Befragten hatten noch nie an einer Kundgebung mit ähnlicher
inhaltlicher Ausrichtung teilgenommen. Viele seien schon länger besorgt gewesen
über die Stärke der AfD – die Correctiv-Recherche über das Potsdamer Treffen
habe dann das „Fass zum Überlaufen“ gebracht, heißt es in der Studie.
„Erstmals ein deutliches Nein“
„Erstmals in zehn Jahren des Aufstiegs der AfD gab es jetzt
ein deutliches Nein“, sagt Daniel Mullis vom Leibniz-Institut für Friedens- und
Konfliktforschung in Frankfurt am Main. In den Demonstrationen sieht er mehr
als ein kurzes Aufbäumen. „Ich bekomme von vielen Gruppen und Organisationen
die Rückmeldung, dass es vor Ort einen ordentlichen Zuwachs gibt, etwa bei den
Omas gegen rechts“, berichtet der Forscher. „Man hört an vielen Stellen, dass
es Interesse gibt, sich in Strukturen einzubringen und sich gegen rechts zu
engagieren.“
So sieht es auch die Bewegung Fridays for Future, die
vielerorts beim Organisieren der Demos gegen rechts half. „Sie haben vielen
Aktiven vor Augen geführt, dass jahrelange Arbeit vor Ort keine vergebenen
Mühen waren – und vielen Nicht-Aktiven, wie effektiv Engagement sein kann“,
meint Sprecher Pit Terjung. „Auf den Demonstrationen sind Akteure aus allen
Ecken der Zivilgesellschaft zusammengerückt, wir erleben ein dynamisches
Aufleben vieler neuer Initiativen, Bündnisse und Netzwerke.“ Aus Sicht der
Aktivisten ist es also noch nicht vorbei, auch wenn nun nicht mehr Massen
Straßen und Plätze füllen.
„Der Konflikt liegt jetzt auf dem Tisch“, sagt Forscher
Mullis. „Das vor Selbstbewusstsein Strotzende der AfD ist erstmal dahin. Aber
die Konfliktlinien der Gesellschaft, die sozioökonomischen Tendenzen, die
Abstiegsängste, die Fragen von Migration und Klimakrise bleiben.“ Seine
Erwartung: „Es ist eine sehr langfristige Auseinandersetzung, vor der wir stehen.
Konkret droht bei den anstehenden Kommunal-, Europa- und Landtagswahlen eine
sehr substanzielle Landnahme von rechts.“ (dpa/mig 4)
Neues Migrationsmuseum in Köln Kalk
Es ist amtlich: Deutschland bekommt ein neues
Migrationsmuseum, mitten in Köln-Kalk. Es ist richtig und wichtig, dass die
Migrationsgeschichte unserer Gesellschaft präsentiert, erzählt und gewürdigt
wird – für Millionen Menschen und generationenübergreifend. Von David
Galanopoulos
Ich hätte nicht gedacht, dass ich mal so investiert in ein
Museum sein würde, dass es eigentlich noch gar nicht gibt. Das DOMiD
(Dokumentationszentrum für Migration in Deutschland) hat es aber irgendwie
geschafft, den Spannungsbogen immer wieder aufrechtzuerhalten. Jetzt gab es
Ende März sehr gute Neuigkeiten.
Dass ein neues Migrationsmuseum in Deutschland entstehen
würde, ist aufmerksamen Beobachter:innen der entsprechenden Nachrichten
wahrscheinlich bekannt gewesen. Nun hat der Stadtrat Köln in einer wichtigen Entscheidung
das Erbbaurecht der „Halle 70“ in den Hallen Kalk an das DOMiD verliehen. Damit
steht es dem Dokumentationszentrum 99 Jahre zu, das entsprechende Grundstück
und die dazugehörigen Hallen zu nutzen.
Ein Traum wird wahr
Das DOMiD hat eine Entstehungsgeschichte, die Hoffnung
macht. 1990 wurde es als DOMiT (Dokumentationszentrum und Museum über die
Migration aus der Türkei e.V.) in Essen gegründet. Das nicht zu unterschätzende
Ziel: Die Leerstellen in historischen Institutionen und der Geschichtswissenschaft
zur Geschichte türkischer Einwander:innen zu füllen. Die Ressourcen waren
begrenzt und trotzdem starteten die Gründer:innen – alles türkische
Einwander:innen – die Realisierung ihrer Vision. Jede:r fängt mal klein an. So
auch das DOMiT, welches das historische Erbe der Einwanderungsgesellschaft in
einer Essener Garage archivierte.
Und dieses Erbe wuchs und wuchs, bis es schließlich im Jahre
2000 nach Köln umzog. Dort fusionierte das Dokumentationszentrum 2007 mit dem
Verein „Migrationsmuseum e. V.“ Der Grund dafür war der unabhängig voneinander
gewachsene Traum eines Migrationsmuseums. Dieser Zusammenschluss war die
Geburtsstunde von DOMiD, dem Archiv für die Geschichte aller Migrantinnen und
Migranten in Deutschland.
Konzeptionelle und inhaltliche Vorbereitungen für das Museum
gab es bereits viele. Jüngste Projekte waren bspw. die Ausstellung „Wer wir
sind. Fragen an ein Einwanderungsland“ in der Bundeskunsthalle (manche erinnern
sich vielleicht an das eingeschlichene Bild in der Ausstellung) oder die
spannenden DOMiDLabs, Mini-Ausstellungen zu Fragen und Themen, über die eine
Migrationsgesellschaft sprechen sollte. Gerade bei den DOMiDLabs zeigt sich die
Komplexität und Mehrdimensionalität von Migration. Ob zur Wertschätzung und
Anerkennung der Migrationsgesellschaft oder den Erzählungen und Fragen von
LGBT-Migrant:innen, DOMiD will stets das ganze Bild einfangen.
Migrationsgeschichte wertschätzen
In heutigen Debatten erscheint Migration als die Wurzel
allen Übels zu verkommen. Dabei geht es bei der Migration – und das zeigt die
Geschichte – um Träume, Hoffnungen und das Vorankommen im Leben. Migrant:innen
wollen in erster Linie sich und der eigenen Familie ein neues, ein besseres
Leben ermöglichen. In diesem Wunsch steckt keine böswillige Absicht, sondern
ein sehr menschliches Verlangen. In diesem Migrationsprozess – das zeigt
ebenfalls die Geschichte – haben diese Menschen nicht nur sich, sondern auch
das Land, in diesem Fall Deutschland, massiv vorangebracht.
Die wirtschaftliche Verwertbarkeit von Migrant:innen wird ja
gerne als Argument für das Recht zu bleiben angeführt. Es war aber nicht nur
die Wirtschaft, die angekurbelt wurde. Die Gastarbeiter:innen aus der Türkei,
Griechenland, Italien und vielen weiteren Ländern brachten eine neue Identität mit,
die nach Ende des Zweiten Weltkriegs für das zerstörte Deutschland erst wieder
aufgebaut werden musste. Migrant:innen gehören auch hierher, weil sie Teil
einer kollektiven Identität geworden sind. Auch das steckt hinter dem
Grundgedanken von DOMiD. Das Museum soll keine Extrawurst für Migrant:innen
sein, sondern endlich Geschichten und Perspektiven wertschätzen, die trotz
ihrer Bedeutung für unser Land vernachlässigt wurden.
Es ist für mehrere Generationen eine Freude, dass auch diese
Geschichten in einem größeren Umfang erzählt und präsentiert werden können.
Natürlich liegt es an der Gesamtgesellschaft, das Leben dieser Menschen in
Erinnerung zu behalten. Dieses Museum ist aber unbeschreibbar bedeutsam für
Millionen Großeltern und Eltern, die ein besseres Leben haben wollten, für
diejenigen, die vielleicht nicht so aussehen wie die Mehrheit ihrer
Freund:innen, für diejenigen, die zu Hause mehrere Sprachen sprechen.
Ein Museum bringt die große Chance, die angespannten und
teils populistischen Diskussionen zur Migration abzukühlen und in
verständnisvolle Gespräche zu gießen. Die Verantwortung ist groß, dessen ist
sich das DOMiD sicherlich bewusst. Gleichzeitig muss es für sie ein besonderer
Moment sein, dass die Träume von Gleichgesinnten, die als Hobby Fotos gesammelt
haben, in einem solchen Ausmaß wachsen würden. Das Migrationsmuseum, das
voraussichtlich 2029 seine Tore öffnen wird, kann ein Ort der interkulturellen
Begegnung werden und zeigen: Wir waren schon immer hier und gehen auch nicht
wieder weg. Mig 3
Kammer: Ohne ausländische Ärzte funktioniert
Gesundheitssystem nicht
64.000 Ärzte aus dem Ausland helfen mit, das deutsche
Gesundheitswesen am Laufen zu halten. In manchem Krankenhaus ginge nichts ohne
sie. Besonders in Ostdeutschland werden sie benötigt. Problem: Sie fehlen sie
auch in ihren Heimatländern.
Das Klingeln seines Handys ruft Goran Jordanoski in die
Notaufnahme. Im Schockraum muss ein Patient versorgt werden. Der 43-jährige
Arzt aus Nordmazedonien leitet die zentrale Notaufnahme im Krankenhaus
Sondershausen in Thüringen. Der Internist und Notfallmediziner ist einer von
64.000 ausländischen Ärztinnen und Ärzten, die in deutschen Krankenhäusern,
Arztpraxen oder Forschungseinrichtungen arbeiten – bei rund 421.000 berufstätigen
Ärzten insgesamt. Nicht nur für das Haus in Sondershausen, das zum privaten
Klinikbetreiber KMG mit einem Dutzend Standorten in Thüringen, Brandenburg und
Mecklenburg-Vorpommern gehört, sind die Migranten mit dem Stethoskop längst
unverzichtbar.
„Ohne die Ärzte aus dem Ausland können wir unser
Gesundheitswesen nicht auf dem derzeitigen Standard aufrechterhalten“, sagt die
Vizepräsidentin der Bundesärztekammer (BÄK), Ellen Lundershausen. Allerdings
fehlten sie auch in ihren Heimatländern, räumt sie ein. Die Deutsche
Krankenhausgesellschaft (DKG) schätzt ein, dass vor allem auch Kliniken in den
ostdeutschen Flächenländern ausländische Ärzte benötigen. „Dort würden sich
ohne Migration von Medizinern Versorgungsangebote vor Ort reduzieren“, sagt die
stellvertretende Vorstandsvorsitzende Henriette Neumeyer.
200 medizinische Organisationen und Verbände haben kürzlich
die Bedeutung von Zuwanderern für das Gesundheitssystem herausgestellt. „Auf
ihren Beitrag will und kann die medizinische und pflegerische Versorgung in
Deutschland nicht verzichten“, heißt es in einer Mitte März veröffentlichten
Erklärung für Demokratie und Pluralismus.
Haupteinsatzgebiet Krankenhäuser
Allein in Thüringen und Brandenburg kommt nach Zahlen der
Landesärztekammern ein Viertel der Krankenhausärzte aus dem Ausland, in
Mecklenburg-Vorpommern ist es ein Fünftel. In Sachsen-Anhalt heißt es, ohne
ausländische Ärzte würde die Gesundheitsversorgung zusammenbrechen. Bundesweit
arbeiten laut Bundesärztekammer 80 Prozent der ausländischen Ärzte an Kliniken,
„überproportional häufig“ in kleineren Häusern und außerhalb der größeren
Städte. In Sondershausen versorgt die KMG-Klinik mit Fachabteilungen für Innere
Medizin, Allgemein- und Unfallchirurgie, Gynäkologie/Geburtshilfe, Geriatrie (Altersmedizin)
und Notaufnahme den ländlich geprägten Kyffhäuserkreis, jährlich werden dort
6.000 stationäre und 15.000 ambulante Patienten behandelt. Fast die Hälfte der
Mediziner – 30 von 63 – hat einen nichtdeutschen Pass, in der gesamten
KMG-Gruppe sind es mehr als 25 Prozent.
Die 21.000 Einwohner zählende Kreisstadt Sondershausen, eine
Autostunde entfernt von der thüringischen Landeshauptstadt Erfurt gelegen, war
bis zur Wiedervereinigung ein Zentrum des Kalibergbaus. Heute kämpft sie mit
Überalterung und Bevölkerungsschwund. „Wir merken, dass junge, in Deutschland
ausgebildete Ärzte ihren Lebensmittelpunkt häufig in Ballungszentren sehen und
keine langen Arbeitswege auf sich nehmen wollen“, sagt Klinikgeschäftsführer
Mike Schuffenhauer.
Für DKG-Expertin Neumeyer hat das viel mit einem generellen
„Trend der Verstädterung“ zu tun. BÄK-Vizepräsidentin Lundershausen verweist
zudem darauf, dass Medizin-Absolventen, vor allem angehende Fachärzte, im Beruf
häufig die Nähe ihres Studienortes suchen. „Wenn man in Hamburg studiert hat,
neigt man dazu, in Hamburg zu bleiben.“ Aus ihrer Sicht hat Deutschland ohnehin
seit Jahren zu wenig Mediziner ausgebildet.
Zudem unterscheiden sich die Arbeitsvorstellungen heutiger
Ärztegenerationen von denen früherer. Sie achteten sehr viel mehr auf eine
ausgewogene Work-Life-Balance, wollten mehr Zeit mit ihren Familien verbringen
als frühere Ärztegenerationen, erläutert Neumeyer. Dass der Bedarf trotz
kontinuierlich zunehmender Ärztezahlen zunimmt, sei deshalb kein Widerspruch. „Die
Zahl der Köpfe steigt, aber deren Arbeitszeit nicht in gleichem Maß.“
Anspruchsvolles Anerkennungsverfahren
Für ausländische Ärzte wiederum sei Deutschland als
Arbeitsort attraktiv, sagt Neumeyer. „Es ist bekannt, dass die praktische
Ausbildung für junge Ärzte an deutschen Krankenhäusern sehr gut ist“, bestätigt
Goran Jordanoski. Ihn hatten die Weiterbildungsmöglichkeiten 2011 nach
Deutschland gelockt, in seinem Heimatland Nordmazedonien habe er seinerzeit
schlechte Jobchancen gehabt und hätte zudem die Facharztausbildung selbst
bezahlen müssen. In Sondershausen hat er erfolgreich Facharztausbildungen in
Innerer Medizin und Notfallmedizin absolviert, er ist Oberarzt und ärztlicher
Leiter der Notaufnahme.
Ausländische Ärzte durchlaufen laut DKG ein anspruchsvolles
und oft langwieriges Verfahren mit Fachsprachen- und Kenntnisprüfung bis zur
Anerkennung ihrer medizinischen Abschlüsse in Deutschland. „Sie werden nicht
einfach durchgewunken“, stellt Neumeyer klar.
Jordanowski fühlt sich nach inzwischen 13 Jahren fest
verwurzelt in der Region. „Ich fühle mich heimisch, habe viele Menschen
kennengelernt, die Patienten sind freundlich. Es gefällt mir hier.“ Probleme
wegen seiner Herkunft habe er – anders als viele Pflegekräfte aus dem Ausland –
nie erlebt. An einen anderen Ort, ein anderes Krankenhaus wechseln wolle er
nicht. Für Klinikchef Schuffenhauer ist das eine gute Nachricht: „Darüber sind
wir sehr froh.“ (dpa/mig 3)
Flucht und Migration. Extremismusforscher:
Politiker Vorurteile bedienen Vorurteile
Die Bereitschaft, Hass zu zeigen ist gestiegen, der
Nährboden für Rassismus ist größer geworden. Extremismusforscher Zick
kritisiert Politiker. Sie bedienten mit ihren Äußerungen Vorurteile gegenüber
Migranten. Flucht sei inzwischen ein Triggerthema. Von Holger Spierig
Der Extremismusforscher Andreas Zick hat sich besorgt über
eine zunehmende Fremdenfeindlichkeit geäußert. Die Angst vor Anschlägen sei mit
dem Aufschwung des Rechtspopulismus und einem zunehmend gewalttätigen Rechtsextremismus
größer geworden, sagte Zick in Bielefeld dem „Evangelischen Pressedienst“. „Die
Bereitschaft, Hass und Feindseligkeit zu zeigen, ist gestiegen“, stellte der
Extremismus-Experte fest. Ebenfalls angestiegen sei der Anteil antisemitischer
Taten.
Dass Vertreter von migrantischen Organisationen bei dem
Brandanschlag am Montag in Solingen einen rassistischen Hintergrund vermuteten,
sei daher nachvollziehbar, sagte Zick. Bei vielen rechtsextremen Anschlägen
habe es viel zu lange gedauert, bis sie als solche anerkannt worden seien. Bei
einem offenbar vorsätzlich gelegten Brand in einem Mehrfamilienhaus in Solingen
war in der Nacht zum Montag eine vierköpfige Familie aus Bulgarien mit
türkischen Wurzeln gestorben.
Nährboden für Rassismus größer geworden
Der Nährboden für Menschenfeindlichkeit und Rassismus sei
größer und stabiler geworden, erklärte Zick. Das zeigten die Hellfeldzahlen der
Behörden sowie Studien. „Die Polarisierung der Gesellschaft, die von
rechtsaußen in die Mitte getragen wurde, hat zu einer Erleichterung von Gewalt
und Hasstaten geführt“, erläuterte der Leiter des Instituts für
Interdisziplinäre Konflikt- und Gewaltforschung der Universität Bielefeld.
In der Fehler! Linkreferenz ungültig. hätten 31 Prozent
einer repräsentativ befragten Stichprobe negative Urteile über migrantische
Gruppen geteilt, die mit dem Aussehen oder der Herkunft verbunden seien,
erklärte der Wissenschaftler. Unter AfD-Sympathisanten seien es sogar 70
Prozent gewesen. Zugleich sei in Mitte der Gesellschaft der Anteil derjenigen,
die ein rechtsextremes Weltbild vertreten, von ungefähr zwei Prozent auf über
acht Prozent gestiegen. Stark abgenommen habe die Distanz zur Gewalt.
Politiker bedienen Vorurteile
Der Forscher kritisierte Äußerungen von Politikern, die
„stereotype und vorurteilsvolle Bilder bedienen, um Aufmerksamkeit zu erzeugen
und Wähler an sich zu binden“. Migration und Flucht seien in der politischen
Debatte „zu simplen Triggerthemen geworden, die reflexhaft Hass gegen Menschen
mit Migrationsgeschichte auslösen“. Eine rhetorische Strategie sei, eine
Straftat oder ein Fehlverhalten hervorzuheben, um Empörung zu aktivieren. Dann
werde „das Angebot auf Sicherheit und Kontrolle gemacht, wenn sich die Wähler
der richtigen Meinung anschließen.“
„Das Problem ist, dass am Ende Vorurteile gegen andere, die
gar nichts damit zu tun haben, übrig bleiben“, erklärte der Wissenschaftler.
Das könne auch bei der Brandstiftung in Solingen zutreffen. Die Geschichten
über eine positive Veränderung und mehr Wohlstand des Landes durch Migration
würden hingegen nicht durchdringen. (epd/mig 2)
Was Lehrer sollen. Debatte über
Umgang mit AfD im Unterricht
Sollen Lehrkräfte die AfD zum Thema machen und vor Gefahren
warnen? Die Chefin der größten Bildungsgewerkschaft des Landes findet, ja.
Andere warnen, dies könne einen unerwünschten Nebeneffekt haben.
Die Gewerkschaft Erziehung und Wissenschaft (GEW) hat die
Lehrkräfte in Deutschland aufgerufen, sich im Unterricht kritisch mit der AfD
auseinanderzusetzen. „Die AfD ist eine Partei mit verfassungsfeindlichen
Tendenzen. Das dürfen und sollen Lehrer auch im Klassenraum so sagen“, sagte
GEW-Chefin Maike Finnern der „Stuttgarter Zeitung“.
Vom Deutschen Lehrerverband kam teilweise Zustimmung. Er
plädierte aber für einen „breiten Blick“: „Wir haben Verfassungsfeinde links,
wir haben sie rechts, wir haben sie im religiösen Bereich. Das muss man auch
ganz offen mit den Schülern besprechen“, sagte Verbandspräsident Stefan Düll am
Freitag der Deutschen Presse-Agentur. Er nannte es normal für den
unterrichtlichen Kontext, wenn bestimmte Gruppierungen genannt würden, wenn
diese wie Teile der AfD vom Verfassungsschutz als gesichert extremistisch
eingestuft seien. Ähnlich äußerte sich der CDU-Bildungspolitiker Thomas
Jarzombek, der jedoch auch Bedenken deutlich machte. Der AfD-Bildungspolitiker
Götz Frömming warnte davor, Lehrkräfte für eine politische Auseinandersetzung
zu instrumentalisieren.
Lehrer sollen AfD thematisieren
Finnern sprach sich dafür aus, im Zusammenhang mit der AfD
konkrete Aussagen und Vorgänge zu analysieren und mit den Schülern zu
besprechen. „Ich ermuntere Lehrkräfte nicht nur dazu, die Auseinandersetzung
mit der AfD auch im Klassenraum zu suchen. Ich rufe sie auch ausdrücklich dazu
auf“, betonte Finnern. „Lehrerinnen und Lehrer schwören auf die Verfassung –
und darauf, diese zu verteidigen“, sagte die GEW-Chefin.
AfD-Politiker Frömming kritisierte den Vorstoß der
Gewerkschafterin: „Gegen eine kritische Auseinandersetzung mit der AfD im
Rahmen des Politikunterrichts ist nichts einzuwenden“, sagte er. Problematisch
sei allerdings, dass die GEW-Chefin eine kritische Auseinandersetzung mit
anderen Parteien wie den Grünen oder der SPD nicht für notwendig erachte. „Wer
Lehrer, die als Beamte Teil der Exekutive sind, für die politische
Auseinandersetzung mit der Opposition instrumentalisieren möchte, hat unsere
Verfassung nicht verstanden.“
Demokratie-Vermittlung
Nach Ansicht des CDU-Bildungsexperten Jarzombek gehört die
Auseinandersetzung mit aktuellen Fragen im Unterricht im Rahmen der Vermittlung
der Grundlagen der Demokratie dazu und in diesem Kontext auch die Frage, warum
die AfD vom Verfassungsschutz als in Teilen gesichert extremistisch beurteilt
wird. „Es muss aber immer um Extremismus in allen Ausprägungen gehen und darf
nicht zu einer ‚Lex AfD‘ kommen, die am Ende auf die Opfererzählung dieser
Partei einzahlt“, warnte er.
Finnern rief Lehrkräfte auch dazu auf, sich an
Demonstrationen gegen Rechtsextremismus zu beteiligen und berichtete, viele
hätten Angst, sie könnten deswegen Ärger mit ihrem Dienstherrn bekommen. Dazu
hätten sie aber wie andere Staatsbürger das Recht. „Aus unserer Sicht haben sie
sogar mehr als andere die Pflicht, sich für Demokratie und Vielfalt
starkzumachen sowie ihre Stimme gegen Rechtsextremismus und
verfassungsfeindliche Umtriebe zu erheben“, fügte sie hinzu. Düll sagte, Lehrer
müssten keine Angst haben, wenn sie als Privatperson auf Demonstrationen gehen,
soweit diese vom Grundgesetz abgedeckt seien. „Es braucht dazu aber keine
Aufforderung. Denn das ist eine Privatangelegenheit.“ (dpa/mig 2)
Gesetzliche Neuregelungen. Was
ändert sich im April 2024?
Die Haushaltsfinanzierung 2024 steht. Das
Wachstumschancengesetz soll Unternehmen steuerlich entlasten und sie von
bürokratischen Hürden befreien. Erwachsene dürfen jetzt legal Cannabis
konsumieren. Die Neuregelungen
im Überblick.
Finanzen, Wirtschaft und Arbeit. Haushaltsfinanzierung 2024
Die Bundesregierung hat mit dem zweiten
Haushaltsfinanzierungsgesetz wichtige Maßnahmen zum Bundeshaushalt 2024 auf den
Weg gebracht. Das Gesetz sieht ab 2024 unter anderem eine höhere
Luftverkehrssteuer,
Sanktionsmöglichkeiten beim Bürgergeld und den schrittweisen
Abbau des begünstigten Agrardiesels vor.
Weitere Informationen zum Haushaltsfinanzierungsgesetz
[https://www.bundesregierung.de/breg-de/aktuelles/haushaltsfinanzierungsgesetz-2252042]
Wachstumschancen für Unternehmen
Unternehmen steuerlich entlasten, sie von bürokratischen
Hürden befreien und die Rahmenbedingungen für Investitionen und Innovationen
verbessern. Das Wachstumschancengesetz unterstützt Unternehmen dabei, den
Standort Deutschland für die Zukunft fit zu machen.
Weitere Informationen zum Wachstumschancengesetz
[https://www.bundesregierung.de/breg-de/aktuelles/wachstumschancengesetz-2216866]
Neue Fördermöglichkeiten für die Arbeit von morgen
Neue Arbeitsinhalte, neue Technologien, neue Werkzeuge –
Unternehmen brauchen Fachkräfte, die sich damit auskennen. Ab dem 1. April 2024
helfen Ausbildungsgarantie, Weiterbildungsgesetz und Qualifizierungsgeld den
Unternehmen Schritt zu halten.
Weitere Informationen zu Fördermöglichkeiten für die Arbeit
[https://www.bundesregierung.de/breg-de/themen/arbeit-und-soziales/weiterbildungsgesetz-bundesrat-2173366]
Kein Elterngeld bei sehr hohen Einkommen
Die Einkommensgrenze, ab der Eltern keinen Anspruch mehr auf
Elterngeld haben, wird für Paare und Alleinerziehende für Geburten ab dem 1.
April 2024 auf 200.000 Euro zu versteuerndes Einkommen festgelegt. Zudem werden
die Möglichkeiten für einen parallelen Bezug von Elterngeld neugestaltet.
Weitere Informationen zum Elterngeld
[https://www.bmfsfj.de/bmfsfj/themen/familie/familienleistungen/neuregelungen-beim-elterngeld-fuer-geburten-ab-1-april-2024-228588]
Gesundheit. Konsum von Cannabis für Erwachsene legal
Für Erwachsene ist der Cannabiskonsum jetzt legal. Warum die
Bundesregierung das Gesetz initiiert hat, welche Ziele sie mit der Neuregelung
verfolgt und wie Kinder und Jugendliche geschützt werden sollen – ein
Überblick.
Weitere Informationen zu Cannabis
[https://www.bundesregierung.de/breg-de/aktuelles/cannabis-legalisierung-2213640]
Neues Organspende-Register online
Das neue Organspende-Register speichert die Entscheidung für
oder gegen eine Spende in einem zentralen Online-Verzeichnis. Die Entscheidung
zur Organspende ist damit rechtlich verbindlich dokumentiert.
Organspendeausweis und Patientenverfügung bleiben erhalten.
Weitere Informationen zur Organspende
[https://www.bundesregierung.de/breg-de/aktuelles/faq-organspende-2194126]
Inneres. Für einen demokratischen Öffentlichen Dienst
Wer den Staat ablehnt, kann ihm nicht dienen –
Disziplinarverfahren gegen Verfassungsfeinde im Öffentlichen Dienst können nun
beschleunigt werden.
Weitere Informationen zum Öffentlichen Dienst
[https://www.bundesregierung.de/breg-de/aktuelles/verfassungsfeinde-entfernen-2165536]
pib/de.it.press 1
Keine Lehren aus NSU. Forscherin:
Gerichte zeigen große Defizite, Rassismus zu erkennen
Deutsche Gerichte prüfen Rassismus selten, mitunter
reproduzieren sie ihn sogar. Carolin Stix hat Entscheidungen aus 20 Jahren
untersucht und große Defizite festgestellt. Im MiGAZIN-Gespräch nennt sie
haarsträubende Beispiele, erklärt, welche Handlungsbedarfe es gibt und was
Rassismus in der Justiz für das Zusammenleben bedeutet. Von Ekremenol
MiGAZIN: Erzählen Sie uns bitte kurz, worum es in Ihrem Buch
„Subalternität, Rassismus, Recht. Eine Analyse der deutschen Rechtsprechung“
geht und warum das Thema wichtig ist?
Carolin Stix: Gerne. Die Arbeit untersucht das Zusammenspiel
von Subalternität, Rassismus und Recht. Jeder dieser Begriffe umfasst eine
andere Dimension gesellschaftlicher Macht. Mit Hilfe der
Subalternitätsforschung habe ich dargestellt, wie sich die persönlichen
Ausgrenzungserfahrungen rassifizierter Menschen in der öffentlichen Aushandlung
von Normalitätsvorstellungen fortsetzen. Interessiert hat mich, ob und
inwiefern sich diese Ausschlüsse auch in der deutschen Rechtsprechung
wiederfinden. Ich habe dazu Gerichtsentscheidungen der letzten 20 Jahre
rassismuskritisch untersucht. Zentral war für mich die Frage, auf welche Weise
sich Rassismus auf die rechtliche Argumentation auswirkt.
Für den Kampf gegen Rassismus halte ich es für unerlässlich,
möglichst genau zu verstehen, in welchen Bereichen rassistische Wissensbestände
wie, weshalb und mit welchen Konsequenzen zum Tragen kommen. Einer besonders
kritischen Würdigung sind dabei meines Erachtens staatliche Institutionen zu
unterziehen. Gerade Gerichte sind zu Recht einer besonderen
Gerechtigkeitserwartung ausgesetzt. Ungleichheitserfahrungen innerhalb der
Judikative erschüttern das rechtliche Gleichheitsversprechen daher auf
besonders gravierende Weise.
Wie haben Sie Gerichtsentscheidungen aus 20 Jahren
untersucht? Wie sind Sie vorgegangen?
Es gibt viele unterschiedliche Wege, das Thema zu
untersuchen. Ich hätte statt der gerichtlichen Entscheidungen, die ich mir
angeschaut habe, etwa das Verfahren und hier die Kommunikation der
Prozessparteien im Gerichtssaal untersuchen können. Meine Wahl fiel auf
gerichtliche Urteile und Beschlüsse, weil sich die juristische
Argumentationstechnik im Entscheidungstext leichter nachvollziehen lässt als im
gesprochenen Wort. Da es mir gerade um eine systematische Analyse verschiedener
Entscheidungen im gleichen Themenfeld ging, konnte ich so Querbezüge
herstellen.
In einem zweiten Schritt habe ich darüber nachgedacht,
welches Rechtsgebiet und damit verbunden, welche Gerichtsbarkeit ich
analysieren möchte. Meine erste Intuition war, nachzuvollziehen, wie Gerichte
das Allgemeine Gleichbehandlungsgesetz (AGG) anwenden. Dieses verbietet eine
„Benachteiligung aus Gründen der Rasse“, sodass naheliegt, durch einen Blick in
die Rechtsprechung herauszufinden, was Gerichte unter Rassismus verstehen. Ich
habe schnell gemerkt, dass ein solcher Fokus zu eng ist, um die aufgeworfene
Frage zu beantworten. Vereinfacht gesagt: Rassismus ist nicht nur drin, wo
„Rasse“ draufsteht. Rassistische Wissensbestände können sich auch auf
Sachverhalte auswirken, die keine rassistische Diskriminierung verhandeln. Im
Ergebnis habe ich daher neben zivil- und arbeitsgerichtlichen Entscheidungen
auch solche der Straf- und Verwaltungsgerichtbarkeit ausgewertet und mir die
Rechtsprechung des Bundesverfassungsgerichts angesehen.
Was sind die Kernergebnisse Ihrer Untersuchung?
Hinsichtlich der bundesverfassungsgerichtlichen
Rechtsprechung ließ sich schnell feststellen, dass es im Vergleich zu anderen
Diskriminierungsmerkmalen des Art. 3 Abs. 3 S.1 GG auffällig wenige
Entscheidungen gibt, die eine rassistische Benachteiligung prüfen. Dieser
Befund steht exemplarisch für die gesamte deutsche Rechtsprechung. Zugleich
überrascht dies vor dem Hintergrund der tatsächlichen Bedeutung und Häufigkeit
rassistischer Diskriminierungen.
„Die Entscheidungsanalyse offenbart, dass die deutsche
Rechtsprechung erhebliche Schwierigkeiten hat, Lebenssachverhalte
rassismuskritisch zu würdigen.“
Die Entscheidungsanalyse offenbart, dass die deutsche
Rechtsprechung erhebliche Schwierigkeiten hat, Lebenssachverhalte rassismuskritisch
zu würdigen und Rassismus im Anschluss rechtlich „zu verarbeiten“, das heißt
tatbestandlich zu fassen. Insgesamt herrscht ein sehr enges Verständnis von
Rassismus vor. Teilweise wird Rassismus etwa mit der politischen Ideologie des
Rechtsextremismus gleichgesetzt und rassistisches Verhalten damit an hohe
Hürden geknüpft. Terminologische Unsicherheiten hinsichtlich des Rechtsbegriffs
„Rasse“ beispielsweise in Abgrenzung zu „ethnischer Herkunft“ mischen sich mit
Defiziten, das Ausmaß der persönlichen Herabwürdigung und Ausschlusswirkung
durch Rassismus angemessen zu berücksichtigen. Entgegen der Stoßrichtung des
modernen Antidiskriminierungsrechts verbinden einige Gerichte Rassismus mit
einem subjektiven Schuldvorwurf, fordern also ein vorsätzliches, mitunter
feindseliges Verhalten, statt die strukturelle Wirkung rassistischer
Ungleichheitsverhältnisse zu erfassen und der rechtlichen Beurteilung zu Grunde
zu legen.
Wie zeigt sich Rassismus in deutschen Gerichtsurteilen im
Allgemeinen? Gibt es Gerichtsbarkeiten die besonders oft auffallen?
Ich differenziere zwischen Gerichtsentscheidungen, die daran
scheitern, Rassismus innerhalb der rechtlichen Bewertung zu erfassen und
solchen, die selbst rassistische Deutungen reproduzieren.
Erstere kennzeichnet, dass die gerichtliche Prüfung auf die
rassistische Dimension eines Sachverhalts nicht hinreichend eingeht oder die
erlebte Benachteiligung bagatellisiert. Ich führe diesen Befund einerseits auf
das verkürzte Rasse- und Rassismusverständnis der deutschen Rechtsanwendung
zurück. Andererseits folgt der Befund mangelnden Kenntnissen über die
Ausschlusswirkung von Rassismus. Negativ fällt vor allem die
Strafgerichtsbarkeit auf. Die Mechanismen finden sich aber auch in der
Rechtsprechung zum AGG, von der wegen der expliziten Verhandlung rassistischer
Benachteiligungen ein höheres Maß an Sensibilität zu erwarten wäre.
„Unterschiede in der gerichtlichen Argumentation zwischen
sog. „Ehrenmorden“ und sonstigen Partnertötungen gegenüber. Es zeigt sich, dass
in die gerichtliche Beurteilung der Sachverhalte rassistische Annahmen,
insbesondere zur islamischen Religion, einfließen.“
Innerhalb der zweiten Gruppe von Entscheidungen übernehmen
Gerichte selbst rassifizierte Deutungen. Als Beispiel führe ich die
Verfassungsbeschwerde einer Rechtsreferendarin aus Hessen an, die sich gegen
ein ihr auferlegtes, pauschales Kopftuchverbot im Referendariat zur Wehr
setzte. Darüber hinaus werte ich die Rechtsprechung zu Femiziden aus. Hierbei
stelle ich die Unterschiede in der gerichtlichen Argumentation zwischen sog.
„Ehrenmorden“ und sonstigen Partnertötungen gegenüber. Es zeigt sich, dass in
die gerichtliche Beurteilung der Sachverhalte rassistische Annahmen,
insbesondere zur islamischen Religion, einfließen. Die analysierten
Entscheidungen stabilisieren so eine rassifizierte Vorstellung über das
„Fremde“ als rückständig und offenbaren, wie verwoben die gerichtliche
Argumentation mit diskursiv eingeübten Selbst- und Fremdzuschreibungen ist.
Gleichzeitig illustrieren die Entscheidungen eine Verschiebung rassistischer
Narrative weg von einer biologistischen hin zu einer scheinbar kulturellen
Grundlage.
Nach den NSU-Morden wurde Paragraf 46 Absatz 2 StGB
geändert. Es schreibt nun ausdrücklich vor, dass rassistische oder
fremdenfeindliche Tatgründe bei Straftaten besonders zu beachten sind. Wie
gehen Richter mit dieser Vorschrift um? Wenden Gerichte die Lehren aus dem
NSU-Komplex in der Praxis an?
Ich möchte zunächst darauf hinweisen, dass es bereits vor
der genannten Gesetzesänderung möglich war, rassistische Motive strafschärfend
zu würdigen. Die Reform sollte insofern dazu beitragen, der strafrechtlichen
Ahndung von rassistischem Tatverhalten zu mehr Konsequenz zu verhelfen und
hatte damit hauptsächlich deklaratorischen Charakter.
„Trotz den Erfahrungen mit der NSU-Mordserie … erfolgt die
Prüfung des § 46 Abs. 2 StGB noch immer zurückhaltend.“
Trotz den Erfahrungen mit der NSU-Mordserie und der
besonderen Aufmerksamkeit, welche die Vorschrift durch die Reform erhielt,
erfolgt die Prüfung des § 46 Abs. 2 StGB noch immer zurückhaltend und auffällig
uneinheitlich. Innerhalb der Strafgerichtsbarkeit bestehen große Defizite, die
rassistische Dimension einer Tat zu erkennen und als solche angemessen zu
berücksichtigen. In vielen Fällen bleibt eine potenziell rassistische
Tatmotivation unerwähnt, obwohl die Tatperson sich eindeutig rassistisch äußert
oder die Auswahl der Opfer für eine rassistische Dimension des Angriffs
spricht.
Erfolgt die Prüfung des § 46 Abs. 2 StGB doch, so spielen
mitunter sachfremde Erwägungen in die Bewertung ein. Eine rassistische
Tatmotivation wird etwa an eine rechtsextreme Ideologie geknüpft oder in die
Nähe einer psychologischen Erkrankung gerückt. Letzteres geschieht, ohne zu
thematisieren, dass auch im Falle einer möglicherweise herabgesetzten
Hemmschwelle die Auswahl der Opfer keineswegs zufällig erfolgt.
Gibt es Beispiele, in denen Richter den Paragrafen 46 StGB
hätten anwenden müssen, es aber unterlassen haben?
Ja, in meinem Buch habe ich mehrere Entscheidungen
dargestellt, auf die dies zutrifft. Ich möchte zwei Urteile herausgreifen. In
einem Fall des Landgerichts Magdeburg1 aus dem Jahr 2018 griff ein weißer Mann
einen schwarzen Menschen im Bus, später eine migrantische Familie im Park an
und beleidigte diese jeweils rassistisch. Das Gericht sah keinen Anlass, ein
rassistisches Tatmotiv in der Strafzumessung anzusprechen. Positiv
berücksichtigte es, dass der Angeklagte alkoholbedingt „enthemmt“ und im
Vorfeld der Verhandlung „medial vorverurteilt wurde“. Als nachteilig für den
Angeklagten wertete das Gericht lediglich, dass der Täter die Tat während einer
laufenden Bewährungsstrafe verübte.
„Weil es aber keine Zugehörigkeit des Täters zur ‚rechten
Szene‘ feststellen konnte, verneinte das Gericht ein rassistisches Tatmotiv. Um
dies zu bekräftigen, führte es aus, dass der Angeklagte bereits bei ’syrischen
Immigranten‘ zum Essen eingeladen war, was er interessant gefunden und genossen
habe.“
Die zweite Entscheidung verdeutlicht, dass auch dann, wenn
Gerichte die rassistische Tatmotivation erkennen, keine überzeugende Bewertung
gewährleistet ist. Das Landgericht Regensburg2 hatte über einen Mann zu
urteilen, der mit einer Machete bewaffnet in eine Geflüchteten-Unterkunft
stürmte. Zuvor hatte er gerufen, er werde nun rübergehen und „Asylanten“ bzw.
„Ausländer abschlachten“. Auch beim Eintritt in das Gebäude und einer späteren
körperlichen Auseinandersetzung mit einem Bewohner äußerte sich der Täter
wiederholt und eindeutig rassistisch. Das Gericht urteilte, dass sich der
Angeklagte zwar „durchaus negativ“ über „die Flüchtlingsproblematik“ geäußert
habe. Weil es aber keine Zugehörigkeit des Täters zur „rechten Szene“
feststellen konnte, verneinte das Gericht ein rassistisches Tatmotiv. Um dies
zu bekräftigen, führte es aus, dass der Angeklagte bereits bei „syrischen
Immigranten“ zum Essen eingeladen war, was er interessant gefunden und genossen
habe. Mit dieser Feststellung endet die Prüfung möglicher rassistischer
Tatmotive. Weder die beleidigenden Aussagen noch die Auswahl der Opfer fand
Eingang in die Abwägung des Gerichts.
Gibt es auch Urteile aus Zivilgerichten, in denen mögliche
rassistische Hintergründe nicht oder wenig berücksichtigt wurden?
Ich kann von einem Berufungsfall berichten, den das
Landesarbeitsgericht Hessen3 zu entscheiden hatte. Gegenstand des Verfahrens
war eine Klage auf Entschädigungszahlung eines indisch-stämmigen Arbeitnehmers,
der vorträgt, über einen mehrjährigen Zeitraum fast täglich Opfer rassistischer
Diskriminierungen durch seine Kollegen geworden zu sein. Das Gericht urteilte,
es könne offenbleiben, ob die strittigen Aussagen tatsächlich gefallen sind.
Selbst wenn, wäre deutlich geworden, dass die Äußerungen lediglich dazu dienten
„sich angesichts der andauernden dysfunktionalen Zusammenarbeit mit den Kollegen
in Indien (…) Luft zu verschaffen und abzureagieren.“ Das Gericht resümiert,
dass selbst dann, wenn der Kläger „als einzig anwesender Inder von den Kollegen
als ‚Blitzableiter‘ missbraucht worden sein sollte“, immer klar war, „dass er
zu keiner Zeit der Adressat der pauschalen Abwertung war“. Die Vorstellung, es
könne zwischen einer pauschalen und einer konkreten Betroffenheit von Rassismus
unterschieden werden, geht fehl. Das Gericht verharmlost so nicht nur Rassismus
unterhalb der Schwelle einer körperlichen Auseinandersetzung. Es verkennt
ebenfalls den Unterschied zwischen einer individuellen Kränkung und einer
rassistischen Beleidigung, die eine historisch gewachsene Machtstruktur
aktiviert und daher ein besonderes Kränkungs- und Bedrohungspotenzial aufweist.
Info: „Subalternität, Rassismus, Recht.: Eine Analyse der
deutschen Rechtsprechung.“ von Carolin Stix, erschienen im Duncker &
Humblot Verlag.
Zugleich möchte ich darauf hinweisen, dass ich gerade im
Arbeitsrecht auch auf rassismuskritisch auffällig versierte Entscheidungen
gestoßen bin. Eine Entscheidung des Arbeitsrechts Berlin4 zeigt beispielsweise
nicht nur ein hohes Maß an Empfindsamkeit, sondern operiert zudem mit einem
interdisziplinär informierten Verständnis von Rassismus. Das Gericht macht
lange Ausführungen zur besonderen Bedeutung von Alltagsrassismus und zu dessen
einschüchternden Effekten, die für Betroffene von solchen Erfahrungen ausgehen.
Die Entscheidung überzeugt auch deshalb, weil das Gericht berücksichtigt, dass
eine rassistische Beleidigung stets an ein bestehendes Machtverhältnis
anknüpft, welches sich auf diese Weise stabilisiert und das Ausmaß der
Herabwürdigung verstärkt.
Rassismus kommt in nahezu allen Bereichen des Lebens vor.
Bei der Wohnungssuche, bei der Arbeitsuche oder an der Diskotür. Nur wenige
dieser Fälle landen erfahrungsgemäß vor Gericht. Besteht die Gefahr, dass von
Rassismus Betroffene vor Gericht ein weiteres Mal Opfer werden?
Leider ist diese Frage eindeutig zu bejahen. Dies zeigen
allein die wenigen Entscheidungen, die ich in meiner Arbeit ausführlicher
darstellen konnte. Wenn Gerichte die rassistische Erfahrung von Betroffenen
verkennen, bagatellisieren oder sich gar selbst an der Rassifizierung von
Menschen beteiligen, kann dies verletzten und ein Gefühl der Hilflosigkeit
entstehen lassen.
„Gerichte reduzieren beispielswiese die Höhe der
Entschädigung deutlich, weil die rassistische Behandlung der betroffenen Person
‚von Anfang an bewusst‘ gewesen sei. Diese habe ‚damit gerechnet‘,
diskriminiert zu werden.“
Ich möchte diese Hilflosigkeit an einem Beispiel
illustrieren. Eine besondere Schwierigkeit im Zusammenhang mit rassistischen
und sonstigen Diskriminierungen besteht darin, diese zu beweisen. Zwar reicht
es nach § 22 AGG aus, dass eine Person Indizien vorträgt, die eine
Benachteiligung vermuten lassen, um die Beklagten mit dem Gegenbeweis zu
belasten. Trotz allem ist die Beweisführung vor Gericht nicht einfach. In
meiner Arbeit habe ich dies anhand eines Vergleiches verschiedener
Diskotheken-Fälle dargestellt. Die Betroffenen sind hier der besonderen
Schwierigkeit ausgesetzt, zu belegen, dass es sich bei der Einlassverweigerung
nicht um eine zufällige, einmalige Ablehnung aus welchen Gründen auch immer,
sondern um eine rassistische Diskriminierung handelt. In der Praxis werden
hierzu Testing-Verfahren eingesetzt, um Anhaltspunkte fu?r eine strukturelle
Diskriminierung zu erhalten. Testpersonen suchen gezielt verschiedene Clubs auf
und zählen, wie oft sie abgewiesen werden. In den von mir untersuchten
Verfahren nehmen die Gerichte dieses Vorgehen zum Anlass, den erlebten
Diskriminierungen ein geringeres Gewicht beizumessen. Gerichte reduzieren
beispielswiese die Höhe der Entschädigung deutlich, weil die rassistische
Behandlung der betroffenen Person „von Anfang an bewusst“ gewesen sei. Diese
habe „damit gerechnet“, diskriminiert zu werden und hätte „sich auch darauf
einstellen“ können.
In Fällen, denen kein Testing-Verfahren zugrunde lag, ist
hingegen der Beweis einer rassistischen Diskriminierung kaum möglich. So
verweist etwa ein Gericht darauf, dass es sich bei der Abweisung um ein „Maß
gewissermaßen täglichen Unrechts“ handele, welches „jedem Menschen alltäglich
in jeglicher Lebenssituation widerfahren“ könne5. Die gegenwärtige
Rechtsprechung kann die Betroffenen so in eine Zwickmühle versetzen: Entweder
lehnen die Gerichte eine Diskriminierung aufgrund mangelnder Beweise ab oder
aber die Beweiserhebung, das heißt das Testing-Verfahren, wird dafür
herangezogen, die Diskriminierungserfahrung zu relativieren.
Gerichte entscheiden auch über politische Streitigkeiten,
beispielsweise über Wahlplakate oder über Wortgefechte in Parlamenten. Welche
Auffälligkeiten bzw. Entscheidungen sind Ihnen während Ihrer Recherche
begegnet?
Sie sprechen hier eine komplexe und schwierige Konstellation
an. Denn die Wahlplakate fallen in den Schutzbereich der Meinungs- und
Parteienfreiheit, parlamentarische Debatten werden durch das freie Mandat und
die hieraus ableitbaren Rederechte der Abgeordneten besonders geschützt. Das
Bundesverfassungsgericht hat in zahlreichen Entscheidungen auf die überragende
Bedeutung der freien Rede für das demokratische Gemeinwesen hingewiesen. Es
betont, dass eine Meinung ihrem Wesen nach auch polemisch oder verletzend sein
darf. Gleichzeitig gefährdet ein grenzenloser Schutz der Meinungsfreiheit die
grundrechtlich geschützte Diskriminierungsfreiheit. Die Aufgabe von Gerichten
besteht also darin, die Meinungsfreiheit mit anderen Rechtsgütern, wie dem
Persönlichkeitsschutz, abzuwägen und in einen schonenden Ausgleich zu bringen.
„Die Grenzziehung zwischen zulässiger Meinungsäußerung und
unzulässiger Diskriminierung vollzieht sich so maßgeblich durch die Perspektive
jener Menschen, die zuvor nicht von den einschüchternden Effekten der Hassrede
betroffen waren.“
Aus rassismuskritischer Perspektive ist auffällig, dass die
Rechtsprechung ein „verständiges Durchschnittspublikum“ imaginiert, um
mehrdeutige Plakattexte zu bewerten. Den Maßstab dieser Bewertung können dabei
nur solche Stimmen prägen, die im Diskurs tatsächlich vorkommen und als
„allgemein“ und „normal“ gelten. Durch rassistische Ausschlüsse werden dabei
bestimmte Wahrnehmungen bei der Maßstabsbildung vernachlässigt und vor allem
privilegierte, das heißt weiße Sichtweisen berücksichtigt. Die Grenzziehung
zwischen zulässiger Meinungsäußerung und unzulässiger Diskriminierung vollzieht
sich so maßgeblich durch die Perspektive jener Menschen, die zuvor nicht von
den einschüchternden Effekten der Hassrede betroffen waren. Eine stärkere,
rassismussensible Regulierung des Diskurses wird deshalb vornehmlich als
Freiheitsbeschränkung wahrgenommen. Dass eine stärkere Regulierung für
Menschen, die von Rassismus betroffen sind, ebenfalls freiheitsfördernd wirkt,
gerät demgegenüber aus dem Blickfeld. Unter Rückgriff auf die
Subalternitätsforschung argumentiere ich daher dafür, gleichheitsrechtliche
Erwägungen in die Prüfung der Meinungsfreiheit einzubeziehen.
Was halten Sie vom Allgemeinen Gleichbehandlungsgesetz? Wird
es seinem Namen gerecht?
„Ob das Allgemeine Gleichbehandlungsgesetz seinem Namen
gerecht wird? Wohl kaum.“
Eine weite Frage und eine, zu der es viel zu sagen gäbe. Es
lässt sich wohl festhalten, dass das AGG zur Zeit des Erlasses im Jahr 2006
eine enorme gleichheitsrechtliche Errungenschaft war. Insofern begrüße ich,
dass mit dem AGG ein einfachgesetzliches Instrument zur Verfügung steht, um
Diskriminierungen justiziabel zu machen. Ob es seinem Namen gerecht wird? Wohl
kaum. Allgemein ist das Gesetz schon deshalb nicht, weil es nur
Benachteiligungen aus bestimmten Gründen erfasst, nämlich der Rasse, der
ethnischen Herkunft, des Geschlechts, der Religion oder Weltanschauung, einer
Behinderung, des Alters oder der sexuellen Identität. Die Auswahl dieser
Diskriminierungsmerkmale ist weder abschließend noch zwingend, sondern das
Ergebnis konkreter politischer Entscheidungsprozesse. Das AGG wird deshalb seit
seinem Bestehen von der Forderung begleitet, den Katalog der
Benachteiligungsgründe zu ändern und/oder auszuweiten.
Darüber hinaus bietet das Gesetz selbst innerhalb der
erfassten Diskriminierungsverhältnisse keinen hinreichenden Schutz vor
Ungleichheitserfahrungen. Dies liegt nicht nur an den oben beschriebenen
Problemen, die Rechtsbegriffe auszulegen und anzuwenden, sondern auch an ganz
konkreten Schwachstellen des Gesetzes. Um einige davon anzureißen sei
beispielsweise auf die kurze Klagefrist von 2 Monaten verwiesen, die für die
Betroffenen häufig nicht ausreicht, um eine notwendige Beratung rechtzeitig
einzuholen. Ebenfalls sieht das AGG nur sehr begrenzte Klagemöglichkeiten für
Verbände vor, die es ermöglichen würden, Personen vor Gericht umfassend zu
vertreten oder Rechtsverletzungen im eigenen Namen gerichtlich feststellen zu
lassen. Zudem ist das Handeln von Behörden und öffentlichen Stellen bislang
nicht vom AGG erfasst, sodass institutioneller Rassismus durch das AGG nicht
wirksam geahndet werden kann. Fachleute fordern daher seit Jahren umfangreiche
Reformen des AGG.
Warum denken Sie, dass es Rassismus in deutschen
Gerichtsentscheidungen gibt?
Es liegt leider nahe, dass die Justiz, wie jeder andere Teil
der Gesellschaft, solange von Rassismus beeinflusst ist, bis wir es schaffen,
diesem gesamtgesellschaftlich wirksam entgegen zu treten. Gleichzeitig zeigt
meine Untersuchung, dass die Ursachen rassistischer Entscheidungen
vielschichtiger sind und etwas über unser Verständnis von Recht und dessen
Anwendung verraten. Entgegen der idealtypischen Vorstellung des neutralen,
unpolitischen und objektiven Rechts bestehen in der rechtlichen Bewertung
häufig große Interpretationsspielräume. Innerhalb dieser Spielräume können das
persönliche Vorverständnis der rechtsanwendenden Person, deren
Normalitätsvorstellung und Lebenserfahrung eine entscheidende Rolle spielen.
Defizite in der juristischen Methodenlehre verstärken diesen Umstand. Auch die
juristische Ausbildung ist bislang nicht darum bemüht, angehende Richterinnen
und Richter für diese Zusammenhänge zu sensibilisieren. Hinzu kommt, dass
gleichheitsrechtlichen Fragestellungen im Studium und Referendariat nur eine
untergeordnete Bedeutung zukommt. Die ohnehin herausfordernde Aufgabe,
strukturelle Diskriminierungsverhältnisse zu erkennen und zu bekämpfen, wird
also durch die Defizite in der juristischen Ausbildung zusätzlich erschwert.
Welche Auswirkungen haben rassistische Urteile auf die
Betroffenen und die Gesellschaft im Allgemeinen?
„Rassistische Entscheidungen erodieren so das Vertrauen in
den Staat und seine Organe und rütteln damit an einer wesentlichen
demokratischen Grundvoraussetzung.“
Eine spannende Frage, zu deren hinreichender Beantwortung sicher
eine eigene Untersuchung angezeigt wäre. Ich kann aus meiner Beschäftigung
berichten, dass Betroffene ein Gerichtsverfahren – unabhängig vom konkreten
Ergebnis – als aufwühlend, belastend oder sogar re-traumatisierend erleben,
etwa wenn die Konfrontation mit einer Tatperson notwendig ist. Durch die
mangelnde rassismuskritische Sensibilität vieler Gerichte verstärkt sich die
ausgrenzende Erfahrung nicht nur, sie potenziert sich, indem der Staat die
Ungleichheit zu normalisieren und legitimieren scheint. Dies hat aus meiner
Sicht viel mit der besonderen Funktion zu tun, die Gerichte innerhalb des
Rechtsstaats einnehmen. Als unabhängige und neutrale Institutionen sollen
Gerichte sicherstellen, dass Menschen in einem fairen Verfahren rechtliches
Gehör erfahren. Vor Gericht unverstanden zu bleiben, kann das Gefühl,
gesellschaftlich ausgeschlossen zu sein, enorm verstärken. Rassistische
Entscheidungen erodieren so das Vertrauen in den Staat und seine Organe und
rütteln damit an einer wesentlichen demokratischen Grundvoraussetzung. Die
Betroffenen spüren, dass es an dem notwendigen Korrektiv fehlt, rassistische
Denk- und Verhaltensweisen zu sanktionieren. Wenn sogar der Schiedsrichter
ungerecht ist, wieso sollten es die Spieler sein?
Die Auswirkungen rassistischer Entscheidungen auf die
Gesellschaft sind im Einzelnen schwer zu fassen. Für das demokratische
Gemeinwesen birgt struktureller Rassismus in der Justiz jedenfalls eine enorme
Gefahr. Die Unrechtserfahrungen Einzelner können einen Rückzug aus gesellschaftlich
geteilten Räumen oder dem Diskurs zur Folge haben. Dieser Rückzug führt zu
einem Verlust an Stimmen und mithin an demokratischer Vielfalt.
Wie können wir als Gesellschaft darauf reagieren, wenn
rassistische Tendenzen in der Justiz offensichtlich werden?
Zunächst möchte ich darauf verweisen, dass das Recht selbst
verschiedene Reaktionsmöglichkeiten vorsieht. Eine Entscheidung kann
beispielsweise innerhalb des vorgesehenen Instanzenzugs korrigiert werden. Dies
mag die erlebte Ungleichheitserfahrung nicht gänzlich ausgleichen, setzt aber
zumindest dem Vertrauensverlust eine positive Erfahrung entgegen. In einem
anderen mir bekannten Einzelfall wurde ein rassistischer Richter im Wege einer
Dienstaufsichtsbeschwerde aus dem Dienst entfernt und so an der weiteren
Verbreitung rassistischer Narrative im Amt gehindert. Es gibt also durchaus
rechtliche Instrumente, mit denen rassistischen Tendenzen in der Justiz
entgegengewirkt werden kann, wenngleich diese bisher zu selten Wirkung zeigen.
„Insbesondere Menschen, die nicht nachteilig von Rassismus
betroffen sind, stehen in der Verantwortung, sich mit den eigenen Privilegien
und unbewussten rassistischen Vorannahmen kritisch auseinanderzusetzen.“
Denn, das Problem besteht in den meisten Fällen nicht in
dezidiert rechtsextremen oder rassistischen Richtern und Richterinnen. Jenseits
politischer Überzeugungen wirken sich rassistische Wissensbestände auch deshalb
auf gerichtliche Entscheidungen aus, weil die Gerichte unzureichende Kenntnisse
über die unterschiedlichen Erscheinungsformen von Rassismus haben. Erforderlich
ist daher, sich mit Gerichtsentscheidungen innerhalb der Fachdisziplin
rassismuskritisch auseinanderzusetzen, diese zugleich öffentlich zu diskutieren
und weiterhin über die exkludierenden Mechanismen von Rassismus aufzuklären.
Als Gesellschaft sollten wir dabei lernfähig sein. Insbesondere Menschen, die
nicht nachteilig von Rassismus betroffen sind, stehen in der Verantwortung,
sich mit den eigenen Privilegien und unbewussten rassistischen Vorannahmen kritisch
auseinanderzusetzen.
Welche Maßnahmen könnten ergriffen werden, um die
Wahrscheinlichkeit rassistischer Urteile zu verringern?
Einige Maßnahmen sind bereits angeklungen. Ich würde die
bestehenden Potenziale in zwei Kategorien unterteilen. Zum einen bestehen
zahlreiche Möglichkeiten, das geltende Recht zu ändern und den Rechtsschutz
gegen Rassismus zu stärken. Der Anspruch muss allerdings darüber hinaus gehen.
Denn auch ein ausdifferenzierter Rechtsschutz vor rassistischer Benachteiligung
kann nicht verhindern, dass infolge gerichtlicher Argumentation Schutzlücken
für die Betroffenen entstehen. Rechtswissenschaft und Rechtspolitik sind daher
angehalten, ihre antirassistische Kompetenz zu stärken. Einzelne Entscheidungen
zeigen, dass – jenseits gesetzlicher Änderungen – bereits eine erhöhte
Sensibilität für rassistische Ungleichheit die Entscheidungen in
gleichheitskritischer Hinsicht verbessert. Das Justizpersonal selbst muss nicht
nur kompetenter darin werden, Rassismus in den sich verändernden Erscheinungsformen
zu erkennen und rechtlich zu fassen. Auch die eigene gesellschaftliche Position
und daraus resultierende Erfahrungslücken müssen im Recht stärker reflektiert
werden. Es würde helfen, wenn das juristische Personal insgesamt diverser wäre
und so vielfältigere Erfahrungen in sich vereinen würde. Dies würde nicht nur
eine gerechtere Verteilung gesellschaftlicher Machtpositionen mit sich bringen,
sondern die Rechtsanwendung qualitativ stärken.
Wie ist der Forschungsstand zum Thema. Was sollten künftige Studien
zu diesem Thema untersuchen?
Lange gab es im deutschsprachigen Raum nur wenige
Publikationen zum Thema Recht und Rassismus. Dies hat sich in den letzten
Jahren erfreulicherweise geändert. Gleichwohl ist das Forschungsfeld noch immer
im Werden begriffen. Eine Institutionalisierung und teilweise auch die
Berücksichtigung der Forschungsergebnisse im Mainstream stehen daher erst am
Anfang.
Neben weiterer Grundlagenforschung und umfangreicher
Begriffsarbeit braucht es nach meinem Dafürhalten vor allem empirische
Untersuchungen, um die Schwachstellen des Rechtsschutzes in der Praxis erkennen
und beheben zu können. Wie eingangs bereits erwähnt: Das zu untersuchende Feld
ist groß und gerade im Gerichtssaal selbst wirken sich rassistische
Wissensbestände besonders stark aus. Die Rechtswissenschaft sollte sich daher
einer interdisziplinären Zusammenarbeit öffnen und von den etablierten
Untersuchungsmethoden der Soziologie und Politikwissenschaft genauso lernen wie
von der internationalen Rassismus- und Gleichheitsforschung.
Frau Stix, vielen Dank für das Gespräch! (es/mig 29.3.)
Italien: Wie die Hilfe für die
Ukraine eine Familie verändert hat
2022 begann die italienische Familie Uslenghi mit ihrem
ehrenamtlichen Einsatz für die Ukraine - eine Hilfsaktion, die ihr ganzes Leben
veränderte. Wie, das berichten die Töchter der Familie, Rebecca und Beatrice,
im Interview mit Radio Vatikan. Svitlana Dukhovych und Stefanie Stahlhofen - Vatikanstadt
Die Familie bringt seit dem Angriff auf die Ukraine
regelmäßig auch persönlich Hilfsgüter in die Ukraine; in den vergangenen
zwei Jahren waren sie schon sechs Mal in dem Kriegsland:
„Ich glaube, uns treibt vor allem der Wille an, zu
helfen", sagt die 22-jährige Beatrice. „Ich denke, es ist menschlich,
unseren Brüdern und Schwestern helfen zu wollen. Es hat uns angetrieben, dass
wir etwas tun können: Das, was in unserer Macht liegt. Den Krieg stoppen können
wir nicht, aber wir können das Leid lindern", so die junge Frau im
Interview mit Radio Vatikan.
Liebe ist stärker als Angst
„Es gibt im Leben keine Zweiklassengesellschaft, A oder B.
Nur weil die Menschen in der Ukraine unter Bombenangriffen leben müssen, heißt
das nicht, dass wir da nicht hin sollen. Ihr Leben ist so wertvoll wie unseres.
Sie halten es seit zwei Jahren aus. Also, warum sollten wir es nicht auch
können?", fragt Beatrice.
„Sie sind dankbar, dass wir da sind. Und das wiegt am Ende
mehr als die Angst, es ist stärker als alles“
Ihre jüngere Schwester Rebecca ist 20. Sie sagt, etwas
Angst habe sie schon bei den Hilfsmissionen der Familie vor Ort: „Ein
bißchen Angst hat man, du bist dir bewusst, dass du in ein Kriegsland gehst.
Tag und Nacht gibt es dort Alarmsirenen und Bombenangriffe. Aber wir sagen auch
immer, wenn wir wieder zurück daheim sind, dass Liebe, Freundschaft,
Nächstenliebe und Solidarität stärker sind als die Angst. Wenn man dort ist und
mit Kindern spielt, wenn ältere Frauen dich anlächeln, auch wenn sie nicht
deine Sprache sprechen, nicht wissen, wie wir heißen. Sie sind dankbar, dass
wir da sind. Und das wiegt am Ende mehr als die Angst, es ist stärker als
alles."
Eine Mission, die das Leben verändert
Mit Beatrice und Rebecca sind auch Vater Luigi sowie Mutter
Cristina in der Ukraine-Hilfe aktiv. Das erste Mal brach die Familie vor
ziemlich genau zwei Jahren, zwischen März und April 2022, mit einem
Hilfstransport in die Ukraine auf. Damals hatten sich rund 150 Italiener beim
Netzwerk „StoptheWarNow" vereint, das unter Koordination der
Vereinigung Papst Johannes XXIII. Hilfsgüter nach Lwiw
(Lemberg) brachte.
„Unser erster Hilfskonvoi in die Ukraine ist für uns
sicherlich ein Neubeginn gewesen, ein Jahr Null: So als habe es nichts davor
gegeben und alles damit begonnen. Diese Erfahrung hat uns komplett verändert.
Jetzt sind wir auch richtig in der Freiwilligenarbeit drin, das nimmt praktisch
unsere ganze Zeit in Aspruch, aber wir sind sehr froh darüber", sagt
Beatrice.
Der Krieg in der Ukraine sei Teil ihres Lebens auch in
Italien geworden. Die Berichte aus der Ukraine verfolgt die Familie sehr
aufmerksam; viele der Orte, die genannt werden, sind ihr nicht mehr fremd.
Teils war sie schon selbst vor Ort; oft kennen sie Leute, die von dort fliehen
mussten.
„Aufmerksamer geworden, aber nicht nur für die Ukraine, denn
Leute, die Hilfe brauchen, die gibt es auch hier“
„Wir sind sicherlich aufmerksamer geworden, aber nicht nur
für die Leute in der Ukraine, denn Leute, die Hilfe brauchen, die gibt es auch
hier. Unser Blick hat sich also geweitet, auch für die Bedürfnisse hier in
unserer Gegend sind wir sensibler geworden", berichtet Beatrice. Auch
Schwester Rebecca sagt, dass sich ihr Leben durch die Ukraine-Hilfe verändert
hat.
Krieg ist Realität, keine Seite im Geschichtsbuch...
„Eine Erfahrung dieser Art verändert dich. Das, was du sonst
nur aus dem Geschichtsbuch kennst, wo es um Kriege geht, das waren Zahlen, das
hast du dann vergessen. Aber wenn du es mit deinen eigenen Augen siehst, dann
wird dir klar, dass es Krieg wirklich gibt, dass in der Ukraine, aber auch
anderswo, Menschen kämpfen und sterben - dass das Realität ist auch jetzt und
nicht nur eine Seite im Geschichtsbuch. Ältere Leute sagen oft, dass wir uns
heute nicht bewusst sind, wie gut es uns eigentlich geht. Dass wir in die
Schule gehen können, dass wir Trinkwasser haben. Und wenn du in einem
Kriegsland bist, dann merkst du, was dieser Satz, den die anderen dir immer
gesagt haben, wirklich bedeutet."
„Erschüttert, als ein Jugendlicher zu einem Foto eines zerstörten
Gebäudes gesagt hat: ,Das beeindruckt mich nicht, das bin ich aus Videospielen
gewohnt`“
...und auch kein Videospiel
Seit zwei Jahren gehen Rebecca und Bianca deshalb auch in
Grund- und weiterführende Schulen, um von ihrer Erfahrung zu berichten. „Oft
ist es nicht leicht, mit den Jugendlichen darüber zu reden, denn wenn du nicht
da warst und es erlebt hast, kannst du es kaum nachvollziehen. Besonders
schwierig ist es, bei den elf bis 14-Jährigen, sie haben sich oft abgeschirmt
angesichts all dessen, was passiert, sie schaffen es nicht, Kontakt zur
Realität zu haben, auch wenn diese gar nicht so weit weg ist von uns. Es hat
mich wirklich etwas erschüttert, als ein Jugendlicher zu einem Foto eines
zerstörten Gebäudes gesagt hat: ,Das beeindruckt mich nicht, das bin ich aus
Videospielen gewohnt.` Es geht also auch darum, dass die Jugendlichen wieder
ein Bewusstsein entwickeln", sagt Beatrice. Abschließend fasst sie
zusammen: „Gute Christen sein, heißt handeln: Man muss sehen, wenn es Menschen
in Not gibt, und dann handeln“ „Ganz sicher hat diese Erfahrung uns darüber
nachdenken lassen, dass es nicht reicht, in den Gottesdienst zu gehen, um ein
guter Christ zu sein. Gute Christen zu sein heißt handeln: Man muss sehen, dass
es Menschen in Not gibt, und dann handeln."
(vn 27.3.)
Amtliche Zahlen. Mehr Schüler durch
Einwanderung
Die Schülerzahl in Deutschland steigt erneut. Die
Einwanderung aus dem Ausland ist der Hauptgrund. Vor allem aus einem Land kamen
viele Kinder und Jugendliche. Hamburg verzeichnete den größten Zuwachs,
Baden-Württemberg gar keinen.
Die Zahl der Schüler an allgemeinbildenden und beruflichen
Schulen in Deutschland ist im zweiten Jahr in Folge gestiegen. Im Schuljahr
2023/2024 werden nach vorläufigen Ergebnissen rund 11,2 Millionen Schüler an
diesen Schulformen unterrichtet, teilte das Statistische Bundesamt (Destatis)
in Wiesbaden mit. Das seien ein Prozent oder 107.000 Schüler mehr als im
Schuljahr 2022/2023.
Der Anstieg sei auch im laufenden Schuljahr vor allem auf
die Zuwanderung aus dem Ausland zurückzuführen: Die Zahl der Kinder und
Jugendlichen in der relevanten Altersgruppe (5 bis 19 Jahre) war zum Jahresende
2022 insgesamt um 4 Prozent höher als Ende 2021, hieß es. „Die Zahl der
ausländischen Kinder und Jugendlichen nahm in diesem Zeitraum sogar um 27
Prozent zu.“
Grund für Zuwachs: Ukraine
Insbesondere zugewanderte ukrainische Schüler seien ein
Grund für den Schülerzuwachs, erklärten die Experten. Genau lasse sich der
Einfluss der Zuwanderung allerdings noch nicht beziffern, da die genauen
Staatsangehörigkeiten erst mit der Schulstatistik im Herbst 2024 nachgewiesen
werden können.
Von den rund 11,2 Millionen Schülern im Schuljahr 2023/2024
besitzen laut Destatis 1,7 Millionen eine ausländische Staatsbürgerschaft. Das
sind 7 Prozent mehr als im Schuljahr 2022/2023. Damit haben 15 Prozent aller
Schüler in Deutschland einen ausländischen Pass.
Höchster Zuwachs in Hamburg
An den allgemeinbildenden Schulen stieg die Schülerzahl im
Schuljahr 2023/2024 gegenüber dem vorherigen um 1,3 Prozent auf 8,8 Millionen.
An den beruflichen Schulen sank sie dagegen leicht um 0,1 Prozent auf 2,3
Millionen.
In den Ländern variiert das Bild: Den höchsten Zuwachs an
Schülern verzeichnete laut Destatis Hamburg mit 2,2 Prozent. Danach folgen
Bremen und Brandenburg mit je 2,2 Prozent. Schlusslicht ist Baden-Württemberg,
dort gab es laut Bundesamt keine Veränderung. (dpa/mig 28.3.)
Vatikan: Frieden durch
Vereinbarungen zwischen Völkern
Der Heilige Stuhl pocht auf die Zwei-Staaten-Lösung für
Israel und Palästina. Das sagte Erzbischof Paul Richard Paul Gallagher,
Sekretär des Vatikans für Beziehungen zu Staaten und internationalen
Organisationen, im Interview mit der Tagesschau TG1 des italienischen öffentlich-rechtlichen
Rundfunks (Rai1). Mario Galgano -
Vatikanstadt
Im Interview mit dem italienischen Fernsehen ging Erzbischof
Gallagher auf das Attentat in Moskau sowie auf die allgemeine Instabilität in
Europa und in der Welt ein. Es sei aus diesem Grund gerade jetzt wichtig,
darauf zu beharren, „für den Frieden zu arbeiten und zu versuchen, den Frieden
zu fördern“. Gallagher bezog sich vor allem auf den russischen Angriffskrieg in
der Ukraine; Frieden solle durch Verhandlungen, aber auch mit der Verteidigung
der eigenen Staatssouveränität der Ukraine erreicht werden. Wenn er von
Verteidigung spreche, dann meine er „nicht nur Verteidigung mit Waffen, sondern
mit Vereinbarungen“.
Hoffnung auf eine Zwei-Staaten-Lösung
Dann ging Gallagher auf die Angst vor einer nuklearen
Eskalation ein. Es werde auf jeden Fall „eine neue Weltordnung" nach
Beendigung der jüngsten Konflikte weltweit geben. Er richtete auch einen Blick
auf das Heilige Land mit der Hoffnung auf eine Zwei-Staaten-Lösung und der
Trauer über die „katastrophale“ Situation in Gaza. Er nannte auch die
Notwendigkeit einer Erneuerung der palästinensischen Führung und die
Freilassung aller israelischen Geiseln.
Im Gespräch mit dem italienischen Fernsehen äußerte der
Brite auch seine Gedanken über die krebskranke Prinzessin Kate. Zudem erwähnte
er die Gesundheit von Papst Franziskus, der „stark“ und „sehr entschlossen“
erscheine, aber in diesen Kar- und Ostertagen wahrscheinlich „versucht, seine
Anstrengungen auszubalancieren“. Dennoch sei Franziskus „immer wieder gut, uns
zu überraschen“, so der Vatikan-Diplomat.
Nach seiner Rückkehr von einer Reise nach Montenegro und vor
seiner Weiterreise nach Jordanien kommentierte der britische Erzbischof die
aktuellen internationalen Ereignisse und legte den diplomatischen Standpunkt
des Heiligen Stuhls dar.
Der Bombenanschlag in Moskau
Zum jüngsten Attentat in Moskau sagte Gallagher: „Eine
schreckliche Sache, die uns zum Nachdenken bringen muss, denn wir sehen, dass
es Elemente in unseren Gesellschaften gibt, die nur zerstören und Menschen
leiden lassen wollen“, betonte der Vatikanvertreter. Er wies auf die reale
Gefahr hin, dass das Moskauer Massaker die Weltlage weiter anheizen könne: „Ein
Land, das ein solches Trauma erleidet, kann auch sehr stark reagieren, wie Israel
nach dem 7. Oktober.“
All diese Instabilität sieht Gallagher als „Ergebnis der
Auflösung einer Ordnung, von der wir dachten, dass wir sie nach den beiden
Weltkriegen, nach dem Kalten Krieg, in dem die Staaten ihre Konflikte durch
Verhandlungen untereinander, durch Gespräche, Verhandlungen und Dialoge lösten,
geschaffen hatten“. Heute scheine es nicht mehr diese „Aufmerksamkeit für das
Recht“ zu geben, sondern vielmehr „einen Mangel an Vertrauen in unsere
Institutionen“, angefangen bei den Vereinten Nationen, der OSZE und Europa
selbst, „Säulen unserer Welt seit so vielen Jahrzehnten“, die jedoch „jetzt
nicht in der Lage sind oder zu sein scheinen, diese ernsten Herausforderungen
zu bewältigen“.
Krieg in der Ukraine
Er richtete seinen Blick weiter auf die Ukraine und den
jüngsten Aufruf von Papst Franziskus zu Verhandlungen. Der Papst, stellte
Erzbischof Gallagher klar, „hat immer gesagt, dass Kriege am Verhandlungstisch
enden. Ich glaube, der Papst wollte die ukrainische Seite zum Dialog ermutigen,
zum Wohle des Landes. Gleichzeitig glaube ich, dass der Heilige Stuhl der
russischen Seite gegenüber immer sehr deutlich gewesen ist und sie aufgefordert
hat, ebenfalls Signale in diese Richtung zu senden, angefangen mit der
Einstellung des Raketenbeschusses auf ukrainisches Gebiet. Und der Konflikt,
die Aufrüstung und alle alltäglichen Konflikte müssen aufhören“. (vn 27.3.)
Bericht für 2022. Jeder Zweite in
Armut hat Migrationserfahrung
Die Armutsquote ist im Inflationsjahr 2022 zwar nicht
gestiegen, besonders stark betroffen sind aber weiterhin Personen mit
Migrationserfahrung. Eine Trendwende ist nicht auszumachen. Der Regierung
gelingt es nicht, Arme zu unterstützen.
Dem Paritätischen Gesamtverband zufolge müssen 14,2
Millionen Menschen in Deutschland zu den Armen gezählt werden. Die Armutsquote
lag im Inflationsjahr 2022 bei 16,8 Prozent und damit 0,1 Prozentpunkte unter
der Quote vom Vorjahr, wie aus dem Armutsbericht des Wohlfahrtsverbandes
hervorgeht, der am Dienstag in Berlin vorgestellt wurde. Der
Hauptgeschäftsführer des Verbandes, Ulrich Schneider, nannte die statistischen
Befunde „durchwachsen“. Der seit 16 Jahren fast ungebrochene Trend einer stetig
wachsenden Armut sei gestoppt, doch längst nicht gedreht, erklärte er.
Auf „einen neuen traurigen Rekordwert“ kletterte Schneider
zufolge die Kinderarmut. 21,8 Prozent aller Kinder und Jugendlichen leben
danach an oder unter der Armutsschwelle von 60 Prozent des mittleren
Einkommens. Weiterhin sehr stark von Armut betroffen waren auch in 2022
Personen ohne deutsche Staatsangehörigkeit (35,3 Prozent) oder mit
Migrationshintergrund (28,1 Prozent). Zum Vergleich: Deutsche Staatsangehörige
weisen mit 13,8 Prozent eine vergleichsweise deutlich niedrigere Armutsquote
aus, ebenso Personen ohne Migrationshintergrund (12,2 Prozent). Auch
alleinerziehende, kinderreiche Familien sowie Personen mit niedrigem
Bildungsabschluss sind mit einer überdurchschnittlichen Armutsquote stark
betroffen.
Armut: Jeder Zweite mit Migrationserfahrung
Schneider machte zugleich deutlich, dass das Bild
vielschichtiger ist, als es auf den ersten Blick wirkt: 70 Prozent der Armen
besitzen die deutsche Staatsbürgerschaft. So sei Armut „nicht hauptsächlich ein
Problem von Migrant:innen“, heißt es in dem Bericht. Unterteilt nach
Migrationshintergrund ergibt sich allerdings eine Armutsaufteilung von 48,1
(mit Migrationshintergrund) zu 51,9 Prozent (ohne Migrationshintergrund).
Migrationserfahrung weist demgegenüber lediglich 28,1 Prozent der Bevölkerung
in Deutschland.
Außerdem haben 60 Prozent der von Armut Betroffenen gute
Bildungsabschlüsse, und nur 6 Prozent haben keine Arbeit. Gut ein Drittel der
Armen ist erwerbstätig, ein weiteres Drittel sind Rentnerinnen und Rentner.
Armut ungleich verteilt in Deutschland
Wie schon in den vergangenen Jahren sind die regionalen
Unterschiede enorm. Am schlechtesten steht das Ruhrgebiet da mit einer
Armutsquote von 22 Prozent, die einer Million Menschen entspricht. Zwar liegt
Bremen mit einer Quote von 29 Prozent abgeschlagen auf dem letzten Platz aller
Bundesländer. Dort leben aber nur 680.000 Menschen, im Ruhrgebiet hingegen mehr
als fünf Millionen. Berlin ist vom zweitletzten auf den sechsten Platz des
Bundesländer-Rankings aufgerückt.
Deutschland zeigt sich dreigeteilt: Am geringsten ist die
Armut in Bayern, Baden-Württemberg und Brandenburg mit dem Berliner
Speckgürtel, im Mittelfeld liegen die sechs Länder Sachsen, Niedersachsen,
Schleswig-Holstein, Berlin, Rheinland-Pfalz und Hessen, während die restlichen
sieben Länder vom Saarland bis Hamburg Armutsquoten um 19 Prozent aufweisen.
Der Bericht des Paritätischen „Armut in der Inflation“
basiert auf Daten des Statistischen Bundesamts für 2022. Methodisch wird der
relative Armutsbegriff verwendet. Danach gilt ein Haushalt als arm, der über
weniger als 60 Prozent des mittleren Einkommens verfügt. Bei der Ableitung vom
Medianeinkommen bleibt die Armutsschwelle so lange relativ gleich, wie das
mittlere Einkommen nicht steigt. Dass die ohnehin einkommensarmen Haushalte
2022 infolge der Energiekrise nach dem Überfall Russlands auf die Ukraine viel
mehr Geld für Lebensmittel, Gas oder Heizöl ausgeben mussten, wird nicht
gemessen.
Regierung hat Ärmste nicht unterstützt
Der Bundesregierung ist es dem Paritätischen zufolge im
Inflationsjahr 2022 zudem nicht gelungen, gezielt die Ärmsten zu unterstützen.
Nur 2 Milliarden Euro von insgesamt knapp 29 Milliarden Euro an
Entlastungsleistungen seien an die Haushalte mit den geringsten Mitteln
gegangen. Deutschland hatte 2022 die höchste Inflation seit der
Wiedervereinigung. Besonders die Preise für Nahrungsmittel und Energie stiegen
rasant um bis zu 20 Prozent (Nahrungsmittel) und bis zu 30 Prozent (Energie).
Politisch profitiert von Armut die AfD, wie aus einer Studie
hervorgeht. Danach erhalten rechtsextreme Parteien desto mehr Zulauf, je mehr
Menschen in einer Region von Armut bedroht sind. „Wenn der Anteil von
Haushalten unter der Armutsgrenze um einen Prozentpunkt steigt, steigt der
Stimmenanteil von rechtsextremen Parteien um 0,5 Prozentpunkte bei
Bundestagswahlen“, hatte das Münchner ifo-Instituts erklärt.
Die Armutsschwelle lag 2022 für einen Single bei 1.186 Euro
im Monat. Für ein Paar mit zwei Kindern unter 14 Jahren betrugt sie 2.490 Euro
im Monat, für eine Alleinerziehende mit zwei Kindern lag die Schwelle bei 1.897
Euro. Wer weniger zur Verfügung hat, gilt als arm. (epd/mig 27)
Ehrengast 2024 Italien:
„Destinazione Francoforte“
Eine echte Deutschlandtour italienischer
Literaturschaffender und Verleger*innen“- Bereits knapp 90 neu ins Deutsche
übersetzte Titel
2024 präsentiert sich Italien als Ehrengast auf der
Frankfurter Buchmesse (16.-20. Oktober 2024). Beim heutigen Pressegespräch in
Berlin anlässlich des Ehrengastauftritts gaben der Italienische Botschafter in
Deutschland, Armando Varricchio, und die Direktorin des Italienischen
Kulturinstituts in Berlin, Maria Carolina Foi, einen Überblick über
Veranstaltungen mit italienischer Beteiligung. Von Leipzig bis Kiel – in
zahlreichen deutschen Städten laden Literatur-Events dazu ein, bereits vor der
Buchmesse im Oktober italienische Autor*innen und ihre Literatur
kennenzulernen. Im Gespräch mit Juergen Boos, Direktor der Frankfurter
Buchmesse, erläuterte Susanne Schüssler, Leiterin des Verlags Klaus Wagenbach,
die Bedeutung der mit dem Ehrengast-Programm einhergehenden
Übersetzungsförderung für Verlage.
Juergen Boos, Direktor der Buchmesse, sagte dazu: „Bereits
2018 wurde der Ehrengast-Vertrag mit Italien unterzeichnet. Mit dem
Ehrengast-Programm, das die Literatur und Kultur des Gastlands in den Fokus
nimmt, geht auch ein Übersetzungsförderungsprogramm einher. Wir alle freuen uns
darauf, neue und junge literarische Stimmen aus unserem Nachbarland zu
entdecken. Die Neuerscheinungsliste umfasst bereits fast 90 aus dem
Italienischen ins Deutsche übersetzte Titel, die bei 60 Verlagen erscheinen.
Wir erwarten, dass die Zahl bis zur Messe noch weiter wachsen wird.“
„Das Jahr 2024 bietet uns die Möglichkeit, unseren deutschen
Freunden die vielen Gesichter der italienischen Kultur zu präsentieren“, sagte
der Italienische Botschafter in Deutschland, Armando Varricchio. „Nach den
Stationen bei verschiedenen Literaturfestivals im ganzen Land kommen wir zur
Frankfurter Buchmesse im Oktober. Destinazione Francoforte wird eine echte
Deutschlandtour italienischer Literaturschaffender und Verleger*innen sein,
welche die großen Metropolen und kleinen Städte ebenso miteinbezieht wie
Literaturfestivals und Fachmessen.“ Varricchio zufolge wird das italienische Kulturprogramm
unter dem Motto Destinazione Francoforte neben der Literatur auch weitere
Sparten umfassen. Das war bereits im Februar am Beispiel des „Country in Focus“
auf dem European Film Market im Rahmen der Berlinale zu sehen. Und es werde
sich im Laufe des Jahres auch in Musikevents um große Komponistennamen wie
Giacomo Puccini, Ferruccio Busoni und Luigi Nono zeigen.
Mehr Informationen zum Ehrengast-Programm der Frankfurter
Buchmesse: https://www.buchmesse.de/themen-programm/ehrengast
Zur Website des Ehrengasts 2024 Italien: https://italiafrancoforte2024.com/de#
Buchmesse.de 27.3.
Der Streit um die Entwicklungspolitik sollte darum gehen,
wie Deutschland seine Interessen besser priorisiert. Das würde der
Armutsreduzierung dienen. Jakob Hensing
Was Entwicklungspolitik in Zeiten knapper Kassen leisten
kann und soll, darüber entspinnt sich seit einigen Wochen eine
Grundsatzdebatte. Konkret drängt eine klaffende Finanzierungslücke: 940
Millionen Euro – zehn Prozent des Vorjahresetats – muss das federführende
Bundesministerium für Wirtschaftliche Zusammenarbeit und Entwicklung (BMZ) allein
dieses Jahr einsparen, weitere Kürzungen drohen ab 2025. Zusammen mit der
humanitären Hilfe ist die Entwicklungszusammenarbeit damit die große
Verliererin der Haushaltsverhandlungen. Angesichts immer härterer
Verteilungskämpfe tritt auch eine aus anderen Ländern wie Großbritannien
bekannte Forderung zunehmend in den Vordergrund: Die Entwicklungspolitik solle
sich endlich auf „nationale Interessen“ konzentrieren.
In markigen Wortmeldungen wird dabei gerne suggeriert, es
sei offensichtlich, worin diese Interessen bestehen und wie sie verfolgt werden
sollten. Dass dies nicht stimmt, veranschaulicht aber etwa die unter anderem
von CDU-Mann Thorsten Frei und jüngst auch seitens des Bundesverbands der
Deutschen Industrie (BDI) erhobene Forderung, die Bundesregierung solle
Finanzierungszusagen stärker an die Umsetzung durch deutsche Firmen binden.
Hier kollidiert sogleich das Geschäftsinteresse deutscher Unternehmen mit dem
Grundsatz eines möglichst sparsamen Einsatzes von Steuergeldern – ganz
abgesehen von Nachhaltigkeitserwägungen und guten politischen Gründen, die für
eine Beauftragung von lokalen Firmen und Anbietern aus Drittstaaten sprechen
können. Dem zu Recht beklagten unfairen Wettbewerb mit Firmen aus China und
anderen staatskapitalistischen Systemen kann mit deutlich gezielteren
Vorkehrungen begegnet werden.
Nochmals wesentlich komplizierter wird es, wenn weitere
politische Erwartungen einbezogen werden, die seit Jahren an die
Entwicklungszusammenarbeit gestellt und ohne Verrenkungen interessenbasiert begründet
werden können. Hierzu zählen beispielsweise die viel beschworene „Minderung von
Fluchtursachen“, die Bekämpfung des Klimawandels und der Schutz der
Biodiversität, die Stärkung der Resilienz bei Energieversorgung und Rohstoffen
oder die Pflege von Partnerschaften in einer volatilen globalen Sicherheitslage
– die Liste ließe sich fortsetzen. Zwischen diesen vielfältigen Interessen zu
priorisieren, Zielkonflikte aufzulösen und den Interessenbegriff so mit Inhalt
zu füllen, ist eine originär politische Aufgabe – insofern sind die Fürsprecher
des „nationalen Interesses“ gefordert, klarer zu benennen, was sie damit
meinen.
Eine ernsthafte Auseinandersetzung mit den Zielen deutscher
Entwicklungspolitik ist indes absolut geboten. Aktuelle strategische Richtschnur
ist das „Reformkonzept BMZ 2030“, in welchem das BMZ unter anderem die
staatliche Entwicklungszusammenarbeit auf 60 Länder in verschiedenen
Partnerschaftskategorien fokussiert und „Zukunftsthemen“ wie Klimaschutz und
nachhaltige Lieferketten definiert hat, die künftig das Engagement prägen
sollen. Das Konzept beeilt sich allerdings, zu unterstreichen: „Wichtigstes
Ziel bleibt aber nach wie vor die Überwindung von Hunger und Armut.“
Für dieses Ziel an sich gibt es gute Argumente, sowohl aus
globaler Verantwortung als reiches Land als auch aus Eigeninteresse an einer
prosperierenden Welt. Allerdings sprechen alle Erfahrungen der letzten
Jahrzehnte dagegen, dass Deutschland (oder irgendein anderer externer Akteur)
im Zuge seiner Entwicklungszusammenarbeit die wesentlichen Hebel in der Hand
hält, um es zu erreichen. Entscheidend sind – neben Rahmenbedingungen der
globalen Wirtschaftsordnung – vielmehr politische Faktoren im jeweiligen
Partnerland. Der Oxford-Professor und ehemalige Chefökonom des einstigen britischen
Ministeriums für Entwicklungszusammenarbeit (DFID), Stefan Dercon, spricht hier
von einem „Development Bargain.“ Einen solchen „Entwicklungspakt“ unter
lokalen Eliten sieht er als kritische Bedingung, damit diese bereit sind,
Entwicklungsstrategien ernsthaft zu erproben und umzusetzen und damit
verbundene Risiken, gerade hinsichtlich unerwarteter gesellschaftlicher
Veränderungen, in Kauf zu nehmen.
Inwiefern diese grundlegenden Bedingungen gegeben sind,
lässt sich nicht zuletzt daran ablesen, ob die jeweilige Regierung ihrerseits
Entwicklungsziele glaubhaft verfolgt und klare und kohärente Erwartungen an
externe Partner formuliert. Daher wäre es sinnvoll, wenn die Bundesregierung
ihre Ausgangsposition in den ohnehin immer erforderlichen Verhandlungen mit
Partnerregierungen zunächst weitestgehend auf Anliegen ausrichten würde, die
mindestens auch auf weitere, unmittelbarer erreichbare Ziele auf Basis der
eigenen Interessenabwägung einzahlen. Ausnahmen könnten für bestimmte Maßnahmen
gemacht werden, die erwiesenermaßen besonders wirksam sind und deren Erfolg
weniger stark vom Partner abhängt – etwa im Kampf gegen sogenannte
vernachlässigte Tropenkrankheiten, denen weltweit pro Jahr eine halbe Million
Menschen zum Opfer fallen. Auf dieser Grundlage könnte sie dann – konstruktiv –
auf Initiativen und Erwartungen des Gegenübers reagieren. Letztlich wäre dies
eine ehrlichere Umsetzung des viel besungenen „Local Ownership“ als der
aktuelle Versuch, auf ein Ziel hinzuverhandeln, das nur dann Aussicht auf Erfolg
hat, wenn das Gegenüber es ohnehin bereits mit Überzeugung verfolgt.
Welche der oben angerissenen Ziele dabei im Vordergrund
stehen sollten, kann auf globaler Ebene sinnvoll nur in Form breiter
Leitplanken definiert werden. In Kombination des „BMZ 2030“-Konzepts, der
nationalen Sicherheitsstrategie sowie Strategiepapieren zu Außenwirtschaft,
Rohstoffen und Energie aus dem Bundesministerium für Wirtschaft und Klimaschutz
sind diese auch bereits leidlich gegeben. Eine stärkere Integration solcher
Strategien der Bundesregierung wäre wünschenswert, Aufwand und Ertrag stehen
aber in keinem Verhältnis, solange an der hohen Autonomie der Ressorts bei der
Gestaltung ihres Politikbereichs nicht gerüttelt wird.
Zentral ist daher die Ebene der Partnerländer, bei denen die
BMZ-Strategie grundsätzlich richtig auf Fokussierung setzt. Darauf gilt es nun
mit echten Länderstrategien aufzubauen, die stärker auf Ziele der
Bundesregierung in der Welt insgesamt und nicht auf eine künstlich verengte
BMZ-Sicht abstellen sollten. Das bedeutet: Die Strategien sollten unter
Einbeziehung der anderen Ministerien ausbuchstabieren, für welche Ziele im
jeweiligen Land relevante Potenziale bestehen, inwiefern entwicklungspolitische
Maßnahmen zu deren Erreichung beitragen können, welche Ressourcen dafür jeweils
benötigt werden und welche Aspekte aufgrund dieser Analyse sowie unter
Berücksichtigung möglicher Zielkonflikte Vorrang erhalten sollen.
Angesichts immer wiederkehrender Gedankenspiele zu einer
möglichen Zusammenlegung mit dem Auswärtigem Amt wäre es schon jetzt im
Eigeninteresse des BMZ, hierbei aktiv die Führungsrolle zu suchen. Es wäre aber
auch inhaltlich wünschenswert, weil die Expertise des Hauses in den
(hoffentlich nicht allzu raren) Fällen, in denen die Kombination aus klaren
eigenen Zielen und den Prioritäten des Partnerlands tatsächlich eine Agenda im
gegenseitigen Interesse ergibt, essenziell bleibt. Und wo dies nicht der Fall
ist, wäre für entwicklungspolitische Maßnahmen so oder so der Rotstift
angezeigt. IPG 26.3.
Studie. Europa größter Profiteur
aus Zwangsarbeit
Weltweit leisten 27,6 Millionen Menschen Zwangsarbeit.
Insgesamt werden damit 236 Milliarden US-Dollar erwirtschaftet. Einer der
größten Profiteure ist Europa. Die EU bringt ein Verbotsgesetz für Produkte aus
Zwangsarbeit auf den Weg – ohne die Stimme Deutschlands, weil FDP blockiert.
Durch Zwangsarbeit werden laut einer Studie der
Internationalen Arbeitsorganisation (ILO) jährlich 236 Milliarden US-Dollar
(umgerechnet knapp 217 Milliarden Euro) erwirtschaftet. Die Gewinne sind
demnach seit 2014 um 37 Prozent und damit um 64 Milliarden US-Dollar gestiegen.
Der Anstieg resultiert der Studie zufolge sowohl aus einer wachsenden Zahl von
Menschen, die zur Arbeit gezwungen werden, als auch aus höheren Profiten aus der
Ausbeutung selbst.
Die jährlichen illegalen Gewinne aus Zwangsarbeit sind laut
ILO in Europa und Zentralasien am höchsten (84 Milliarden US-Dollar), gefolgt
von Asien und dem Pazifik (62 Milliarden US-Dollar), Amerika (52 Milliarden
US-Dollar), Afrika (20 Milliarden US-Dollar) und den arabischen Staaten (18
Milliarden US-Dollar). Dabei sei die Zahl der Opfer in Europa und Zentralasien
sowie in Nord- und Südamerika wesentlich niedriger als in Asien und im Pazifik.
EU verbietet Produkte aus Zwangsarbeit
Um diesem Missstand entgegenzuwirken, soll in der
Europäischen Union (EU) der Verkauf von Produkten aus Zwangsarbeit künftig
verboten sein. Eine Mehrheit der EU-Mitgliedsstaaten stimmte Mitte März einem
entsprechenden Gesetz zu. Lediglich ein EU-Staat stimmte gegen die Regelung,
zwei enthielten sich bei der Abstimmung. Weil die FDP das Gesetz ablehnt,
enthielt sich auch die Bundesregierung.
Konkret sieht das Gesetz vor, dass kein Teil eines Produktes
unter Zwangsarbeit hergestellt werden darf. Handelt es sich beispielsweise um
ein Teil eines Autos, ist der Autohersteller verpflichtet, entweder einen neuen
Zulieferer zu finden oder die Arbeitsbedingungen zu verbessern. „Stammen die
Tomaten für eine Soße aus Zwangsarbeit, muss die gesamte Soße entsorgt werden“,
erklärte der Rat kürzlich. EU-Kommission und Mitgliedsstaaten sollen gemeinsam
untersuchen, ob Zwangsarbeit in den Lieferketten vorkommt.
Deutschlands Enthaltung „beschämend“
Die Fraktionsvorsitzende der Grünen im Bundestag, Katharina
Dröge, begrüßte das Gesetz. „Verbraucherinnen und Verbraucher wollen sicher
sein, dass die Produkte, die sie kaufen, nicht mithilfe moderner Sklavenarbeit
hergestellt sind“, sagte sie. Auch sei die Verordnung im Interesse vieler
Unternehmen, die auf die Einhaltung von Menschenrechten achten. Dass
Deutschland aufgrund der Blockade der FDP der Verordnung nicht zustimmen
konnte, sei dagegen „beschämend“.
Der Großteil der Gewinne aus Zwangsarbeit (73 Prozent)
stammt laut Studie aus der sexuellen Ausbeutung von Menschen, obwohl nur 27 der
Opfer in diesem Bereich ausgebeutet werden. Der zweitgrößte Teil der Einnahmen
stamme aus der Industrie, gefolgt von Dienstleistungen, Landwirtschaft und
Hausarbeit. Im Jahr 2021 gab es den Angaben zufolge 27,6 Millionen Menschen,
die Zwangsarbeit leisteten. Zwischen 2016 und 2021 sei die Zahl der Menschen in
Zwangsarbeit um 2,7 Millionen gestiegen. (epd/mig 26.3.)
Stabilität und Sicherheit lautet das Versprechen Putins. Der
islamistische Anschlag in Moskau beschädigt das Image des russischen
Präsidenten erneut. Lisa Gürth
Eine Welle der Trauer erfasst das ganze Land: Der
erschreckende und verheerende Anschlag auf die Crocus City Hall, der über 130
Menschen das Leben kostete, hat Russland zutiefst erschüttert. Dieser Anschlag,
der von Expertinnen und Experten zweifellos dem Islamischen Staat in der
Provinz Khorasan (ISKP) zugeordnet wird, ist ein weiteres unvorhergesehenes
innenpolitisches Ereignis in kurzer Zeit. Eines, welches den sich selbst als
„Garanten der Stabilität“ inszenierenden Putin und die innenpolitische
Situation in Russland insgesamt viel fragiler erscheinen lässt.
Der Umgang mit dem Anschlag zeigt zehn Monate nach der
Prigoschin-Revolte, dass unerwartete Ereignisse den Kreml unverändert vor große
Reaktionsschwierigkeiten stellen. Erneut mussten die russischen Bürgerinnen und
Bürger in einem nationalen Krisenmoment fast 20 Stunden warten, bis sich ihr
mit überwältigend guten (und natürlich gefälschten) Ergebnissen frisch
gewählter Präsident an die Nation wandte. Mehrmals wurde diese Ansprache nach
hinten verschoben, um dann erstaunlich unkonkret zu bleiben, was die Schuldigen
dieses Anschlags betrifft. ISKP oder der Islamische Staat im Irak und in Syrien
(ISIS) wurden mit keinem Wort erwähnt, eine Verbindung zur Ukraine wurde
angedeutet, aber vor allem ging es Putin um das Beschwören der nationalen
Einheit unabhängig der Ethnie bzw. Nationalität (Nationalnosti).
Nicht ohne Grund: Die erste Dekade von Putins
Präsidentschaft waren vom Zweiten Tschetschenienkrieg und einer ganzen Reihe
größerer Anschläge geprägt. Die Anschläge auf Wohnhäuser 1999 mit unklarer
Urheberschaft – die ihm letztlich zur Präsidentschaft verholfen haben, indem
sie das Bild vermittelten, Russland brauche jetzt einen Mann mit starker Hand
an der Macht – waren nur der Beginn: Es folgten die Geiselnahme im Moskauer
Dubrowka-Theater, die Geiselnahme von Beslan, welche bis heute ein nationales
Trauma nicht unähnlich den Anschlägen vom 11. September in den USA ist, sowie
Anschläge in Moskauer und St. PetersburgerU-Bahnen. Der letzte große Anschlag
fand 2017 in der St. Petersburger Metro statt und kostete 14 Menschen das
Leben. Während anfangs die Anschläge vor allem im Kontext des
Tschetschenienkrieges und anderer Unabhängigkeitsbestrebungen im Nordkaukasus
stattfanden, gingen die späteren Angriffe vor allem auf das Konto verschiedener
Gruppen, die im Rahmen des globalen War on Terror bekämpft wurden. Putin gelang
es in dieser Zeit, sich als der starke Mann zu positionieren, der diesen Terror
bekämpft und Russland Stabilität und Sicherheit bringt. Zu diesem Zweck
„flirtete“ der Kreml auch immer wieder mit nationalistischen Strömungen und
Gruppierungen innerhalb Russlands, die den ohnehin schon breit verankerten
Rassismus gegen Personen aus dem Kaukasus und Zentralasien weiter befeuerten.
Die Situation heute ist anders: Die russische Gesellschaft
hat sich von der Gefahr des Terrorismus „entwöhnt“, im gewissen Sinne auch
entspannt. Der russische Angriffskrieg gegen die Ukraine (und laut dem
Kreml-Narrativ eigentlich gegen den gesamten Westen) ist eine nationale
Kraftanstrengung und bedarf einer maximalen Geschlossenheit der Gesellschaft
unabhängig der Ethnizität. Der jetzige Anschlag legt die innenpolitische
Überdehnung des Regimes offen: Seien es nur oberflächlich oder mit immenser
Gewalt gelöste Konflikte wie in Tschetschenien oder die Einsicht, dass Russland
durch sein Eingreifen im Syrien-Krieg immer mehr zur Zielscheibe radikaler
islamistischer Gruppierungen wie ISKP geworden ist.
Kein Staat kann sich komplett vor terroristischen Anschlägen
schützen. Entgegen der Vorstellung, dass Russland ein hochgradig effizienter
Polizeistaat sei, sind in Russland Korruption und Kriminalität zunehmend
verbreitet. Insbesondere seit Beginn des Krieges gibt es eine zunehmende Anzahl
an Waffen, die auf dem Schwarzmarkt zirkulieren. Die Sicherheitskräfte sind vor
allem mit dem Kampf gegen „innere Feinde“ beschäftigt, zu denen vor allem die
liberale Opposition gehört. Als extremistisch gelten hier zum Beispiel die
LGBT-Bewegung und die von Alexei Nawalny gegründete Stiftung für
Korruptionsbekämpfung (FBK). Eine auf Repression getrimmte Polizei kann zwar
friedliche Protestierende im Zentrum Moskaus verhaften, ist aber dadurch nicht
automatisch in der Lage, Anschläge vorzubeugen und abzuwehren. Diese
Priorisierung und zunehmende Ausrichtung der Sicherheitsbehörden auf die
Bewahrung der Regimestabilität und den Krieg in der Ukraine, koste es, was es
wolle, untergräbt gleichzeitig die innere Kohäsion und lässt sie schleichend
zerfallen.
Erst am Montagabend benannte Putin klar „radikale
Islamisten“ als Durchführer der Tat. Direkt im Anschluss stellte er aber die
Cui Bono?-Frage – und in der Logik des Regimes darf es keine andere Antwort als
die Ukraine geben. Während Putin und die russische Staatspropaganda fast schon
obsessiv versuchen, die Ukraine als Schuldigen auszumachen, wird in
nationalistischen Propagandakanälen auf die tadschikische Nationalität der
Beschuldigten verwiesen und Hass geschürt. In der Duma wurde das schnell
aufgegriffen: Nach ersten Forderungen am Tag nach dem Anschlag, die Einreise
von Migrantinnen und Migranten zu begrenzen, wurde am 25. März in einer
Arbeitsgruppe bereits darüber diskutiert, dass es in Russland
„ethnisch-nationale Enklaven“ gebe, bestehend aus Migrantinnen und Migranten
und Personen, die nicht seit Geburt die russische Staatsangehörigkeit hätten,
die ein „ernsthafter Faktor für die Destabilisierung der innenpolitischen Lage“
seien. Oppositionelle Medien berichten bereits über erste Übergriffe auf
Personen mit (vermeintlich) tadschikischer Staatsbürgerschaft oder Herkunft.
Dem Kreml können diese Entwicklungen eigentlich nicht
gefallen. Neben dem kolportierten Bild der nationalen Einheit im Krieg gegen
die Ukraine ist Russland vor allem auch wirtschaftlich auf Saisonarbeiterinnen
und Arbeitsmigranten vor allem aus Zentralasien angewiesen. Von daher ist davon
auszugehen, dass versucht werden wird, die öffentliche Debatte in eine andere
Richtung zu lenken und auf andere Art und Weise eine harte Reaktion zu zeigen.
Die inhumane und menschenrechtswidrige Erniedrigung und Zurschaustellung der
gefassten Attentäter, die Suche der Schuld beim Westen und der Ukraine sowie
der Ruf nach der Wiedereinführung der Todesstrafe werden daher die
Staatspropaganda vorerst dominieren.
Putin: der Präsident, der den Bürgerinnen und Bürgern
Stabilität und Sicherheit bringt – dieses Bild lässt sich immer schlechter
aufrechterhalten. Dieses auf Sicherheit getrimmte Regime hat es bisher
vermieden, den Trade-off zwischen innerer Sicherheit und der gleichzeitigen
Führung eines brutalen Angriffskrieges einzugehen. Die Rückkehr des Terrors
könnte diese Balance nun ins Wanken bringen. IPG 26.3.
Berlin. Koalition sagt Rassismus
den Kampf an. Grüne und Linke fordern mehr
Rassismus kann sich in vielen Formen zeigen und ist ein
gesellschaftliches Problem. Darüber sind sich die meisten Politiker im
Parlament einig. Bei einer Debatte zeigten sich aber auch Unterschiede - Gehört
Racial-Profiling verboten? Frauen mit Kopftuch in den Staatsdienst?
Die schwarz-rote Koalition in Berlin hat sich zu einem
entschlossenen Kampf gegen Rassismus und gegen Hass auf Menschen mit
ausländischen Wurzeln bekannt. „Wir müssen uns allen Formen von Rassismus
entgegenstellen“, sagte die Senatorin für Antidiskriminierung, Cansel K?z?ltepe
(SPD), am Donnerstag in einer Debatte im Abgeordnetenhaus. Denn Rassismus sei
keine Meinung, sondern eine Gefahr für die Demokratie.
„Berlin steht nicht für Hetze und Spaltung“, sagte
CDU-Fraktionschef Dirk Stettner. „Im Gegenteil brauchen wir ein breites Bündnis
für Toleranz, für Demokratie.“ Dafür sei im Abgeordnetenhaus geplant, eine
sogenannte Enquetekommission für gesellschaftlichen Zusammenhalt einzurichten.
Grüne fordern Absicherung von Projekten
„Es geht darum, uns zusammenzuhalten, egal ob wir hier
aufgewachsen oder hinzugekommen sind“, umriss Stettner die Arbeit der
Kommission. „Es geht darum, Diskriminierung und Rassismus zu bekämpfen und
Gemeinsamkeiten zu schaffen und diese zu stärken. Dafür müssen wir miteinander
darum ringen, was der beste Weg zum besten Zusammensein ist.“
Oppositionsfraktionen forderten von Schwarz-Rot mehr
Engagement gegen Rassismus. Die Sprecherin für Antidiskriminierung der
Grünen-Fraktion, Tuba Bozkurt, forderte die Absicherung von Projekten, die sich
viel zu oft unter Bedingungen der Selbstausbeutung der Arbeit gegen Rassismus
und Antisemitismus verschrieben hätten. Notwendig sei außerdem, einen
Beauftragten gegen Antiziganismus einzusetzen.
Linke: Rassismus auch in der Mitte
„Rassismus ist weit mehr als nur ein physischer An- oder Übergriff.
Angespuckt werden oder am Kopftuch gezogen werden, sind rassistische
Alltäglichkeiten für viele Menschen in unserer Gesellschaft“, sagte Bozkurt.
Racial Profiling sei rassistisch und müsse endlich abgeschafft werden. „Es ist
rassistisch begründet, dass eine kopftuchtragende Frau nicht in den
Staatsdienst treten kann. Es ist rassistisch begründet, dass schwarze Menschen
häufiger auf Drogenbesitz kontrolliert werden.“
Ähnlich argumentierte die Linke-Politikerin Elif Eralp.
„Rassismus ist weit verbreitet, und zwar nicht nur bei der extremen Rechten,
sondern auch in der Mitte der Gesellschaft“, beklagte sie. „Nicht nur in Form
von individuellem Rassismus, sondern auch in Form von institutionellem und
strukturellem Rassismus.“ Dagegen müsse entschieden vorgegangen werden.
„Stattdessen werden aber auch aus den Reihen dieser Koalition rassistische
Debatten befeuert“, meinte Eralp. Als Beispiele nannte sie Forderungen der CDU
nach mehr Abschiebungen und mehr Migrationsbegrenzung oder die geplante
Bezahlkarte für Geflüchtete.
Saleh: Nicht nur an Gedenktagen engagieren
Der SPD-Fraktionsvorsitzende Raed Saleh rief dazu auf, sich
nicht nur an Gedenktagen zu engagieren wie dem Internationalen Tag gegen
Rassismus, der Anlass der Parlamentsdebatte war. „Es braucht noch mehr als das:
Es braucht den täglichen Einsatz für die Demokratie“, sagte er. Der Kampf gegen
Rassismus und Rechtsextremismus sei eine gesamtgesellschaftliche Aufgabe, die
nicht von den Betroffenen alleine gestemmt werden könne. Das sei nur von der Gesellschaft
als ganzes zu leisten.
Wie Stettner verwies auch Saleh auf die Enquetekommission
als wichtigen Baustein. Er sprach sich außerdem erneut dafür aus, in der
Landesverfassung den Kampf gegen Antisemitismus und alle anderen Formen von
Rassismus zu verankern.
K?z?ltepe: „Wir sind hier und wir bleiben hier.“
Der AfD-Politiker Martin Trefzer sagte, manche Politiker
hätten das „Zerrbild eines von Rassismus zerfressenen Landes“ entworfen.
Inzwischen entstehe dadurch der Eindruck, als ob Deutschland ein Apartheidstaat
sei. Das sei aber mitnichten der Fall. Nach Meinung Trefzers ist ein „woker
Antirassismus“ verbreitet, der im Kern sage: „Weiße Menschen können nur Täter
sein, farbige Menschen können nur Opfer sein.“ Das sei absurd. Gleichwohl habe
sich diese Denkweise „mehr und mehr zu einer Ersatzreligion entwickelt“.
K?z?ltepe verurteilte unter Rechtsextremen diskutierte
Pläne, Menschen mit ausländischen Wurzeln zwangsweise aus Deutschland in andere
Staaten zu bringen. K?z?ltepe sprach von „Deportationsplänen“: „Das ist nicht
nur Rassismus, das ist ein neuer Faschismus.“ Die Politikerin verwies darauf,
dass im Senat drei Senatorinnen und Senatoren ausländische Wurzeln haben,
darunter sie selbst. „Wir sind hier und wir bleiben hier.“ (dpa/mig 25)
Kulturstaatsministerin Claudia Roth hat heute auf Einladung
des italienischen Kulturministers Gennaro Sangiuliano das Mausoleum der
Ardeatinischen Höhlen im Süden Roms besucht. Am 24. März 1944 wurden an diesem
Ort 335 italienische Zivilisten, darunter Partisanen,
antifaschistische Widerstandskämpfer und 75 Juden aus Italien und Europa, die
deportiert werden sollten, von der SS erschossen. Nach einer Führung durch die
Gedenkstätte legte Kulturstaatsministerin Roth einen Kranz zum Gedenken an die
Opfer nieder.
Bei ihrem Besuch in Rom erklärte Kulturstaatsministerin
Claudia Roth: „Ich stehe hier an diesem Ort voller Schmerz, voller Trauer,
voller Scham. Das Massaker in den Ardeatinischen Höhlen zeigt die ganze
Grausamkeit
und Brutalität der Besatzungsherrschaft des
nationalsozialistischen Deutschlands in Italien. Am 24.3.1944 – heute vor 80
Jahren – wurden hier 335 Menschen Opfer eines monströsen Verbrechens:
Zivilisten, Partisanen, Antifaschisten, Juden. Ein Verbrechen, das Teil einer
furchtbaren Spur moralischer und materieller Verwüstung ist, die das
nationalsozialistische Deutschland durch ganz Europa gezogen hat. Deutschland
ist sich seiner ganzen historischen Verantwortung gegenüber Italien und für
Europa heute bewusst. Es darf keinen
Schlussstrich geben – wir müssen und wir wollen erinnern.
Ein Erinnern für die Zukunft.
Es ist mir wichtig, heute in Rom an dieses schreckliche
Verbrechen zu erinnern – Seite an Seite mit meinem italienischen Amtskollegen.
Und es ist ein Zeichen europäischer Gemeinschaft und Stärke, dass Deutschland
und Italien an diesem Tag gemeinsam erinnern und gemeinsam trauern.
Denn die Erinnerung an das Massaker ist heute wichtiger denn
je. Das europäische Projekt, das mit Italien begründet wurde und ohne Italien
nicht möglich gewesen wäre, fußt auf dem gemeinsamen „Nie wieder“. „Nie
wieder“ ist ein Auftrag, den wir jetzt erfüllen müssen.
Gemeinsam müssen wir in Europa Antisemitismus, Rassismus, Muslimfeindlichkeit
und jede Form von gruppenbezogener Menschenfeindlichkeit entschieden bekämpfen.
Der 24.3. mahnt mich, mahnt uns Deutsche jeden Tag für unseren moralischen
Imperativ, den Artikel 1 unseres Grundgesetzes, einzutreten: Die Würde des
Menschen ist unantastbar, jedes Menschen. Diese Erinnerung ermahnt, zusammen
für eine Stärkung der Europäischen Union einzutreten, die auf der Idee einer
Friedensgemeinschaft freier und pluralistischer Demokratien
beruht. Dieses gemeinsame Europa, dessen Fundament die Grund- und
Menschenrechte sind, ist eine große Errungenschaft, ist unser großer Reichtum.
Das gemeinsame Erinnern für die Zukunft hier und heute ist deshalb ein
wichtiges Signal, ist Verantwortung und Verpflichtung.“
Anlässlich des Gedenktages besuchte Kulturstaatsministerin
Claudia Roth außerdem das Jüdische Viertel Roms. Nach einem Rundgang durch das
Viertel legte die Staatsministerin einen Kranz an der Gedenkplakette zur
Erinnerung an die Opfer der 1943 von der Besatzungsherrschaft des
nationalsozialistischen Deutschlands durchgeführten Razzia und Deportation
jüdischer Italienerinnen und Italiener nieder. Anschließend besuchte sie die
Synagoge sowie das Jüdische Museum Roms.
Am Abend wird Kulturstaatsministerin Claudia Roth an einem
Gedenkkonzert unter der Leitung von Riccardo Muti anlässlich des 80.
Jahrestages des Massakers in den Ardeatinischen Höhlen teilnehmen.
Link zur Meldung im Webangebot: https://www.bundesregierung.de/breg-de/aktuelles/kulturstaatsministerin-roth-zum-gedenken-an-die-opfer-des-massakers-in-den-ardeatinischen-hoehlen-in-rom-das-gemeinsame-erinnern-fuer-die-zukunft-heute-ist-ein-wichtiges-signal-fuer-ein-starkes-europa--2266970
pib 24.3.
Italienische Friedens-Bewegungen
unterstützen Papst-Appell zu Ukraine
Italienische Friedensbewegungen haben die jüngsten Worte des
Papstes zum Ukraine-Krieg unterstützt. Der Brief, der von Vertretern von 18
Friedensbewegungen unterzeichnet ist, wurde am Donnerstag veröffentlicht. Darin
danken Unterzeichner dem Papst dafür, dass er „offen über den Mut zur
Verhandlung“ rede und sprechen ihm ihr Mitgefühl für „all die opportunistische
Kritik" aus, die ihm entgegenschlage.
Seit jeher teilten sie seine Worte zum Frieden, insbesondere
die, die er mit Blick auf die Notwendigkeit zu Verhandlungen in dem jüngst
veröffentlichten Interview mit dem Schweizer Sender RSI gesagt habe, so die
Vertreter der verschiedenen italienischen Friedensbewegungen in ihrem Brief,
der zur Kenntnis auch an US-Präsident Joe Biden, den ukrainischen Präsidenten
Wolodymyr Selenskyj, die EU-Kommissionspräsidentin Ursula von der Leyen sowie
Bundeskanzler Olaf Scholz ging.
Statt Waffenlieferungen Verhandlungen ermöglichen
Bedauerlicherweise hätten in den vergangenen Tagen die
Regierungen von Gemeinschaften, „die in den russisch-ukrainischen Krieg
verwickelt“ seien, in einem „einstimmigen Chor“ die mahnenden Papstworte
Ermahnung „kritisiert und zurückgewiesen“, während sie es vorzögen, das
„,gemarterte ukrainische Volk‘ weiterhin zum Kampf bis zum letzten Mann
anzustacheln“ und es mit „immer ausgeklügelteren Waffen zu versorgen“.
Stattdessen sollten diese lieber für einen Waffenstillstand eintreten und die
„Bedingungen für gründliche Verhandlungen“ schaffen, die „die Gründe beider
Seiten untersuchen und zu einer gemeinsamen Lösung“ führen könnten, so die
Friedensaktivisten, die sich überzeugt davon zeigen, die Auffassung vieler
Bürger zu vertreten, die „angesichts der tragischen Ereignisse, die zu einer
unaufhaltsamen Eskalation des Krieges mit Zerstörung, Leid und Tausenden von
Toten führen, verzweifelt sind“.
In dem Interview, auf das sich die 26 Verfasser des Solidarschreibens
beziehen, hatte Franziskus mit Blick auf die Ukraine gesagt, es gelte, „Mut zur
Weißen Flagge“ zu zeigen und sich nicht dafür zu schämen, in Verhandlungen
einzutreten, „bevor es noch schlimmer wird“. Diese Worte wurden weithin als
Aufforderung zur Kapitulation der Ukraine verstanden und fuhren international
Kritik ein. In nachfolgenden Erklärungen hatten Vatikan-Vertreter wie
Kardinalstaatssekretär Parolin jedoch darauf hingewiesen, dass Verhandlungen
für den Papst keineswegs eine „Kapitulation“ darstellten, sondern die Bedingung
dafür, einen dauerhaften und gerechten Frieden zu schaffen. Bedingung für
Frieden sei allerdings auch „ein Ende der Aggression“.
(il fatto quotidiano 23.3.)
Die unbeabsichtigten Folgen der
Zeitenwende
Im Nebel des Krieges gibt es keine einfachen Lösungen,
sondern nur Risiken und Zielkonflikte. Tobias Fella & Cornelius Friesendorf
In der deutschen Debatte geht es bei der Frage, wie auf ein
revisionistisches Russland zu reagieren ist, vor allem darum, wie Abschreckung,
Verteidigung und die Unterstützung der Ukraine besser organisiert werden kann.
Das ist wichtig, um die Ukraine zu schützen und Russland von weiterer
Aggression abzuhalten. Allerdings berücksichtigt die Debatte eine mögliche
militärische Eskalation wie auch weitere unbeabsichtigte Folgen der Zeitenwende
zu wenig. Deutschland braucht eine breitere politische und öffentliche
Diskussion über Risikomanagement.
Das Gesetz der unbeabsichtigten Folgen besagt, dass jede
Handlung mehrere Effekte hat. Allerdings werden unbeabsichtigte Folgen
wahrscheinlicher, wenn bestimmte Bedingungen vorliegen. Unterstützer der
Ukraine sollten die beabsichtigten (positiven) Effekte von Strategien gegen
Russland gegen unbeabsichtigte (negative) Effekte abwägen. Schließlich gibt es
mindestens fünf Gründe, warum die Zeitenwende unbeabsichtigte Folgen hat oder
haben wird.
Erstens: Wenn die Unsicherheit groß ist, steigt die
Wahrscheinlichkeit unbeabsichtigter Folgen. Richtet Russlands Großmachtstreben
sich auch auf die baltischen Staaten oder die Moldau? Wann ist der Punkt
erreicht, an dem Putin die Stabilität des Regimes gefährdet sieht? Der Versuch,
Absichten aus der vergangenen russischen Politik oder vermuteten Interessen des
Kremls abzuleiten, ist problematisch. Einige Forschungsergebnisse lassen
Zweifel an Putins Rationalität aufkommen oder legen nahe, dass Russland
Statusgewinne höher gewichtet als Stabilität.
Zweitens: Putin ist entschlossen und in der Lage, einen
langen Krieg zu führen, während die Ukraine weiter um ihr Überleben kämpfen
wird. Ihre Unterstützer werden vermutlich Wege suchen und finden, um Kiew auch
im Falle einer zweiten Trump-Präsidentschaft mit Militärhilfe beizustehen. Sie
sollten das auch tun. Doch je länger der Krieg andauert, desto wahrscheinlicher
werden ungewollte Auswirkungen, weil es vermehrt zu Zwischenfällen kommen kann,
die außer Kontrolle geraten.
Drittens: Die geografische Nähe bringt Risiken mit sich.
Entlang der Ostgrenzen der NATO – beispielsweise im Ostseeraum – operieren
NATO-Truppen und russische Streitkräfte raumnah. Schon vor dem 24. Februar 2022
bestand die Gefahr, dass die Situation eskalieren könnte. Der Einmarsch
Russlands und die Reaktionen der NATO haben neue Eskalationsszenarien
geschaffen.
Viertens: Der Ukraine-Krieg findet in einem komplexen
internationalen System statt, und Systemeffekte entfalten sich nicht linear und
sind deshalb nicht berechenbar. Die westlichen Staaten stehen nicht nur
Russland gegenüber, sondern globalen Machtverschiebungen, Populisten im Inland
und dem Klimawandel. Die Unterstützung der Ukraine beeinflusst Möglichkeiten,
diesen und weiteren Herausforderungen zu begegnen.
Fünftens: Viele in der pro-ukrainischen Allianz sind
risikotolerant. Vor allem die militärisch exponierten östlichen NATO-Mitglieder
gehen davon aus, dass Russland nur Stärke versteht, und schließen daraus, sie
hätten bei einem vorsichtigen Risikomanagement mehr zu verlieren als zu
gewinnen. Litauen wollte den Transit russischer Güter nach Kaliningrad
blockieren und befürwortete Macrons Gedankenspiele, NATO-Bodentruppen in die
Ukraine zu schicken. In Deutschland werden Stimmen, die auf Risiken hinweisen,
nicht selten als Opfer Putinscher Angstmacherei bezeichnet. Der in der
deutschen Debatte gängige Begriff der „Selbstabschreckung“ verdeutlicht diese
Tendenz. Politiker scheuen eine breitere Debatte womöglich auch deswegen, weil
sie befürchten, dies könnte dazu führen, dass die Zustimmung für die
Unterstützung der Ukraine bröckelt, da die Wählerschaft die Kosten eines langen
Krieges vielleicht nicht akzeptiert.
Die genannten Faktoren können eine Vielzahl unbeabsichtigter
Folgen haben. Deutschland und seine Verbündeten sollten zumindest den folgenden
sechs nicht-intendierten Konsequenzen mehr Bedeutung beimessen. Zum einen
sollte genauer erörtert werden, welche Umstände zu einer militärischen
Eskalation führen könnten. Dass der Einsatz von Atomwaffen kein Hirngespinst
ist, unterstreichen aktuelle Berichte, wonach die US-Geheimdienste im Herbst
2022 die Wahrscheinlichkeit eines Einsatzes von Atomwaffen im Falle eines
ukrainischen Durchbruchs auf die Krim auf 50 Prozent schätzten.
Auch sollten die Opportunitätskosten einkalkuliert werden.
Die wirtschaftlichen Kosten des Krieges sind bereits jetzt enorm. Wenn sich der
Krieg in die Länge zieht, ist dies erst der Anfang. Wird in Abschreckung,
Verteidigung und die Unterstützung der Ukraine investiert, reduziert dies Investitionen
in Zukunftstechnologie oder öffentliche Infrastruktur. Die potenziellen
Profiteure sind der Wettbewerber China und – im deutschen Kontext – die AfD.
Außerdem lähmt die Konfrontation mit Russland multilaterale
Institutionen und damit einen wichtigen Multiplikator der deutschen
Außenpolitik. Die OSZE zum Beispiel hatte darunter zu leiden, dass Russland
wichtige Entscheidungen mit seinem Veto blockiert. Aus Kreml-Logik reagierte
Russland dabei auf den Versuch des Westens, Russland innerhalb der Organisation
zu isolieren. Zudem wird es immer komplizierter, in wichtigen Fragen
zusammenzuarbeiten. Das zeigt sich unter anderem daran, wie schwierig es
geworden ist, die sicherheitspolitischen Auswirkungen des Klimawandels im
Rahmen der OSZE zu thematisieren. Vereinbarungen zwischen der EU und Russland,
mit denen der grenzüberschreitenden Umweltverschmutzung begegnet werden sollte,
liegen auf Eis.
Die Debatte in Deutschland sollte auch die mögliche
Überforderung der EU stärker in den Blick nehmen. Die Ukraine wird weiter
enorme Summen an EU-Geldern für Stabilisierung und Wiederaufbau benötigen. Das
wird die Geschlossenheit einer EU, in der die Interessen zunehmend
auseinanderdriften, auf eine harte Probe stellen. Die größte Unbekannte ist
jedoch die Frage, ob die Ukraine den EU-Besitzstand umsetzen wird. Hat sich das
politische System der Ukraine so stark verändert, dass sie die personalisierte,
auf Seilschaften basierende Regierungsführung früherer Zeiten hinter sich
lassen kann? Forscher, die schon in der Vergangenheit auf eine solche
klientelistische Politik hingewiesen haben, hoben in jüngster Zeit den
Selenskyj-Effekt hervor – die transformative Kraft einer neuen Generation unter
einer neuen Führungsfigur. Der erfolgreiche Auf- und Ausbau demokratischer Institutionen
ist jedoch kein Selbstläufer, wie Berichte über fortbestehende autoritäre
Praktiken zeigen. Aufgrund ihrer Größe und der Erbschaften des Krieges wird die
Ukraine Probleme früherer EU-Erweiterungsrunden in den Schatten stellen.
Auch die unbeabsichtigte Stärkung der Autokratie ist Teil
der Zeitenwende. Die Bemühungen Deutschlands und anderer westlicher Staaten,
Russland zu isolieren, führen zu einem engeren Schulterschluss mit Autokratien.
Deutschland kauft beispielsweise mehr Öl und Gas von den Golfstaaten, und die
EU bezieht mehr Gas aus Aserbaidschan. Dadurch wird es für die EU schwerer,
Handelsabkommen an die Einhaltung der Menschenrechte zu knüpfen. Diese
Realpolitik nährt den Vorwurf, der Westen messe mit zweierlei Maß.
Schließlich kann die Kappung der Beziehungen zu Russland
dazu führen, dass sich die vom Kreml geschaffene Belagerungsmentalität in
Russland verfestigt. Die Bewohner der russischen Exklave Kaliningrad etwa
reisten früher häufig nach Polen und in andere Länder. Jetzt verbringen sie
mehr Zeit in anderen Teilen Russlands, während Polen seinen Grenzzaun mit
Kaliningrad verstärkt. Je mehr Russland von der Außenwelt abgeschnitten ist,
desto geringer werden langfristig die Aussichten, dass sich Alternativen zum
jetzigen revisionistischen Narrativ entwickeln.
Solange der Kreml weiter imperial handelt, werden
Abschreckung und Verteidigung gegen Russland richtigerweise die
sicherheitspolitische Praxis und die entsprechenden Diskurse der westlichen
Verbündeten bestimmen. Doch die Zeitenwende muss auch versuchen, katastrophale
unbeabsichtigte Folgen abzuwenden und diejenigen unbeabsichtigten Folgen, die
sich nicht vermeiden lassen, abzumildern. Risikomanagement hat nichts mit
Feigheit zu tun. Wie Risikomanagement konkret aussehen sollte hängt davon ab,
um welches Problem es geht. Was die militärische Eskalation betrifft, stehen
Befürworter eines schrittweisen Vorgehens wie Bundeskanzler Olaf Scholz massiv
in der Kritik. Zwar lassen sich die aktuellen Probleme der Ukraine auf dem
Gefechtsfeld auch dadurch erklären, dass nicht genug und nicht die richtigen
Waffensysteme geliefert wurden. Das Argument, das schrittweise Vorgehen trage
zur Eskalationsverhinderung bei, ist aber auch nicht von der Hand zu weisen.
Im Nebel des Krieges, im Kontext großer Unsicherheit, gibt
es keine einfachen Lösungen, sondern nur Risiken und Zielkonflikte. Deutschland
braucht eine politische und öffentliche Debatte über unbeabsichtigte Folgen der
Zeitenwende – eine Debatte, die sich auf Ungewissheiten und Komplexität einlässt
und in der die Beteiligten ihre Annahmen offenlegen und hinterfragen. Da der
von X und Talkshows geprägte Zeitgeist (pseudo-)markige Sprüche begünstigt,
wird das freilich ein schwieriges Unterfangen. IPG 22.3.
Vor 80 Jahren. Für jeden toten
Deutschen ermordeten NS-Besatzer zehn Italiener
Vor 80 Jahren verübten die deutschen NS-Besatzer eines ihrer
schlimmsten Massaker auf italienischem Boden. Der Opfer wird am Ort des
Verbrechens gedacht, in den Ardeatinischen Höhlen bei Rom. Aber nicht nur dort.
Von Almut Siefert
Vor dem Haus mit der Nummer 10 in der Via Angelo Berardi im
Südosten Roms ist eine quadratische Messing-Plakette in den Boden eingelassen.
Das Messing glänzt noch, der darauf geschriebene Name strahlt dem Fußgänger
hell entgegen. „Hier wohnte Carlo Camisotti“ steht auf dem Stolperstein,
„geboren 1902, verhaftet am 14.3.1944, getötet am 24.3.1944 in den Fosse
Ardeatine.“
Etwa fünf Kilometer Luftlinie entfernt findet man Carlo
Camisottis Namen erneut. Auf dem Steinsarg mit der Nummer 96, auf dem über
seinem Namen auch ein Foto prangt: Das dunkle Haar auf der Seite ordentlich
gescheitelt, die gestreifte Krawatte um den weißen Hemdkragen gebunden, die
Lippen zu einem zarten Lächeln geformt. Camisottis Sarg im Mausoleum der
Ardeatinischen Höhlen (italienisch: Fosse Ardeatine). Vor 80 Jahren haben die
deutschen Besatzer hier ein grauenvolles Massaker verübt.
Am 24. März 1944 töteten SS-Männer in den Höhlen 335 Jungen
und Männer – aus Rache. Einen Tag zuvor hatten italienische Widerstandskämpfer
in der Via Rasella in der Innenstadt von Rom einen Bombenanschlag verübt, bei
dem 33 Mitglieder eines deutschen Besatzungstrupps getötet wurden. Als
Vergeltung sollten für jeden getöteten Deutschen zehn Italiener hingerichtet
werden, am Ende wurden es sogar 335. Aus Gefängnissen wurden politische
Gefangene – Partisanen, Kommunisten, Antifaschisten – geholt. Hinzu kamen 75
Juden, die eigentlich in Vernichtungslager deportiert werden sollten.
Jahrzehnte unentdeckt in Argentinien gelebt
Organisiert wurde das Massaker von SS-Kommandant Herbert
Kappler und SS-Hauptsturmführer Erich Priebke. Kappler wurde später in Rom zu
lebenslanger Haft verurteilt. Am 15. August 1977 gelang ihm mithilfe seiner
Frau die Flucht nach Deutschland. Der „Henker von Rom“ starb ein halbes Jahr
später im niedersächsischen Soltau an Krebs.
Priebke wurde erst 1998 in Rom verurteilt. Er hatte
Jahrzehnte lang unentdeckt in Argentinien gelebt. Trotz Verurteilung musste er
nie ins Gefängnis, sein Gesundheitszustand verhalf ihm zum gelockerten Hausarrest.
2013 starb er im Alter von 100 Jahren. Reue zeigte er nie.
Nur wenige Gehminuten entfernt von dem Haus, in dem Carlo
Camisotti lebte, stolpert man erneut. Vor einem Hoftor in der Via Capua 54
erinnert eine weitere Messing-Plakette im Boden an eines der Opfer des
Massakers: Paolo Angelini. Er und Camisotti gehörten zu einer Gruppierung der
Kommunistischen Partei, die im damaligen 8. Bezirk von Rom operierte, einer
Hochburg der Partisanen, die gegen die deutschen Besatzer kämpften. Auf der
Scheibe finden sich dieselben Daten, wie auf jener, die an Camisotti erinnert:
„verhaftet am 14.3.1944, getötet am 24.3.1944 in den Fosse Ardeatine.“ Sein
Steinsarg im Mausoleum der Ardeatinischen Höhlen ist nur wenige Meter von dem
seines Kameraden entfernt, er trägt die Nummer 140.
Durch Genickschüsse getötet
Nach der Absetzung und Festnahme des faschistischen
Diktators Benito Mussolini durch König Viktor Emmanuel III. hatte Italien im
Zweiten Weltkrieg die Seiten gewechselt. Die deutsche Wehrmacht besetzte das
Land daraufhin von September 1943 bis zur Kapitulation in Norditalien am 2. Mai
1945. Der 8. Bezirk von Rom, heute der 5., war für die Besatzer von enormem
strategischem Interesse. Die Via Casilina, die zwischen dem Haus von Camisotti
und dem von Angelini verläuft, stellte die Hauptversorgungslinie für die Front
der Deutschen an der sogenannten Gustav-Linie dar, die etwa 100 Kilometer
südlich von Rom verlief.
Camisotti und Angelini wurden verhaftet, während sie mit
anderen auf dem Weg zu einem italienischen Offizier waren, der im Dienste der
SS stand. Er war für zahlreiche Verhaftungen in ihrem 8. Bezirk verantwortlich.
Das Ziel der Gruppe: ihn töten. Sie wurden erkannt, verhaftet und kamen ins
Gefängnis.
Zehn Tage später zählten die beiden Männer zu jenen 335, die
auf Lastwagen zu den Tuffsteinhöhlen an der Via Ardeatina gefahren wurden. In
Fünfergruppen führten ihre Mörder sie in das stillgelegte Bergwerk, ihre Hände
waren auf dem Rücken gefesselt. Sie mussten sich niederknien und wurden durch
Genickschüsse getötet. Mehr als fünf Stunden dauerte das Grauen. Dann wurden
die Höhlen gesprengt, die Getöteten darin begraben.
„Nur weil sie Italiener waren“
Kurz nach der Befreiung Roms im Juni 1944 begann man, die
Leichen der Opfer auszugraben und zu identifizieren. 1949 wurde die
Gedenkstätte eingeweiht.
Jedes Jahr wird dort der Getöteten gedacht. Zum 80.
Jahrestag ist Kulturstaatsministerin Claudia Roth (Grüne) von ihrem
Amtskollegen Gennaro Sangiuliano eingeladen worden. Der parteilose Politiker
steht den Fratelli d’Italia von Ministerpräsidentin Giorgia Meloni nah. Die
Partei ist die Nachfolgerin des Movimento Sociale Italiano (MSI), in dem sich
nach dem Zweiten Weltkrieg Sympathisanten und Gefolgsleute Mussolinis
versammelten.
Gerade an Tagen wie dem 24. März wird genau geschaut, wie
sich die Repräsentanten der rechtsnationalen Regierungspartei äußern. 2023
erntete Meloni heftige Kritik für ihr Statement. „335 unschuldige Italiener
wurden niedergemetzelt, nur weil sie Italiener waren“, sagte sie. Dass die
Opfer Antifaschisten, Partisanen und Juden waren – darüber verlor sie kein
Wort. (epd/mig 22.3.)
Der Europarat wacht über die Einhaltung von Demokratie und
Menschenrechten. In diesem Jahr steht er an einem Scheideweg. Ingmar Naumann
Die Wahl zum Europäischen Parlament findet im Juni statt.
Doch in den weitläufigen Hallen des Straßburger Europapalastes, die von den
geschwungenen Holzkonstruktionen der 1970er Jahre geprägt sind, treten drei
weitere Schlüsselfiguren ins Rampenlicht: Didier Reynders, Alain Berset und
Indrek Saar. Ihre Kandidaturen für das Amt des Generalsekretärs des Europarates
könnten das Zünglein an der Waage sein, das bestimmt, wie Regierungen und
europäische politische Parteien in diesem Jahr Schlüsselpositionen besetzen und
die Rolle der Organisation auf der europäischen und internationalen Bühne
gestalten.
Verkannt und chronisch unterschätzt, steht der Europarat –
eine von der Europäischen Union (EU) völlig unabhängige internationale
Organisation – bis heute im Schatten seiner Namensvetter, dem Europäischen Rat
(bestehend aus den Staats- und Regierungschefs der EU-Länder) und dem Rat der
EU (bestehend aus den Ministerinnen und Ministern der nationalen Regierungen
der EU). Im Mai 1949 gegründet, war er die erste europäische
Nachkriegsorganisation. Heute zählt er 46 Mitglieder: Alle EU-Mitgliedstaaten
sowie alle europäischen Flächenstaaten, einschließlich der Türkei, gehören dem
Europarat an, mit den Ausnahmen Belarus und Kosovo. Trotz seiner historischen
Bedeutung und der Schaffung bahnbrechender Standards wie der Europäischen
Menschenrechtskonvention, die einen umfassenden Katalog grundlegender
Menschenrechte in den Mitgliedsstaaten verankert und eine einzigartige
Klagemöglichkeit geschaffen hat, sah er sich in den letzten Jahren einem
schwindenden Einfluss und wachsender Kritik ausgesetzt. Als „zahnloser Tiger“
verspottet, schien er vor allem gegenüber der EU ins Hintertreffen zu geraten.
Doch Russlands Einmarsch in die Ukraine und die dadurch
ausgelöste Zeitenwende haben den Europarat wieder ins Rampenlicht der
internationalen Politik gerückt. Der beispiellose Ausschluss Russlands aus der
Organisation im März 2022 war eine unmissverständliche Botschaft an die Welt:
Der Europarat ist entschlossen, seine Grundprinzipien zu verteidigen. Das
politische Erdbeben hat der Bedeutung dieser Organisation neue Dringlichkeit
verliehen und sie als unverzichtbares Dialogforum für die Ukraine, den
Westbalkan und den Kaukasus positioniert.
Die Beziehungen zwischen der EU und dem Europarat gleichen
einem anspruchsvollen Tanz auf hohem, aber unterschiedlichem diplomatischem
Parkett. Der Europarat, der ältere und erfahrenere Tänzer, rühmt sich zu Recht
seiner Unabhängigkeit und seines reichen Repertoires an Maßnahmen zum Schutz
der Menschenrechte, zur Förderung der Rechtsstaatlichkeit und zur Stärkung der
Demokratie. Er hat zwar weder Souveränitätsrechte noch Gesetzgebungskompetenzen,
ist aber unangefochtener Meister im Verfassen von Konventionen, die wiederum
von den Mitgliedstaaten ratifiziert werden müssen. Die EU, der jüngere und
dynamischere Partner, bewegt sich mit wirtschaftlicher und politischer Kraft.
In dieser Choreografie muss sich der Europarat oft der dominanten Führung der
EU beugen – so scheint es auf den ersten Blick. Eine feine Pointe: Die EU,
deren Handlungsspielraum durch den Vertrag von Lissabon erweitert wurde, beruft
sich regelmäßig auf gemeinsame Standards und nutzt Einhaltungs- und
Kontrollmechanismen wie die Wahlbeobachtung durch den Europarat. So liefert der
Europarat die Normen und Standards, während die EU ihre politische und
wirtschaftliche Macht nutzt, um sie in ihren Außenbeziehungen durchzusetzen.
Der Europäische Gerichtshof für Menschenrechte (EGMR) in
Straßburg strahlt wie ein Juwel der Rechtsstaatlichkeit, auch wenn er mit
Tausenden von Fällen überlastet ist. Entgegen der landläufigen Meinung ist der
Gerichtshof ein scharfes Schwert im Arsenal des Europarates, der als bestallter
Hüter und Siegelwahrer der Menschenrechte in Europa fungiert. Die Schärfe
seiner Klinge zeigt sich darin, dass alle 46 Mitgliedstaaten die Europäische
Menschenrechtskonvention ratifiziert haben, was bedeutet, dass die Urteile des
Gerichtshofs für alle diese Staaten und Regierungen bindend sind. Ein
eindrucksvolles Beispiel ist das „Big Brother Watch“-Urteil von 2021 gegen das
Vereinigte Königreich. Darin stellte der Gerichtshof fest, dass die
Massenüberwachung durch den britischen Geheimdienst gegen das Recht auf
Privatsphäre und Meinungsfreiheit verstößt. Das Urteil hatte weitreichende
Folgen für die Überwachungspraxis in Europa und setzte neue Maßstäbe für das
empfindliche Gleichgewicht zwischen nationaler Sicherheit und bürgerlichen
Freiheiten. Der vermeintlich „zahnlose Tiger“ entpuppt sich im Zweifel als
wehrhafter Hüter der Menschenrechte. Die langjährigen Drohungen der Hardliner
in der Tory-Partei des britischen Premierministers Rishi Sunak, den Europarat
verlassen zu wollen, bestätigen daher eher dessen tagespolitische Wirkmacht.
Doch der Europarat sieht sich im aktuellen politischen
Gezeitenwechsel mit einem schwindenden Respekt für demokratische Regeln und
rechtsstaatliche Prinzipien konfrontiert. Dies zeigt sich, wenn Mitgliedstaaten
Empfehlungen schlicht ignorieren, Untersuchungen zur Menschenrechtslage aktiv
behindern oder Urteile des Menschenrechtsgerichtshofs einfach nicht umsetzen.
Ein Blick auf Länder wie Ungarn, die Türkei und bis vor kurzem auch Polen
vermittelt ein eindringliches Bild der Problematik. Dabei stellen sich neben
vielen praktischen auch grundsätzliche Fragen: Wie viele Verstöße gegen die
Normen und Regeln der Organisation können toleriert werden, ohne die
Glaubwürdigkeit des Europarates zu untergraben?
Inmitten dieser Turbulenzen wird in diesem Jahr ein neuer
Generalsekretär des Europarates von der Parlamentarischen Versammlung gewählt.
Seit 2019 bekleidet die Kroatin Marija Pej?inovi? Buri? das Amt, in dem sie für
die Außenvertretung, die strategische Planung, das Arbeitsprogramm und den
Haushalt des Europarates zuständig ist. Drei Kandidaten haben nun ihren Hut in
den Ring geworfen: der belgische EU-Justizkommissar Didier Reynders, der
ehemalige Schweizer Bundespräsident Alain Berset und der ehemalige estnische
Kulturminister Indrek Saar. In einem nächsten Schritt wird das Ministerkomitee
die Kandidaten befragen und eine Empfehlung an die Parlamentarische Versammlung
aussprechen.
Andere wichtige Weichen für die Zukunft des Europarates
wurden bereits im Januar 2024 gestellt: Im zweiten Wahlgang wählte die
Parlamentarische Versammlung den Iren Michael O'Flaherty zum neuen
Menschenrechtskommissar und den Griechen Theodoros Rousopoulos zum neuen
Präsidenten der Parlamentarischen Versammlung, der in seiner Antrittsrede
deutlich machte, dass neben der Ukraine und der Aufarbeitung der dort
begangenen Verbrechen die Erhöhung der Sichtbarkeit der Organisation oberste
Priorität haben werde.
Die Wahl des Generalsekretärs im Juni und sein Amtsantritt
im September 2024 sind weit mehr als Formalitäten – sie werden die Zukunft des
Europarates entscheidend prägen. In einer Zeit, in der autoritäre Regime auf
dem Vormarsch sind und die Pfeiler von Demokratie und Menschenrechten ins
Wanken geraten, muss der Europarat den Anspruch erheben, mehr zu sein als ein
symbolisches Bollwerk. Er steht vor der Aufgabe, sich als unverzichtbare
Bastion im Kampf für Menschenrechte und Demokratie zu behaupten und seine
strategische Bedeutung zu erhöhen. Doch wie kann das gelingen?
Eine Antwort könnte in der sich rasant entwickelnden
Digitalisierung liegen, bei der der Europarat bereits eine wichtige Rolle
spielt. Durch die Überarbeitung der Datenschutzkonvention stellt er sicher,
dass moderne Probleme wie Big Data und KI-gestützte Überwachungssysteme
angegangen werden, um die Privatsphäre und die Grundrechte der Bürgerinnen und
Bürger zu schützen. Die Organisation steht auch kurz vor dem Abschluss der
Verhandlungen über eine KI-Konvention, die sicherstellen soll, dass der Einsatz
von KI sowohl im öffentlichen als auch im privaten Sektor transparent und den
Menschenrechten verpflichtet ist. Ein weiteres Beispiel ist die Anpassung
an neue Formen der Cyberkriminalität. Angesichts zunehmender Cyber-Angriffe auf
kritische Infrastrukturen muss er Rahmenbedingungen schaffen, die den
Mitgliedstaaten helfen, ihre digitalen Verteidigungsstrategien unter Wahrung
der Bürgerrechte zu stärken. Es liegt auf der Hand, dass diese hochkomplexen
Aufgaben und die koordinierte Zusammenarbeit der verschiedenen Organe eine
entsprechende finanzielle Ausstattung erfordern, an der es derzeit
offensichtlich mangelt.
2024 wird zweifellos ein entscheidendes Jahr für den
Europarat. Auch wenn die Wahl des neuen Generalsekretärs weniger Aufmerksamkeit
auf sich ziehen dürfte als die Wahl des Europäischen Parlaments im gläsernen
Nachbargebäude, ist sie doch von immenser Bedeutung. Wie und mit welchen
Maßnahmen der neue Generalsekretär den enormen Herausforderungen der Gegenwart
begegnen wird, entscheidet nicht nur über die Zukunft der Organisation, sondern
hat potenziell weitreichende Auswirkungen auf die gesamte politische
Entwicklung Europas. IPG 22.3.
Religionsmonitor. Die meisten
Deutschen solidarisch mit Flüchtlingen
Dem neuen Religionsmonitor zufolge stärkt Religion den
gesellschaftlichen Zusammenhalt. Sie kann zu einer besseren
Gemeinwohlorientierung beitragen und Brücken zwischen Menschen bauen - auch
gegenüber Geflüchtete. Allerdings: Muslime sind eher mit Syrern solidarisch,
Christen mit Ukrainern.
Die Spendenbereitschaft und das freiwillige soziale
Engagement der Deutschen ist einer neuen Studie zufolge hoch. „Wir sind
solidarischer, als wir denken!“, heißt es in einem Gastbeitrag der Leiterin des
Religionsmonitors der Bertelsmann Stiftung, Yasemin El-Menouar, in der
Wochenzeitung „Die Zeit“. Der neue Monitor soll am Donnerstag vorgestellt
werden.
Die Gesellschaft verfügt der Soziologin El-Menouar zufolge
über stabile „Solidaritätsressourcen und ist weit hilfsbereiter, als es uns
aktuelle Debatten über ein soziales Auseinanderdriften und ein Zerbrechen des
Zusammenhalts glauben machen“. Dabei wirke Religion als einer der wichtigsten
positiven Faktoren. „Man kann sagen: Der Glaube fördert solidarisches
Verhalten“, so die Forscherin.
So ist die große Mehrheit der Deutschen weiterhin bereit,
Geflüchtete zu unterstützen. Insgesamt wollten 73 Prozent der Befragten
geflüchteten Syrern helfen und 79 Prozent geflüchteten Ukrainern, schreibt
El-Menouar in der „Zeit“. Allerdings falle auf, dass die Helfer besonders gern
jene unterstützten, die ihnen kulturell nahestehen, fügte die Forscherin hinzu:
„82 Prozent der Christen würden gern Ukrainern helfen, 88 Prozent der Muslime
gern Syrern.“
Wenig Vertrauen in Mitmenschen
Allerdings haben laut Studie trotz weitverbreiteter
Hilfsbereitschaft in Deutschland fast die Hälfte der Bürger (48 Prozent) wenig
Vertrauen in ihre Mitmenschen: „55 Prozent glauben, wer Rücksicht auf andere
nehme, ziehe den Kürzeren.“ Auffällig sei das deutlich geringere soziale
Vertrauen in der muslimischen Bevölkerung, was sich aus ihrer Benachteiligung
erklären könnte, so Studienleiterin El-Menouar: „Je häufiger Musliminnen und
Muslime Diskriminierung erleben, desto größer ihr Misstrauen.“
Hilfsbereitschaft wird der Studie zufolge besonders von
religiösen Menschen vorgelebt. El-Menouar: „Während sich unter den
Konfessionslosen lediglich 17 Prozent ehrenamtlich engagieren, sind es unter
den religiös Gebundenen mit 31 Prozent nahezu doppelt so viele.“ Überraschend
sei vor allem die sehr hohe Gesamtzahl der spendenbereiten Bürger, hieß es. Bei
den religiös Gebundenen liege der Anteil derer, die im Jahr 2022 gespendet
haben, mit rund 70 Prozent deutlich über dem Anteil bei den Nichtreligiösen (59
Prozent).
Einfluss der Religion auf Solidarität
Die neue Bertelsmann-Studie basiert den Angaben zufolge auf
einer repräsentativen Befragung von knapp 11.000 Menschen in Deutschland sowie
dem Vergleich mit sechs anderen Ländern. Unter dem Titel „Ressourcen für
Solidarität“ werde untersucht, wie solidarisch die Deutschen sind und welchen
Unterschied Religion hierbei macht.
Bereits die Ende vergangenen Jahres vorgestellte jüngste
Kirchenmitgliedschafts-Untersuchung (KMU) hatte eine ähnliche Tendenz. Die
Untersuchung zeigte, dass 49 Prozent der Katholischen und 46 Prozent der
Evangelischen sich in irgendeiner Weise ehrenamtlich engagieren. Bei den
Konfessionslosen waren es den Angaben zufolge 32 Prozent. Ob sich jemand
ehrenamtlich engagiere, auch außerhalb der Kirche, wird danach zu ganz
erheblichen Teilen durch kirchliche Religiosität bestimmt. (epd/mig 22.3.)
Fachkräftemangel bedroht den
deutschen Wohlstand – Lösungswege führen nach Europa
Die bislang immer noch vollkommen unterschätzten
wirtschaftlichen, aber auch gesellschaftlichen Auswirkungen des
Fachkräftemangels sowie Lösungsansätze aus einer gesamteuropäischen Perspektive
heraus sind die Kernthemen des neuen Buchs „Wohlstandskiller Fachkräftemangel!
Endlich europäisch denken und handeln!“ von Philipp Erik Breitenfeld, das am
10. April bei Books on Demand erscheint.
Der Autor, Speaker und Unternehmer beschäftigt sich seit
über 20 Jahren mit dem deutschen Arbeitsmarkt und der Rekrutierung von
Arbeitskräften. Als CEO der Humanus Personalservice GmbH hat er in den
vergangenen 10 Jahren mit seinen inzwischen 650 Mitarbeitern über 3.600
Fachkräfte aus dem EU-Ausland in den deutschen Arbeitsmarkt integriert. „Wenn
wir nicht in der Lage sind, den Fachkräftemangel zu beheben, ist unsere
deutsche Wohlstandsgesellschaft ernsthaft bedroht“, diagnostiziert Breitenfeld
und fordert zum Umdenken auf. Mit seinem neuen Werk liefert er ein fundiertes
Plädoyer für die Nutzung europäischer Talente, um den Wirtschaftsstandort
Deutschland zu retten.
„Wohlstandskiller Fachkräftemangel!“ ist aufrüttelndes Werk
und faszinierende Lektüre für Politiker, Wirtschaftsführer und Unternehmer
sowie alle Menschen, die sich Gedanken um die Arbeitswelt von morgen und den
sozialen Zusammenhalt in unserer Gesellschaft machen. Denn Arbeit ist nach wie vor
Motor und gleichzeitig sozialer Kitt für das Zusammenleben in unserem Land, das
immer noch eine der führenden Wirtschaftsnationen der Welt ist. Aber diese
Position ist nachhaltig gefährdet.
Durch sorgfältige Analyse und konkrete Strategien zeigt
Philipp Erik Breitenfeld Wege weg von nationalen Engpässen und hin zu einer
grenzüberschreitenden Talentmobilität. Von denen nicht nur deutsche Unternehmen
profitieren werden, sondern die den Wirtschaftsstandort nachhaltig stärken und
erneut zu einem Vorbild mit vielen positiven Effekten für die europäischen
Nachbarn machen.
„Der demografische Wandel bedroht insbesondere den deutschen
Mittelstand und viele Wirtschaftszweige. Dieses Buch bietet wertvolle
Einsichten und Handlungsempfehlungen.“ Der Unternehmer und Personal-Experte
Prof. Dr. Jörg Knoblauch spricht in seinem Vorwort auch über seine Überzeugung,
dass man über nationale Grenzen hinausblicken muss, um den Fachkräftemangel zu
bekämpfen. Sein Fazit: „In diesem Buch werden mentale und praxisnahe Lösungsansätze
präsentiert, die auf Empathie und interkultureller Kompetenz aufbauen. Es ist
ein dringend benötigter Beitrag, um weiterhin erfolgreich arbeiten und den
hohen Lebensstandard unserer Gesellschaft erhalten zu können.“
Bibliographische Angaben. „Wohlstandskiller
Fachkräftemangel! Endlich europäisch denken und handeln!“
© 2024 Philipp Erik Breitenfeld, Verkaufspreis: 29,80 €,
Humanus Personalservice GmbH https://www.high-speed-recruiting.de
Markus Coenen 21.3.3
* Rechte Parteien im Aufwind, aber keine populistische Welle
* Wahlerfolge für Le Pen, Meloni und Wilders in Sicht
* EVP-Fraktion klar vorne, keine Mehrheit ohne große
Koalition
* Prognose für Deutschland: Grüne verlieren, AfD und BSW
legen zu
Hamburg – Die vermehrten Erfolge der politischen Rechten bei
einer Reihe von nationalen Wahlen, hat viele Analysten dazu veranlasst, einen
Rechtsruck bei den bevorstehenden Europawahlen vorauszusagen, die vom 6. bis 9.
Juni 2024 abgehalten werden. Vor diesem Hintergrund hat Euronews das Markt- und
Meinungsforschungsinstitut Ipsos damit beauftragt, drei Monate vor den
EU-Wahlen eine Prognose über die Zusammensetzung des nächsten Europäischen
Parlaments zu erstellen, um ein klareres und objektiveres Bild der aktuellen
Situation zu erhalten.
Es ist das erste Mal, dass eine Hochrechnung zur EU-Wahl auf
der Grundlage von parallel durchgeführten nationalen Befragungen von ein und
demselben Meinungsforschungsinstitut umgesetzt wurde. Hierfür hat Ipsos in den
18 bevölkerungsreichsten Ländern der Europäischen Union über 25.000
wahlberechtigte Personen zu ihrer Wahlabsicht befragt. Die Ergebnisse sind
repräsentativ und bilden rund 96 Prozent der EU-Bevölkerung und 89 Prozent der
Europaabgeordneten ab.
Zugewinne für rechte Fraktionen, aber keine populistische
Welle
Die Wahlprognose zeigt, dass die beiden rechtspopulistischen
bzw. nationalistischen Fraktionen nach aktuellem Stand an Boden gewinnen
würden: Die Fraktion Identität und Demokratie (ID), zu der auch die AfD gehört,
würde 81 Abgeordnete stellen (bislang 59). Die Fraktion der Europäischen
Konservativen und Reformer (ECR), deren größte Partei bislang die polnische PiS
ist, würde von 68 auf 76 Sitze anwachsen.
Insgesamt würden diese beiden rechten Fraktionen nun mehr
als ein Fünftel (21,8 %) aller gewählten Abgeordneten des EU-Parlaments
stellen, ein neuer Rekord: 2019 lag dieser Wert noch bei 18 Prozent, 2014 bei
15,7 Prozent, 2009 bei 11,8 Prozent und 2004 nur bei 8,7 Prozent. Trotz dieses
deutlichen Anstiegs ist der rechte Flügel aber noch weit davon entfernt, das
Europäische Parlament zu dominieren.
Die Zugewinne für die radikale Rechte hängen u. a. mit dem
sehr guten Ergebnis des französischen Rassemblement National (28 Sitze, +10),
dem Aufstieg der deutschen AfD (15 Abgeordnete, +6) und den Umfrageerfolgen von
Geert Wilders PVV in den Niederlanden (9 Sitze, +9) zusammen. Der Stimmengewinn
ist jedoch kein einheitliches Phänomen in ganz Europa. In Italien z. B.
stagnieren die Rechten: Die Partei Fratelli d'Italia von Ministerpräsidentin
Giorgia Meloni legt zwar stark zu (24 Sitze, +14), aber hauptsächlich auf
Kosten der ebenfalls nationalistischen Lega von Matteo Salvini (7 Abgeordnete,
-16). Und in Polen ist die PiS-Partei, die bei den Parlamentswahlen 2023 die
Macht verloren hat, stark rückläufig (16 Sitze, -11).
Nur große Koalition würde Mehrheit im EU-Parlament erreichen
Der Vormarsch nationalistischer Parteien würde das Zentrum
des nächsten Europäischen Parlaments zwar leicht nach rechts verschieben, aber
das grundlegende Gleichgewicht nicht verändern. Nur eine große Koalition,
bestehend aus Abgeordneten der bürgerlich-konservativen Europäischen
Volkspartei (EVP), der Sozialdemokraten (S&D) und der Fraktion "Renew
Europe", die liberale und zentristische Parteien vereint, würde eine
Mehrheit der Sitze gewinnen (398 von 720). Während die Werte für die EVP- (177
Sitze, -1) und S&D-Fraktion (136 Abgeordnete, -4) recht stabil sind, müssen
die Liberalen mit starken Verlusten rechnen (85 Sitze, -17).
Die Fraktion der Grünen/EFA, die häufig den vom Parlament
angenommenen Texten zustimmt, wird wahrscheinlich ebenfalls viele Sitze
verlieren (55, -17) und würde damit ihr Rekordergebnis von 2019 nicht
bestätigen.
Alternative Koalitionen wären wahrscheinlich nicht auf Dauer
tragfähig. Eine Mitte-Rechts-Koalition (EVP, Renew, ECR) hätte mit nur 338 von
720 Abgeordneten keine Mehrheit im Europäischen Parlament. Eine Rechtskoalition
(EVP, ID, ECR), würde laut Prognose 334 Sitze erhalten.
CDU/CSU als stärkste nationale Delegation gleichauf mit Le
Pen
Die beiden traditionell größten Fraktionen im Europäischen
Parlament, die EVP und die S&D, würden insgesamt nur 313 Abgeordnete (43,5
% der Gesamtzahl) stellen; der niedrigste Wert seit 1979. Obwohl die
CDU/CSU-Gruppe mit 28 deutschen Europaabgeordneten weiterhin die stärkste
nationale Delegation im nächsten EU-Parlament stellen könnte, liegt sie in der
aktuellen Ipsos-Prognose inzwischen nur noch gleichauf mit dem französischen
Rassemblement National. Bestätigt sich dieser Trend bei den Wahlen im Juni,
könnte zum ersten Mal eine Rechtsaußenpartei die größte Delegation im
Europäischen Parlament bilden.
Wahlprognose für Deutschland: Grüne verlieren, AfD und BSW
legen zu
Der Blick auf die Wahlabsichten der deutschen Bevölkerung
bei der Europawahl zeigt ebenfalls deutliche Verschiebungen. Die Union würde
ihr Ergebnis vom Jahr 2019 mit 29 Prozent der Stimmen in etwa halten (28 Sitze,
-1), ebenso wie die SPD, die bei 17 Prozent liegt und mit 16 Europaabgeordneten
(±0) rechnen kann. Für die Grünen und die AfD würden sich 16 Prozent der
Wahlberechtigten entscheiden, was jeweils 15 Sitzen im EU-Parlament entspricht.
Während die Grünen jedoch 6 Sitze im Vergleich zur letzten EU-Wahl verlieren
würden, gewinnt die AfD nach jetzigem Stand 4 Abgeordnete hinzu. Das Bündnis
Sahra Wagenknecht (7 %) würde aus dem Stand 7 Europaabgeordnete stellen. Die
FDP (4 %) und die Linke (4 %) würden jeweils einen Sitz verlieren (4 Sitze,
-1), während die Freien Wähler (3 %) mit 3 Abgeordneten vertreten wären (+1).
Ipsos 20.3.
Mit der Wahl ohne Wahl wollte Moskau den Kriegskurs
legitimieren. Was folgt nun in Russland? Ruslan Suleymanov
Es waren markige Worte nach dem Triumph: „Wir werden über
die Zukunft unseres großartigen Heimatlandes nachdenken, über die Zukunft
unserer Kinder. Wenn wir danach handeln, sind wir mit Sicherheit zum Erfolg
verdammt!“ Wladimir Putin ließ sich bei seiner Rede nach der Wahl zum
Präsidenten am 18. März 2018 feiern. Danach erlebte Russland sehr
unterschiedliche Ereignisse. Im selben Jahr waren viele russische Metropolen
erfolgreiche Austragungsorte der Fußball-Weltmeisterschaft. 2020 entließ Putin
seinen treuesten Schützling, Premierminister Dmitri Medwedew. Danach kam es zu
umfangreichen Verfassungsänderungen, die es ihm überhaupt erst ermöglichten,
2024 erneut Präsident zu werden.
Parallel zeigte sich zunehmend die dunkle Seite des neuen
Russlands. In denselben sechs Jahren begann der russische Staat, unabhängige
Journalisten und Persönlichkeiten des öffentlichen Lebens fleißig mit dem
Stempel „ausländischer Agent“ zu brandmarken. Auf dieser Liste stehen heute
mehr als 300 Personen, die nach einem neuen Gesetz nicht einmal mehr mit
Werbetreibenden zusammenarbeiten dürfen. Putins wichtigster politischer Gegner
Alexej Nawalny wurde im August 2020 vom russischen Geheimdienst mit dem
Nervengift Nowitschok vergiftet. Nach einer Behandlung in Deutschland und
seiner Rückkehr im Januar 2021 wurde er wegen fiktiver Kriminalfälle
inhaftiert.
Doch das war noch nicht das wichtigste und blutigste
Ereignis in Putins vergangener Amtszeit. Der 24. Februar 2022 wurde zum
geschichtlichen Ereignis, als der Kremlchef eine umfassende Militärinvasion in
die benachbarte Ukraine startete. Hunderttausende Menschen sind in diesem Krieg
inzwischen gestorben, ein Ende ist nicht in Sicht.
Zu diesem Kurs und dem Krieg war die aktuelle Wiederwahl
Putins eine Art Referendum. Es sollte die Invasion in der Ukraine legitimieren
und zeigen, dass die russische Bevölkerung dieses verrückte Abenteuer
unterstützt. Dabei haben die Behörden alles getan, um Überraschungen zu
vermeiden. Einen Monat vor der Wahl starb unvermittelt Nawalny – der die Russen
aktiv dazu gedrängt hatte, zur Wahl zu gehen und gegen Putin zu stimmen –,
versteckt in einer abgelegenen Strafkolonie im arktischen Norden. Alle
unabhängigen Kandidaten, die den Krieg und das Staatsoberhaupt kritisierten,
wurden nicht zum Urnengang zugelassen.
Darüber hinaus fand die Präsidentschaftswahl erstmals
dreitägig statt. Dies vereinfachte etwaige Betrugsversuche der Behörden
erheblich. In 29 Regionen wurde zudem eine elektronische Stimmabgabe
eingeführt, die zuvor erstmals bei der Parlamentswahl 2021 getestet wurde und
bereits Fragen zum Auszählungsergebnis aufwarf. Oppositionskandidaten, die
damals in den Wahllokalen gewonnen hatten, verloren nach der Addition der
Ergebnisse der elektronischen Stimmen.
Bei der diesjährigen Wahl wurde das „richtige“ Ergebnis mit
Druck erzielt. Behörden, Staatsfirmen und Privatunternehmen wurde am ersten
Wahltag, einem Arbeitstag, befohlen, ihre Mitarbeiter in die Wahllokale zu
schicken. Darüber hinaus war am Arbeitsplatz eine elektronische Stimmabgabe
möglich. Zwecks Erreichung einer hohen Wahlbeteiligung boten die Behörden
den Wählerinnen und Wählern zusätzlich zahlreiche Prämien an, von
Eintrittskarten für Vergnügungsparks bis hin zu Restaurantbesuchen. In den
besetzten Gebieten der Ukraine wurde das russische Staatsoberhaupt ebenfalls
gewählt, buchstäblich mit vorgehaltener Waffe. In jedem Wahllokal waren
bewaffnete Soldaten im Einsatz.
Einen Schatten auf der Inszenierung gab es nur am letzten
Wahltag, dem 17. März. Dem Aufruf der russischen Exilopposition folgend,
stellten sich um Punkt 12 Uhr zahlreiche Russinnen und Russen in kilometerlange
Schlangen vor die Wahllokale, um für andere Kandidaten als Putin zu stimmen
oder den Stimmzettel ungültig zu machen. Angesichts der völligen
Undurchsichtigkeit der Stimmauszählung ist es schwierig zu beurteilen, wie
stark diese Aktionen das Wahlergebnis beeinflussten. Es ist überhaupt kaum
möglich zu sagen, wie viele Stimmen ungültig abgegeben wurden oder für andere
Kandidaten als Putin. In jedem Fall wurde Putins Legitimität mit dem
Wahlverlauf ein schwerer Schlag versetzt.
Die Behörden waren offenbar überzeugt, dass die
Antikriegsstimmung in Russland sehr groß ist. An Nawalnys Grab versammelten
sich mehr Menschen als bei jeder Kundgebung zur Unterstützung des Krieges. Erst
zwei Monate zuvor, im Januar des russischen Winters, hatten sich lange
Warteschlangen gebildet, um für die Präsidentschaftskandidatur des
Kriegsgegners Boris Nadeschdin zu unterschreiben – der Kreml verhinderte
daraufhin seine Registrierung.
Nominell gibt es laut der Zentralen Wahlkommission nun den
angestrebten Zuwachs. 77 statt wie beim letzten Mal 67 Prozent Wahlbeteiligung,
87 statt 77 Prozent Stimmenanteil für Putin. Die russische Staatspropaganda
deutet das enthusiastisch als Einheit der Russinnen und Russen um ihren
Anführer. „Ich weine selten. Aber als ich diese Worte hörte, brach ich
tatsächlich in Tränen aus. Die Wimperntusche verlief. Ich habe noch nie so eine
Freude und so einen Stolz empfunden. (…) Mit ängstlicher, fast religiöser
Beklommenheit, mit stockendem Atem warte ich nun jeden Tag auf die Wiederholung
dieser Gefühle: Wenn alle russischen Länder zu Russland zurückkehren, so wie
die Krim vor zehn Jahren zurückgekehrt ist.“ So drückte Margarita Simonjan,
Chefredakteurin des russischen Auslands-Propagandasenders RT, ihre Gefühle in
den Sozialen Netzwerken aus.
Er klingt hier an, der sogenannte Krim-Konsens, den der
Kreml 2014 nach der Annexion der Krim der russischen Gesellschaft vorschlug:
Die Erweiterung des Territoriums und die Stärkung der Souveränität als
Ausgleich für eine Verschlechterung der wirtschaftlichen Lage, beginnend mit
einer Abwertung des Rubels und einem Rückgang der Reallöhne. Doch dieser
Konsens wurde 2022 auf den Kopf gestellt. Während es vor der Invasion möglich
war, relativ ruhig seinen Angelegenheiten nachzugehen und private Vorlieben
unpolitisch auszuleben, ist es nun erforderlich, der Staatsideologie die Treue
zu schwören und den Krieg zu unterstützen. Das aussagekräftigste Beispiel ist
eine Party russischer Prominenter in einem Moskauer Nachtclub im Dezember 2023.
Die Feier, bei der viele der Gäste fast „nackt“ waren, fand in patriotischen
Kreisen große Resonanz. Alle Teilnehmer sahen sich danach gezwungen, den Krieg
öffentlich zu unterstützen, in die von Russland besetzten Gebiete zu reisen,
für Putin zu stimmen und das in den Sozialen Netzwerken zu verkünden.
Was die Beziehungen zur Außenwelt angeht, geht der Blick
Putins ausnahmsweise einmal nicht zurück, vor allem nicht in Richtung der
westlichen Länder. Das aktuelle Wahlverfahren hält sich nicht mehr an
grundlegende westliche Standards. Putin sieht sich als Anführer der
antiwestlichen Welt und des Globalen Südens, seine wichtigsten Verbündeten –
China, Iran, Nordkorea oder Syrien – haben nichts mit Demokratie am Hut.
Auf die eine oder andere Weise wird das zentrale Thema für
Russland in den nächsten sechs Jahren der Krieg in der Ukraine bleiben.
Eigentlich ist dieser Putins größter Misserfolg in seiner gesamten politischen
Karriere – und das gilt es zu korrigieren. Die Russinnen und Russen müssen unpopuläre
Wirtschaftsmaßnahmen erwarten, es gilt, den „Gürtel enger zu schnallen“. Beim
Übergang zu einer Kriegswirtschaft und einer neuen Mobilisierungswelle wird es
nicht bleiben. Sollte Putin seine Ziele dennoch in den kommenden sechs Jahren
nicht erreichen: 2030 wird er die Möglichkeit haben, sich mit der aktuellen
Selbstverständlichkeit wiederwählen zu lassen. IPG 19.3.
Flüchtlingspakt. EU verspricht
Ägypten Milliarden für Grenzschließung
Die EU und Ägypten wollen ihre Zusammenarbeit stark
ausbauen. Es geht um wirtschaftliche und politische Stabilität in Nordafrika,
aber auch um geopolitische Interessen. Und es gibt einen weiteren Schwerpunkt:
Kampf gegen Geflüchtete – und um Anwerbung von Fachkräften für Europa. Von
Ansgar Haase und Cindy Riechau
Angesichts anhalten Flüchtlingsbewegung will die EU ihre
Zusammenarbeit mit Ägypten erheblich ausbauen und dem wirtschaftlich
angeschlagenen Land Finanzhilfen in Höhe von rund 7,4 Milliarden Euro gewähren.
EU-Kommissionspräsidentin Ursula von der Leyen unterschrieb dazu am Sonntag in
Kairo mit Ägyptens Präsident Abdel Fattah al-Sisi eine Erklärung für eine
„umfassende und strategische Partnerschaft“. Bei ihr soll es um einen Ausbau
der Zusammenarbeit zur Eindämmung unerwünschter Migration, aber auch um wirtschaftliche
und politische Kooperation gehen.
Von der Leyen sprach nach der Unterzeichnung der Erklärung
von einem „historischen Meilenstein“ in den Beziehungen zwischen der EU und
Ägypten. Sie verwies auch auf die Bedeutung Ägyptens bei der Suche nach einer friedlichen
Lösung für den Konflikt zwischen Israel und den Palästinensern. „Wir alle sind
äußerst besorgt über den Krieg in Gaza und die katastrophale humanitäre Lage“,
sagte die Deutsche.
Von den geplanten EU-Finanzhilfen sind den Angaben zufolge 5
Milliarden Euro für Darlehen und 1,8 Milliarden Euro für Investitionen in
Bereiche wie Ernährungssicherheit und Digitalisierung vorgesehen. 600 Millionen
Euro sollen demnach als Zuschüsse fließen, 200 Millionen davon für das
sogenannte „Migrationsmanagement“.
Sorgen wegen steigender Flüchtlingszahlen
Hintergrund der Unterstützungspläne ist vor allem, dass
Ägypten selbst Millionen Geflüchtete aus Krisenländern aufgenommen hat und
derzeit in einer schweren Wirtschaftskrise steckt. Sehr viele Menschen haben
mit einer Inflationsrate von 35 Prozent sowie einer hohen Arbeitslosigkeit zu
kämpfen. Immer mehr Ägypter rutschen in Armut ab.
Eine Rolle spielt zudem auch die Sorge in der EU vor
steigenden Flüchtlingszahlen. Insbesondere Griechenland registrierte zuletzt
zunehmende Ankünfte von Geflüchteten ägyptischer Herkunft über eine neue
Flüchtlingsroute vom libyschen Tobruk aus Richtung Kreta. Das
UN-Flüchtlingshilfswerk (UNHCR) zählte in diesem Jahr bereits mehr als 1.000
Menschen, die von Tobruk aus auf den Inseln Gavdos oder Kreta ankamen. Die
meisten von ihnen sollen aus Ägypten stammen.
Kanzler begrüßt Verständigung
Bundeskanzler Olaf Scholz sagte auf Anfrage der Deutschen
Presse-Agentur, strategische Partnerschaften mit Drittstaaten seien ein
wichtiger Baustein im Kampf gegen irreguläre Migration. „Deshalb ist die
Verständigung der EU mit Ägypten in dieser Frage eine gute Nachricht.“
Von der Leyen erklärte bei einem Pressetermin nach der
Unterzeichnung der Erklärung, es gehe dabei auch um die Erleichterung der
legalen Migration und sogenannte Talentpartnerschaften. Über letztere sollen
zielgerichtet Fachkräfte gesucht sowie Talente gefördert und ausgebildet
werden, die dann als Fachkraft in der EU beschäftigt werden können.
Von der Leyen wurde bei ihrem Besuch von sechs europäischen
Staats- und Regierungschefs begleitet. Darunter waren der belgische
Ministerpräsident Alexander De Croo, die italienische Regierungschefin Giorgia
Meloni, Österreichs Kanzler Karl Nehammer und der griechische Ministerpräsident
Kyriakos Mitsotakis.
Menschenrechtler sind besorgt
Kritik an der geplanten engeren Zusammenarbeit mit Ägypten
gibt es wegen der Menschenrechtslage in Ägypten. Die Meinungs- und die
Versammlungsfreiheit in dem nordafrikanischen Staat mit etwa 105 Millionen
Einwohnern ist stark eingeschränkt, Demonstrationen sind faktisch verboten.
Kritiker werden Menschenrechtlern zufolge mit drastischen Methoden verfolgt und
müssen willkürliche Festnahmen und Schlimmeres befürchten. Zehntausende wurden
laut Menschenrechtlern aus politischen Gründen inhaftiert. Der frühere General
Al-Sisi regiert das Land mit harter Hand. Er war 2013 in einem Militärputsch an
die Macht gekommen.
Kritik kommt auch von Tobias B. Bacherle (Grüne), Mitglied
im Auswärtigen Ausschuss: „Es ist besorgniserregend, dass
Kommissionspräsidentin Ursula von der Leyen ein Abkommen mit dem Machthaber Abd
al-Fattah al-Sisi unterzeichnet, ohne klare und konsequente Bedingungen bei
Menschenrechten und Rechtsstaatlichkeit einzufordern“. Die EU dürfe ihre eigene
Verantwortung nicht mittels einer Migrationskontrolle durch Ägypten und eine
Unterstützung dessen Grenzschutzes auslagern.
Al-Sisi verwies am Sonntag darauf, dass es unter seiner
Führung gelungen sei, den Zustrom illegaler Migration von den ägyptischen
Küsten zu stoppen. Sein Land hat demnach neun Millionen Flüchtlinge und
Migranten aus dem Ausland aufgenommen.
Die Rolle der EU-Rivalen China und Russland
Aus dem Europaparlament kam am Sonntag Unterstützung für die
neuen Pläne mit Ägypten. Man unterstreiche seit Jahren die Notwendigkeit, die
unkontrollierten Migrationsströme nach Europa einzudämmen und die
wirtschaftliche Zusammenarbeit mit den Ländern Nordafrikas zu vertiefen,
kommentierte der Vorsitzende der christdemokratischen EVP-Fraktion, Manfred
Weber (CSU). Die EVP begrüße die Schritte von der Leyens und der anderen
Regierungschefs.
EU-Diplomaten betonen unterdessen, dass die Migration nur
einer von vielen Aspekten bei der Zusammenarbeit sei. Demnach geht es
insbesondere auch darum, einen noch größeren Einfluss Russlands und Chinas in
Ägypten zu verhindern. So baut Russland beispielsweise derzeit Atomreaktoren in
dem nordafrikanischen Land und auch Peking versucht seinen Einfluss mit
Milliardeninvestitionen zu stärken. (dpa/mig 19.3.)
„Meilenstein mit Abstrichen“. EU-Lieferkettengesetz kommt
trotz deutscher Enthaltung
Das EU-Lieferkettengesetz kommt doch: Gegen den Widerstand
der FDP gab es in Brüssel eine Mehrheit für die Richtlinie. Große Unternehmen
müssen damit künftig Umwelt- und Menschenrechtsstandards einhalten. Kürzlich
wurde auch ein Verkaufsverbot für Produkte aus Zwangsarbeit beschlossen. Von
Corinna Buschow und Marlene Brey
Der Widerstand aus Teilen der Bundesregierung konnte es am
Ende nicht stoppen: Die EU-Staaten haben am Freitag den Weg für das europäische
Lieferkettengesetz frei gemacht. Wie die belgische Ratspräsidentschaft
mitteilte, stimmte eine Mehrheit der Mitgliedsstaaten für die Richtlinie, nach
der europäische Unternehmen künftig die Einhaltung von Menschenrechts- und
Umweltstandards in ihren Lieferketten sicherstellen müssen. Auch müssen
Konzerne einen Plan verabschieden, um sicherzustellen, dass ihr Geschäftsmodell
mit dem Pariser Klimaabkommen vereinbar ist. Weil die FDP gegen das Vorhaben
war, hatte sich Deutschland auch bei dieser letzten Abstimmung im Rat
enthalten, obwohl das Gesetz nochmals abgeschwächt wurde. In Deutschland gilt
bereits seit 2023 ein Lieferkettengesetz. Das EU-Gesetz geht aber in Teilen
darüber hinaus.
Dennoch sieht der angenommene Gesetzentwurf weniger strenge
Regeln vor als der ursprüngliche Entwurf. Zunächst sollte das
EU-Lieferkettengesetz bereits für Unternehmen ab 500 Beschäftigten mit einem
globalen Umsatz von mehr als 150 Millionen Euro im Jahr gelten. Der neue Entwurf,
der dem „Evangelischen Pressedienst“ vorliegt, gilt nun für Unternehmen ab
1.000 Beschäftigten. Die jährliche Umsatzschwelle liegt bei 450 Millionen Euro.
Nach Einschätzung der Organisation „Initiative
Lieferkettengesetz“ gilt das Gesetz nun nur noch für ein Drittel der
ursprünglich vorgesehenen Unternehmen, in Summe für rund 5.500 Firmen. „Wir
sind enttäuscht, dass das Vorhaben so ausgehöhlt wurde“, sagte Johanna Kusch
von der Organisation. Dennoch äußerte sie sich erleichtert, dass die Mehrheit
zustande kam.
FDP enttäuscht
Bundesarbeitsminister Hubertus Heil (SPD), der das Gesetz
federführend für die Bundesregierung mit verhandelt hat, begrüßte das Votum,
das ohne deutsches Ja zustande kam. Es sei endlich gelungen, „eine gemeinsame
europäische Lösung für faire Lieferketten zu finden“.
Bundesentwicklungsministerin Svenja Schulze (SPD) sprach von einem
„Meilenstein“ und erklärte, mit einem EU-Lieferkettengesetz gebe es künftig
gleiche Wettbewerbsbedingungen. „Niemand muss im Binnenmarkt mehr Nachteile befürchten,
weil er fair und ohne Kinderarbeit produzieren lässt.“
Enttäuschung äußerte Bundesjustizminister Marco Buschmann
(FDP). „Ich mache keinen Hehl daraus: Wir hätten uns ein anderes Ergebnis
gewünscht“, sagte er. Gleichwohl sei der „Einsatz in Brüssel keinesfalls
umsonst“ gewesen, sagte Buschmann: „Unsere Skepsis hat eine Reihe von Details
zum Besseren bewegt.“ Er verwies unter anderem auf die Änderungen bei der
Geltungsfrist und Unternehmensgrößen.
Deutschlands Enthaltung „bitter“
Umweltschutz-, Entwicklungs- und
Menschenrechtsorganisationen kritisierten diese Änderungen. Als einen
„Meilenstein mit Abstrichen“ bezeichnete die Organisation Oxfam den
angenommenen, abgeschwächten Gesetzestext. Auch viele andere Organisationen
äußerten zu gleichen Teilen Erleichterung über die Mehrheit für das Gesetz
sowie Kritik am deutschen Abstimmungsverhalten und den Veränderungen in letzter
Minute.
Die Generalsekretärin von Amnesty International in
Deutschland, Julia Duchrow, sagte, es sei bitter, „dass sich Deutschland
enthalten hat, nachdem es zuvor für massive Verschlechterungen im Gesetzestext
gesorgt hat“. „Brot für die Welt“-Präsidentin Dagmar Pruin hob das Positive
hervor: „Nichtsdestotrotz verbessert das EU-Lieferkettengesetz mit seinen
Vorkehrungen zu zivilrechtlicher Haftung den Rechtsschutz von Betroffenen von
Menschenrechtsverletzungen.“
In der Wirtschaft stößt das Vorhaben auf geteiltes Echo.
Große Verbände wie der Bundesverband der Deutschen Industrie (BDI) oder die
Bundesvereinigung der Deutschen Arbeitgeberverbände (BDA) lehnen das Gesetz ab.
Sie sprechen aber nicht für alle Unternehmen. Eine Allianz europäischer
Konzerne von Aldi über Ikea bis hin zu Unilever oder Hapag-Lloyd begrüßte das
Lieferkettengesetz ausdrücklich. Gerade deutsche Unternehmen könnten von der
Einführung profitieren, weil sie sich bereits an das deutsche
Lieferkettengesetz halten müssen. Ein EU-Gesetz würde einheitliche Regeln für
alle schaffen.
Gegenüber der Wirtschaft eingeknickt
Kritik an den Änderungen in letzter Minute kam auch von der
Linken. „Die Politik ist auf den letzten Metern gegenüber der Wirtschaft
eingeknickt“, erklärte die Bundestagsabgeordnete Cornelia Möhring. Das neue
Gesetz könne nur ein erster Schritt für echte Unternehmensverantwortung
weltweit sein.
EU-Mitgliedsstaaten, EU-Parlament und Kommission hatten sich
bereits im Dezember auf das Gesetz geeinigt. Danach hatte allerdings die FDP
ihr Veto erklärt. Deutschland musste sich deshalb bei der Abstimmung enthalten.
Der von den EU-Staaten angenommene Kompromiss muss noch vom EU-Parlament
bestätigt werden. Nach Angaben der EU-Abgeordneten Anna Cavazzini (Grüne) ist
die Abstimmung für April geplant.
Verbot von Produkten aus Zwangsarbeit
Bereits am Mittwoch vergangener Woche hatte sich eine
Mehrheit der EU-Mitgliedstaaten auf ein Verkaufsverbot von Produkten aus
Zwangsarbeit geeinigt. Weil die FDP auch dieses Gesetz ablehnt, enthielt sich
die Bundesregierung. Das Gesetz muss noch vom EU-Parlament bestätigt werden.
Konkret sieht das Gesetz vor, dass kein Teil eines Produktes
unter Zwangsarbeit hergestellt werden darf. Handelt es sich beispielsweise um
ein Teil eines Autos, ist der Autohersteller verpflichtet, entweder einen neuen
Zulieferer zu finden oder die Arbeitsbedingungen zu verbessern. „Stammen die
Tomaten für eine Soße aus Zwangsarbeit, muss die gesamte Soße entsorgt werden“,
erklärte der Rat kürzlich. EU-Kommission und Mitgliedsstaaten sollen gemeinsam
untersuchen, ob Zwangsarbeit in den Lieferketten vorkommt. Kleine und
mittelständische Unternehmen sollen bei der Umsetzung der Verordnung
unterstützt werden. (epd/mig 18.3.)