Webgiornale 20
giugno – 3 luglio 2022
Rifugiati: una marea umana in fuga. In 100 milioni chiedono protezione
Roma – Più di una volta
e mezzo la popolazione dell’Italia. Dodici volte quella della città di New York
e quasi cinque volte di Pechino. Secondo i dati di maggio 2022, sarebbero oltre
100 milioni gli esseri umani in fuga nel mondo «a causa di persecuzioni, guerre
e violazioni dei diritti umani». A mettere nero su bianco l’allarme, per un
fenomeno in crescita esponenziale nell’ ultimo decennio, è il secondo report
annuale dell’Acnur (Unhcr), ‘Global Trends’, relativo in particolare al 2021,
che Avvenire ha letto in anteprima. Numeri che non riescono a raccontare le
storie, le valigie di chi fugge, piene di drammi e speranze.
Alla fine dello
scorso anno, la marea umana costretta a scappare dal proprio Paese si attestava
attorno agli 89,3 milioni. Di questi, 27 milioni sono rifugiati, 53 milioni
sfollati interni, 4,6 milioni richiedenti asilo e 4,4 milioni i venezuelani
fuggiti all’ estero. Dal Paese governato da Nicolàs Maduro sono fuggite in
totale 6 milioni di persone, circa un quinto della nazione. Per quanto riguarda
le richieste di asilo, aumentate dell’11%, invece, gli Stati Uniti sono il
Paese che ha ricevuto il numero più alto di domande (188.900).
In un anno, scrive
l’Agenzia Onu per i rifugiati, c’ è stato «un aumento dell’8%», che ha visto
più che raddoppiare, rispetto al 2011, i numeri di chi è fuggito. A imporre
un’accelerazione forzata al trend, paragonabile solo agli esodi causati dal
secondo conflitto mondiale, l’invasione russa in Ucraina dello scorso febbraio
e, prima ancora, il riacutizzarsi di altri conflitti ed emergenze globali.
Basti pensare che, secondo la Banca mondiale, nel 2021, 23 Paesi sono stati
teatro di guerra.
Oltre ai conflitti
armati, tra le cause di emigrazione forzata ci sono «carenze alimentari,
inflazione ed emergenza climatica».
Ogni tre persone
che hanno lasciato la propria casa nel 2021, perché in pericolo di vita, almeno
due scappavano dalla guerra in Siria (6,8 milioni), dalla povertà del Venezuela
(4,6 milioni), dalla violenza dei taleban in Afghanistan (2,4), o dai conflitti
e dalle persecuzioni in Sud Sudan (2,4) e Myanmar (1,2). Se i minori
costituiscono il 30% della popolazione mondiale, il 42% della popolazione
globale che fugge è composta da bambini e ragazzi fino ai 17 anni. Tra i
rifugiati su scala globale, 3,8 milioni sono accolti nella Turchia di Recep
Tayyip Erdogan, che più di una volta ne ha fatto arma politica contro l’Europa.
Mentre il Libano risulta essere il Paese che ha accolto il numero più elevato
di rifugiati pro capite, 1 ogni 8 cittadini libanesi. Il 72% del totale, invece,
compresi i rifugiati, venezuelani, è accolto in Paesi confinanti con scarse
risorse.
Dunque,
l’incremento costante delle fughe supera le soluzioni a disposizione dei
migranti. Dai dati del report, però, in uno scenario estremamente cupo, anche
qualche barlume di speranza. «Mentre registriamo sgomenti il succedersi di
nuovi esodi forzati – ha dichiarato l’Alto commissario dell’Onu per i
rifugiati, Filippo Grandi – dobbiamo riconoscere gli esempi di quei Paesi che
lavorano insieme per individuare opportunità a favore di chi fugge». Il numero
di rifugiati e di sfollati interni che hanno fatto ritorno a casa nel 2021,
infatti, è aumentato, tornando ai livelli pre-pandemia, «con un incremento del
71% dei casi di rimpatrio volontario». Quasi sei milioni di persone «hanno
fatto ritorno ai propri Paesi di origine nel 2021», e 57.500 rifugiati sono
stati reinsediati, due terzi in più rispetto al 2020. Agnese Palmucci, Avvenire
Draghi a Kiev: "Italia vuole Ucraina in Ue"
Il premier:
"Sarà l’Ucraina a scegliere la pace che vuole. A Irpin ho sentito orrore
ma anche speranza per la ricostruzione"
"L'Italia
vuole l'Ucraina in Ue". Lo ha detto il premier Mario Draghi a Kiev nel corso
di una conferenza stampa congiunta con i leader di Ucraina, Francia, Germania e
Romania all'interno del complesso della presidenza. Draghi si è recato a Kiev
per una visita insieme al presidente francese, Emmanuel Macron, al cancelliere
tedesco, Olaf Scholz, e al presidente della Romania, Klaus Iohannis. I leader,
che questa mattina hanno visitato le rovine della città di Irpin, hanno avuto
un incontro con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.
"Oggi è una
giornata storica per l’Europa. Italia, Francia e Germania, tre Paesi fondatori
dell’Unione europea, e il presidente della Romania sono venuti in Ucraina per
offrire il loro sostegno incondizionato al presidente Zelensky e al popolo
ucraino. Un popolo che si è fatto esercito per respingere l’aggressione della
Russia, per vivere in libertà" ha affermato il presidente del Consiglio.
"L’Unione
europea ha dimostrato e dimostra oggi una straordinaria unità nel sostenere l’Ucraina
in ogni modo, così come è stato chiesto dal presidente Zelensky" ha detto
Draghi. "Voglio ricordare la grande solidarietà dimostrata dagli italiani
e dagli europei che hanno accolto nelle loro case gli ucraini che scappavano
dalla guerra", ha aggiunto il premier, per il quale la visita
"conferma inequivocabilmente il nostro sostegno, quello dell'Europa e dei
nostri alleati".
"ITALIA VUOLE
UCRAINA IN UE" - "Il messaggio più importante della nostra visita è
che l'Italia vuole l'Ucraina nell'Ue, vuole per l'Ucraina lo status di
candidata e sosterrà questa posizione nel prossimo Consiglio europeo" ha
sottolineato il premier. Il presidente Zelensky "naturalmente comprende
che la strada da candidato a membro è una strada che dovrà vedere le riforme
profonde della società ucraina e comprende che la via verso l'adesione all'Ue è
un percorso, non un punto" ha affermato Draghi.
"La nostra
presenza è una manifestazione di unità e come tale è una manifestazione di
quella forza che l'unità mostra - ha aggiunto - Oggi tutti noi abbiamo detto
che siamo pronti a sostenere la causa dell'Ucraina come candidata all'Ue nel
prossimo Consiglio europeo. Siamo consapevoli che questo è uno sviluppo storico
che richiederà una riflessione profonda sulle regole e sul funzionamento
dell'Ue e richiederà una riflessione su tutti i Paesi, in particolare dei
Balcani, che sono stati su una lista d'attesa per moltissimi anni prima di
arrivare ad essere candidati all'Ue".
"Ma il fatto
che oggi siamo qui è già un evento straordinario. Siamo qui per aiutare
l'Ucraina a costruire il suo futuro, non solo la sua candidatura all'Ue ma
anche la ricostruzione", perché dall'"orrore della visita di
oggi", ha detto Draghi riferendosi alla visita a Irpin, emerge anche
"il desiderio di futuro, la speranza".
LA VISITA A IRPIN
- "Oggi ho visitato Irpin, un luogo di massacri compiuti dall’esercito
russo. Sono fatti terribili, che turbano nel profondo e che condanniamo senza
esitazioni - le parole del premier - Diamo il nostro completo sostegno alle
indagini degli organismi internazionali sui crimini di guerra". "Ma
oggi, sentendo la spiegazione di colui che ci ha accompagnato a vedere il
risultato di questi bombardamenti, ho sentito orrore ma ho sentito anche
speranza. Speranza per la ricostruzione, speranza per il futuro. E noi oggi
siamo qui per questo, per aiutare l’Ucraina a costruire il suo futuro", ha
spiegato Draghi.
"Vogliamo che
si fermino le atrocità e vogliamo la pace - ha scandito il presidente del
Consiglio - Ma l’Ucraina deve difendersi se vogliamo la pace, e sarà l’Ucraina
a scegliere la pace che vuole. Qualsiasi soluzione diplomatica non può
prescindere dalla volontà di Kiev, da quello che ritiene accettabile per il suo
popolo. Soltanto così possiamo costruire una pace che sia giusta e duratura".
Il premier ha
evidenziato che "siamo a un momento di svolta nella nostra storia. Il
popolo ucraino difende ogni giorno i valori di democrazia e libertà che sono
alla base del progetto europeo, del nostro progetto. Dobbiamo creare una
comunità di pace, di prosperità e di diritti che unisca Kiev a Roma, a Parigi,
a Berlino e a tutti gli altri Paesi che condividono questo progetto".
BLOCCO EXPORT
GRANO - Poi, riferendosi al rischio per la sicurezza alimentare a causa del
blocco dell'export di grano dall'Ucraina, Draghi ha detto che "ci sono due
settimane per sminare i porti e il raccolto arriverà alla fine di settembre,
sono scadenze che ci avvicinano inesorabilmente al dramma. Per evitare questo
terribile evento occorre organizzare corridoi sicuri per il grano perché la
crisi in Ucraina non deve" mettere a repentaglio la sicurezza alimentare,
ha rimarcato il presidente del Consiglio, auspicando una "risoluzione
Onu" per risolvere la questione, ma sottolineando che "la Russia
finora l'ha rifiutata". Adnkronos 16
Il mondo al crocevia si lasci guidare dai rifugiati
Roma – Si avvicina
il 20 giugno, l’anniversario dell’approvazione nel 1951 della Convenzione di
Ginevra sullo status dei rifugiati e, proprio per questo, la giornata che la
comunità internazionale ha scelto di dedicare a chi è costretto a migrare dal
timore di subire persecuzioni nel proprio Paese d’origine. Le iniziative per
celebrarla sono già cominciate ovunque. A Roma, il Centro Astalli ha avviato
una riflessione sugli interrogativi e sulle opportunità che queste persone
mettono di fronte all’Europa, e l’ha coronata con il dialogo che si è tenuto
martedì 14 giugno presso la Pontificia Università Gregoriana. Il messaggio era
già nel titolo: “con i rifugiati” – accanto a loro, lì dove il papa, scegliendo
il tema per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato celebrata dalla
Chiesa il prossimo 25 settembre, ha significativamente collocato il futuro –
“ai crocevia della Storia”. In un momento in cui ci sentiamo tutti in bilico su
un confine, sull’orlo di crisi – quella climatica, energetica, alimentare e
naturalmente quella bellica – che paiono ad un passo dal diventare
irrecuperabili. I confini sono i luoghi in cui queste sfide si materializzano:
ciò avviene in modo teatrale alla frontiera ucraina, scenario di già oltre
cento giorni di una sanguinosissima guerra territoriale, ma avviene a ben
vedere lungo ogni confine che divide le nazioni tra di loro e al loro interno.
È sui confini che si fanno visibili le profondissime disuguaglianze di risorse,
di opportunità, di prospettive di futuro. Per questo, quest’anno in modo
speciale, è importante volgere lo sguardo a chi sull’attraversamento del
confine ha costruito la propria intera esperienza di vita, a chi ha reso questi
crocevia della Storia dei crocevia di esistenza individuale. Ai rifugiati,
nell’anno in cui i dieci milioni di ucraini si sono aggiunti ai profughi di
altre origini, segnando il massimo storico di cento milioni. Il Centro Astalli
restituisce loro voce e la fa risuonare nell’Aula Magna della Gregoriana: voci
da Mali, Bielorussia, Congo, Iraq, che raccontano di vite interrotte
dall’irruzione della violenza o dalla vendetta di un potere autoritario,
sradicate e costrette altrove, alla povertà, allo sfruttamento. Il loro personale
crocevia, dicono, è stato l’arrivo in Italia, l’incontro con persone disposte
ad aiutarle, l’abbraccio di un sistema che, per quanto imperfetto, le ha fatte
sentire per la prima volta rispettate e al sicuro. Le democrazie, ha spiegato
la politologa Nadia Urbinati, risolvono la propria contraddizione intrinseca,
tra la necessaria limitazione territoriale e l’aspirazione universalistica alla
tutela della dignità di ciascuno, proprio aprendo i confini e mettendosi in
contatto tra loro: a questo l’Europa ha educato i propri cittadini, ad una
concezione del confine che non è barriera ma luogo di incontro. Ma allora
perché di recente ha praticato l’opposto? Perché ha prima inaugurato politiche
escludenti e poi, pur di non vedere i propri confini trasformarsi in muri, ha
cercato di allontanarli da sé, esternalizzando la gestione della migrazione in
Turchia e in Libia? Il corso di formazione organizzato dal Centro Astalli in
preparazione alla Giornata del rifugiato è stato dedicato all’“Europa ferita”:
anch’essa oggi ad un crocevia, tra il volto nuovo mostrato alle famiglie in
fuga dall’Ucraina e il pronto riemergere di tendenze che devono tristemente
chiamarsi razziste, in quei criteri per l’applicazione della protezione
temporanea che distinguono, come ha ricordato il Direttore di Avvenire Marco
Tarquinio, i cittadini ucraini dai profughi della stessa guerra ma di origine
straniera. Questa ambiguità non è più accettabile. Al crocevia in cui ci
troviamo occorre fare una scelta e aprire gli occhi sulle ingiustizie e sulle
odiose disparità. Andare a vedere le regioni della povertà: le periferie delle
città e del mondo, come ha proposto mons. Paul Gallagher, Segretario vaticano
per i rapporti con gli Stati, o i fronti di guerra. Come ha fatto lui in
Ucraina, messaggero della solidarietà della Santa Sede, ma anche promotore del
dialogo e garante di un contatto da mantenere vivo, per evitare di distrarsi e
di stancarsi. Ne ha riportato la sensazione che l’inverno che ci aspetta non lo
dimenticheremo mai. Come prepararci, come rimediare? È ancora possibile
evitarlo? Una bella proposta sta nel messaggio lanciato dal Centro Astalli:
facciamoci guidare da chi ha già svoltato il crocevia della propria vita, da
chi ha vissuto la guerra – generale o personale – e ha maturato un profondissimo,
radicale desiderio di pace. “Costruiamo il nostro futuro con i rifugiati”:
insieme a loro, seguendoli, varchiamo il confine dal lato giusto, entriamo nel
mondo che loro sognavano quando sono partiti, nella dimensione di libertà,
diritti e dignità per tutti che chiede anche il Papa, che è l’aspirazione di
ogni democrazia e la condizione indefettibile per la pace. Livia Cefaloni,
migr. On. 16
20 giugno 2022: Giornata mondiale del rifugiato. Dalla politica alcuni
passi avanti e molti indietro
Quest’anno, probabilmente, il numero dei rifugiati stimato sarà il più alto
degli ultimi 50 anni: ormai 100 milioni nel mondo. Le guerre, anche l’ultima in
Ucraina con sei milioni e mezzo di rifugiati e altrettanti profughi interni, i
34 conflitti in corso nel mondo, i disastri ambientali, la fame, la tratta e lo
sfruttamento stanno costringendo sempre più persone e famiglie a lasciare la
propria terra per chiedere protezione e asilo altrove. Di fronte a questo
fenomeno epocale, la politica continua a fare passi avanti, ma anche molti
passi indietro.
Se da un lato è apprezzabile la proposta europea che finalmente impegna
ogni Paese, seppur in forma diversa, diretta o volontaria, alla solidarietà nei
confronti di richiedenti asilo e rifugiati, dall’altra non si può non
denunciare il ritorno alle deportazioni di ucraini in Russia e di migranti, per
lo più asiatici, dall’Inghilterra in Rwanda, nonostante le condanne della Corte
europea dei Diritti umani; l’aumento del numero dei morti nel Mediterraneo,
sebbene siano diminuiti gli arrivi; la diversa attenzione prestata a
richiedenti asilo e rifugiati di diversi Paesi; i respingimenti in mare e in
terra senza identificazione e tutela; la crescita di violenze nei campi
profughi di Libia, Sud Sudan, Ciad.
L’auspicio è che la Giornata mondiale del rifugiato, che si celebra il 20
giugno, accenda i riflettori sulla imprescindibile esigibilità dei diritti dei
richiedenti asilo e dei rifugiati, senza i quali non si può immaginare un
futuro e un mondo fraterno.
Mons. Gian Carlo Perego Presidente Cemi e Fondazione Migrantes
(de.it.press)
Ucraina. Fermiamo la guerra, madre feconda dell’odio
Se mai esistesse un termometro dell’odio, segnalerebbe un febbrone. In
questi anni più volte abbiamo ascoltato la giustissima denuncia delle
"parole d’odio" che circolavano nella nostra società. Parole
durissime e sconvenienti, talvolta volgari e certamente irrispettose rivolte
verso persone considerate “diverse”. Ma sembra già una storia di ieri, figlia
di un tempo già consumato, anche se il problema non è stato ancora rimosso e la
questione educativa sollevata non abbia ancora trovato uno sbocco realmente
positivo - Domenico Delle Foglie
Se mai esistesse un termometro dell’odio, segnalerebbe un febbrone. In
questi anni più volte abbiamo ascoltato la giustissima denuncia delle “parole
d’odio” che circolavano nella nostra società. Parole durissime e sconvenienti,
talvolta volgari e certamente irrispettose rivolte verso persone considerate
“diverse”. Ma sembra già una storia di ieri, figlia di un tempo già consumato,
anche se il problema non è stato ancora rimosso e la questione educativa
sollevata non abbia ancora trovato uno sbocco realmente positivo.
La verità è che l’odio trova sempre strade nuove.
Basti pensare che il Novecento è stato, a suo modo, il secolo dell’odio
programmatico. Le ideologie del secolo scorso hanno fatto dell’odio una
categoria necessaria alla loro affermazione fino a programmare lo sterminio
sistematico di uomini e realtà a loro contrarie, costruendo terribili e
disumane macchine di distruzione di massa. Nessuno di noi (tanto meno i
nostri giovani), dovrebbe mai dimenticare le immagini dei treni blindati, delle
camere a gas, dei campi di concentramento e sterminio. E soprattutto le masse
di corpi smagriti, i crani rasati a zero, i volti scavati, le bocche senza
denti, gli occhi privi di luce. Un autentico incubo che solo ottanta anni fa ha
percorso come una lama infuocata la nostra Europa. Deturpandone il volto e
corrompendone la coscienza.
Ecco perché suonano sinistre le parole di Dmitry Medvedev, numero due di
Mosca, che tanta eco hanno avuto in tutto il mondo e in particolare in Occidente:
“Mi viene spesso chiesto perché i miei post su Telegram sono così duri. La
risposta è che li odio. Sono bastardi e imbranati. Vogliono la nostra morte,
quella della Russia. E finché sono vivo farò di tutto per farli sparire”. Se
non si trattasse del vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo ed ex
presidente della Federazione russa, potremmo tranquillamente pensare di
trovarci dinanzi alle esternazioni sopra le righe di uno dei tanti leoni da
tastiera che popolano i social. E invece no. Abbiamo a che fare con il secondo
uomo forte (dopo Putin) di una potenza mondiale in guerra che utilizza con
assoluta noncuranza la parola odio rivolta contro i propri presunti nemici.
Ovviamente gli occidentali, come hanno inevitabilmente semplificato tutti i media
internazionali.
Ecco dunque l’odio richiamato in campo per svolgere il suo orrendo lavoro,
all’interno di una sanguinosa cornice di guerra di invasione, dentro i confini
dell’Europa. La guerra non è solo una manifestazione dell’odio, purtroppo ne è
anche la madre più feconda. Una madre in grado di costruire un orizzonte di
senso negativo e disumano, di motivare e giustificare l’azione violenta e
sconsiderata, di stravolgere il volto dell’altro attribuendogli solo le
fattezze del nemico da eliminare, di rivolgere tutte le proprie energie alla
distruzione dell’altro e del suo mondo, di desiderare la scomparsa definitiva
del diverso da sé.
Non averne una lucida coscienza, anche da parte di noi occidentali e per di
più cristiani, come lo sono anche i nostri fratelli ortodossi russi e ucraini,
è un gravissimo errore prospettico. La valenza dell’odio è imponente, cioè può
mettere radici così profonde da lasciare un segno tanto lacerante da
necessitare secoli per essere superata, depurata e riconsegnata agli archivi
della storia che raccolgono gli errori talvolta catastrofici delle generazioni
che ci hanno preceduto. L’eco dell’odio e delle sue forme più malsane
attraversa il tempo e restituisce ai contemporanei l’enorme inspiegabile
stoltezza del genere umano che preferisce il rombo dei cannoni alle parole
della pace.
Ecco perché la guerra scatenata nel cuore dell’Europa preoccupa e angoscia.
Perché ogni giorno in più di uccisioni (da una parte e dall’altra delle
barricate), di distruzioni e violenze, di parole minacciose versate nei fiumi
già avvelenati del discorso pubblico, alimenta solo una causa: quella
dell’odio. Bloccare questa spirale disumana è un dovere. E dunque, fermare la
guerra al più presto e ripristinare una pace anche faticosa sono condizioni indispensabili
per tagliare la strada all’odio. Dentro i cuori e nelle menti dei potenti. Ma
non solo in loro. Anche le nostre coscienze e quelle dei nostri popoli vanno
curate dal cancro dell’odio. Per non rispondere mai all’odio con l’odio. Sir 18
“I tagli alle forniture del gas all’Europa attuati da Gazprom rientrano
nella scelta che da anni la Russia ha fatto diminuendo il suo interesse a
mantenere relazioni cordiali con l’Occidente. Anche la stessa invasione
dell’Ucraina, che è strettamente legata alla questione del gas, segue questa
logica. Da tempo la Russia si sta mostrando sempre più insofferente e
refrattaria ad avere delle buone relazioni con l’Occidente”. Così Fulvio
Scaglione, per anni corrispondente da Mosca, commenta le conseguenze che
l’invasione russa in Ucraina ha generato nell’economia mondiale.
“Che Stati Uniti e Ue avrebbero pagato un prezzo alle sanzioni imposte alla
Russia era prevedibile, per quanto molti abbiano cercato di sottostimarlo”,
osserva il giornalista. “Noi europei – prosegue – importiamo gas russo dalla
fine degli anni ’50; per 60 anni ci è arrivato in maniera regolare, salvo
qualche piccola crisi immediatamente superata, e a prezzi economici. Comprare
gas russo è stato per 60 anni un affare, una delle condizioni che ha permesso
lo sviluppo economico dell’Unione europea, consentendo a Germania e Italia di
prosperare”. “Non sappiamo calcolare l’effetto delle sanzioni sulla Russia
perché a seguito di questo Mosca ha messo in campo politiche di reazione
cercando nuovi mercati per gas e petrolio, nuovi fornitori di tecnologie e di
quei beni che i russi non sono mai stati capaci di produrre”, aggiunge
Scaglione, evidenziando che “bisogna vedere se è più veloce il processo di
sostituzione che stanno mettendo in campo i russi o quello di scardinamento
della loro struttura economica provocato dalle nostre sanzioni”.
Il giornalista invita a non considerare quanto sta succedendo con una
“visione limitata” secondo cui “l’Occidente ha messo al bando la Russia per le
sua cattive azioni”. In realtà, spiega, “c’è un processo in atto da anni
attraverso il quale la classe dirigente russa ha pian piano lasciato gli
ormeggi con l’Occidente, in particolare con l’Europa. E ha iniziato a costruire
altre relazioni in Medio Oriente, con Cina, India e Turchia: un lavoro che va
avanti da tempo”. Per Scaglione, “il taglio delle forniture di gas è la
reazione tipicamente russa a quella che considerano l’ennesima ambiguità
dell’Europa che dice di non essere in guerra con la Russia ma dà le armi
all’Ucraina. Ci considerano schierati senza che noi abbiamo il coraggio di
esserlo. E quindi ci colpiscono là dove sanno che ci possono far male”. Tra
l’altro, osserva, “sono loro a colpirci, non siamo noi ad aver smesso di
importare il loro gas”. “La stessa guerra in Ucraina è la manifestazione più
clamorosa, violenta e crudele del fatto che la Russia voglia tagliare i ponti
con l’Occidente”. Per quanto riguarda le visite effettuate nei giorni
scorsi dai leader europei a Kiev, Scaglione ritiene abbiano significati
diversi. Se da una parte Draghi, Macron e Scholz, a nome dell’Europa “hanno
garantito armamenti ma soprattutto l’appoggio per il futuro ingresso
dell’Ucraina nell’Unione” dall’altra “temo che Johnson, abbia invece di fatto
invitato Kiev a non cedere e a prolungare la guerra, garantendo il sostegno
incondizionato del Regno Unito “. Secondo Scaglione comunque, il futuro, soprattutto
per l’Ucraina, non sembra affatto buono perché “se l’Ucraina continuerà a
resistere nel tentativo di vincere e recuperare il territorio perduto, allora
questo non potrà avvenire se non al prezzo di una guerra lunga e distruttiva
che alla lunga potrebbe portare allo spezzettamento dell’Ucraina e, poi, forse
anche il tracollo della Russia. Se invece l’Ucraina decidesse di ‘uscire dalla
guerra’ – conclude Scaglione – dovrebbe sì accettare la soluzione umiliante di
riconoscere alla Russia i territori conquistati ma consentirebbe a Kiev di
mantenere un’integrità territoriale, non totale, ma consistente. Alberto
Baviera sir 18
Una ‘exit strategy europea’ per il cessate il fuoco in Ucraina
Dopo i primi cento
giorni, gli scenari della guerra in Ucraina sembrano evolvere in un ulteriore
inasprimento. L’ipotesi di individuare “corridoi del grano” si scontra già con
reciproche diffidenze, ma è possibile che la pressione internazionale – specie
dei paesi africani e asiatici che finora non hanno aderito alle sanzioni contro
la Russia – possa favorire la mediazione della Turchia e dell’Onu.
Tuttavia, sulla
prospettiva più generale della guerra c’è il forte rischio di una nuova
escalation. Da un lato l’Ucraina, che non vuole rinunciare ai territori che in
questa fase ha dovuto cedere nel Donbass, punta a rilanciare presto l’offensiva
all’annunciato arrivo di nuove armi con maggiori gittate, mobilità e volumi di
fuoco. Dall’altro la Russia, secondo le ultime dichiarazioni di Putin, sarebbe
pronta a rispondere più in profondità con il suo potenziale strategico, e un
segnale ha voluto darlo iniziando nuovamente a bombardare Kyiv e inasprendo le
tensioni diplomatiche con tutto l’Occidente.
In definitiva, non
ci si può esimere dalla considerazione che la comunità internazionale deve
porsi il problema di presentare ora una forte iniziativa diplomatica per
parlare di pace, non limitandosi alle sole dichiarazioni di condanna della
guerra. Ora più che mai è necessario che su questo obiettivo entrino in gioco
con più determinazione organizzazioni internazionali come l’Onu, il G7 e il
G20, ma anche l’Unione Europea prima di tutto, e ogni altro attore che abbia la
volontà e la capacità di proporsi come mediatore, a cominciare da Cina, India,
Turchia e Israele.
Le posizioni ‘istituzionali’
dell’Italia
Sul punto è bene
che l’Italia faccia una riflessione profonda, per chiarirsi le idee sul da
farsi, specie ora che la Russia ha iniziato ad attaccarla direttamente sul
piano diplomatico per gli aiuti militari concessi all’Ucraina e per asserite
campagne “antirusse” promosse dai media nazionali. L’auspicio è che
all’annunciato nuovo dibattito parlamentare sulla guerra, Roma esca fuori da
ogni equivoco sugli aiuti militari ed economici all’Ucraina, e valuti però
anche le exit strategy da promuovere con più determinazione.
L’Italia della
politica e della diplomazia non può affidarsi all’attendismo, o peggio ai talk show
e alle posizioni pretenziose di pseudo-esperti che ancora declamano abusate
tesi antieuropeiste e antiamericane. Né si può lasciare che il dibattito
politico interno in vista delle elezioni si esasperi ancora al punto tale che
il Paese non sia coeso nel sostenere una road map per la pace in Ucraina.
È stato dunque un
bene che certe posizioni siano state più recentemente chiarite dal presidente
del Consiglio Draghi al Consiglio europeo e dal presidente della Repubblica
Mattarella nel discorso alla diplomazia internazionale intervenuta – tranne
quella russa, non invitata – alle celebrazioni del 76° anniversario della
Repubblica Italiana.
Draghi è stato
netto nel sostenere una radicale revisione della politica energetica europea
perché non sia più dipendente dalla Russia, ed ha affermato: “È essenziale che
Putin non vinca questa guerra”.
Il presidente
Mattarella ha confermato la linea dell’Italia al fianco degli alleati
euroatlantici e dell’Ucraina: “L’aggressione all’Ucraina da parte della
Federazione Russa pone in discussione i fondamenti stessi della nostra società
internazionale, a partire dalla coesistenza pacifica”. Ed ha aggiunto:
“Trovarsi, nel continente europeo, nuovamente immersi in una guerra di stampo
ottocentesco, che sta generando morte e distruzioni, richiama immediatamente
alla responsabilità”.
Da qui la linea
dell’Italia: “La Repubblica italiana è convintamente impegnata nella ricerca di
vie di uscita dal conflitto che portino al ritiro delle truppe occupanti e alla
ricostruzione dell’Ucraina”. E quindi “con lucidità e con coraggio occorre
porre fine all’insensatezza della guerra e promuovere le ragioni della pace”, e
gli obiettivi prioritari per la comunità internazionale sono altrettanto ben
definiti: “superare ogni volontà di sopraffazione”, e “ripristinare la legalità
internazionale”.
La proposta
italiana all’Onu
Se questa è dunque
la linea “istituzionale”, sarebbe il caso di ritornare a parlare del “piano
Italia” già presentato dal Ministero degli Affari esteri all’Onu, ed anticipato
anche al G7 e al Quint, il gruppo informale composto dagli Stati
Uniti e dalle Big Four dell’ Europa occidentale, Francia, Germania,
Italia e Regno Unito, che coordina le politiche di questi Stati in particolare
nei rapporti con la Nato e l’Ocse.
I contenuti salienti
della proposta si articolano su quattro punti: 1) il cessate il fuoco, a
cominciare da alcune aree; 2) la neutralità dell’Ucraina, con la rinuncia ad
aderire alla Nato; 3) ampie autonomie per Crimea e Donbass, confermando la
sovranità dell’Ucraina; 4) un “nuovo patto” per la sicurezza europea e globale.
La cornice dei vari punti prevede anche un sistema di “garanzie”, e un “Gruppo
Internazionale di Facilitazione” (potrebbero esservi inclusi Turchia, Israele,
Germania, Francia, ma anche Cina e India), che potrebbe prevedere anche lo
schieramento di contingenti di pace, e gruppi di osservatori con poteri di
monitoraggio sul rispetto degli accordi e un ruolo attivo nella ricostruzione.
I contenuti della
proposta recano in sé indicazioni già elaborate da molti analisti
internazionali nei mesi precedenti, e in alcuni tratti sembrano riproporre il
modello di intesa su cui si sarebbe dovuto lavorare dopo gli accordi Minsk II
del 2015. I “quattro punti” della proposta italiana rappresentano comunque le
questioni da affrontare in qualunque negoziato sull’Ucraina, se si vuole che
questo sia credibile nel tempo. Temi critici riguarderanno anche lo status dei
nuovi territori ora occupati dai russi, le sorti dei prigionieri di Mariupol e
dei vari cittadini ucraini costretti all’esodo forzato in sperdute regioni
russe, nonché le responsabilità dei gravi crimini internazionali commessi nella
condotta della guerra. Ma la questione centrale rimane la situazione di Crimea
e Donbass, perché qui il diritto internazionale non consente divagazioni.
In base alle
determinazioni dell’Onu e ai principi del diritto internazionale, i territori
occupati dal 2014 permangono esclusivamente in una situazione di “occupazione
de facto”, e la sovranità dell’Ucraina è stata sempre confermata de jure
(Ronzitti), anche negli accordi di Minsk. In questi accordi già si parlava di
iniziative referendarie per decidere solo forme di autonomia, e probabilmente
su queste ipotesi c’è ancora spazio per negoziare. Ma è evidente che l’ostacolo
sarà definire una cornice di garanzia, dove occorrerà decidere sull’occupazione
russa.
Il pensiero corre
dunque ai difficili modus vivendi di tanti scenari di occupazione territoriale,
a cominciare da quello cipriota e quello israelo-palestinese, che occorrerà evitare.
È certo, comunque, che da una guerra di aggressione non possono derivare
“annessioni” o riconoscimenti territoriali, per cui sarà necessario giungere ad
una intesa tra le parti, su cui solo l’Ucraina, liberamente, potrà decidere se
fare concessioni. Altrimenti non rimangono che i “mezzi pacifici di risoluzione
delle controversie” che sono ben disciplinati dalla Carta delle Nazioni Unite:
una decisione dell’Assemblea Generale (dato che sarà difficile superare il veto
russo nel Consiglio di Sicurezza), una mediazione terza, una inchiesta affidata
a una Commissione di esperti indipendenti, un arbitrato o il deferimento alla
Corte internazionale di giustizia.
Non va poi
sottovalutato l’ultimo aspetto della proposta, dove si fa riferimento ad
un “accordo multilaterale sulla pace e la sicurezza in Europa”. È una
apertura non di poco: la proposta dall’Italia prevede la ripresa delle misure
di disarmo e controllo degli armamenti, di “prevenzione dei conflitti” e di
“rafforzamento della fiducia”, modelli tipici del “processo di Helsinki” che
può essere riaperto a nuove intese, di cui la Russia dovrebbe tenere debito
conto.
Conclusioni:
l’idea per una ‘exit strategy europea’
In definitiva, la
proposta italiana ha ancora una sua ragion d’essere, ma perché non rimanga
“sulla carta” occorre non fermarsi. Sta ora all’ Italia decidere se rilanciarla
– stavolta con una maggiore coesione interna – magari puntando a proporla nel
contesto di una leadership europea, costituita da Italia, Francia, Germania e
Spagna, come base di discussione per una “exit strategy europea”, comunque
necessaria. Sarà quindi più facile negoziarla con gli attori interessati – che
ad una Unione europea coesa potrebbero dare maggiore credito – o portarla anche
di fronte all’Assemblea Generale, per trovare convergenze sui punti in
questione o individuarne altri: questo è il lavoro della diplomazia, e questo è
quanto indispensabile fare, al più presto. Maurizio Delli Santi, AffInt 13
ROMA – Dopo la
tornata elettorale di domenica i cinque referendum sulla giustizia, per cui
votavano anche gli italiani all’estero, non hanno raggiunto il quorum
necessario e si sono fermati al 20 ,94% dei votanti. Nonostante il nulla di
fatto per il raggiungimento degli obbiettivi del referendum abbiamo cercato di
inquadrare per grandi linee quanto è avvenuto all’estero. Secondo gli ultimi
dati non definitivi del Ministero dell’Interno hanno espresso il voto per i
referendum circa 16 % dei connazionali all’estero aventi diritto. Un dato,
quello sull’affluenza, che varia leggermente a seconda dei quesiti referendari.
Il dato più alto di partecipazione si è comunque registrato nella ripartizione
America Meridionale.
Per quanto
riguarda il quesito sull’incandidabilità dopo condanna hanno votato il 16,03%
dei connazionali aventi diritto. Il 14,39% nella ripartizione Africa Asia
Oceania Antartide; il 22,31% in America Meridionale; l’11,79% in America
Settentrionale e Centrale; il 13,08% in Europa. Con 397.678 voti (58,44 %)
hanno prevalso i NO. I SI sono stati 282.825 pari al (41,56 %).
Per il referendum
sulla Limitazione delle misure cautelari hanno votato il 16,02%. Hanno espresso
il loro suffragio il 14,35% nella ripartizione Africa Asia Oceania Antartide;
il 22,20 % in America Meridionale; il 12,03% in America Settentrionale e
Centrale e il 13,09% in Europa. Anche in questo referendum hanno prevalso i NO
con 369.228 voti (54,46 %) rispetto ai SI 308.810 voti (45,54 %). Netta
affermazione dei SI invece per la consultazione sulla Separazione delle
funzioni dei magistrati che, con 430.201 voti ottengono il 63,53 %. Ai NO
246.933 voti (36,47 %). Per questo referendum hanno votato il 15,92% degli
aventi diritto all’estero. 14,41% in Africa Asia Oceania Antartide; il 22,23%
in America Meridionale; il 12,02% in America Settentrionale e Centrale; 12,41%
in Europa. Vince il SI (422.025 voti – 62,71 %) anche per il quesito sui
Membri laici dei consigli giudiziari. Il NO ottiene 250.972 voti (37,29 %). Per
il quesito hanno votato il 15,85% dei connazionali aventi diritto. Nelle varie
ripartizioni si sono espressi il 14,28% (Africa Asia Oceania Antartide); il
22,13% (America Meridionale); l’11,98% (America Settentrionale e Centrale);
il 12,37% (Europa). Altra affermazione del SI (406.769 voti – 60,10
%) per il referendum sull’Elezione dei componenti togati del CSM. . Il No si
ferma al 39,90 %(270.022 voti). Su questo quesito si sono espressi il 15,92
degli aventi diritto all’estero. Il 14,35% per la ripartizione Africa Asia
Oceania Antartide; il 22,26% per l’America Meridionale; il 12,02% per America
Settentrionale e Centrale e il 12,38% per l’Europa. (Inform/dip 14)
Perché accogliere la sfida dell’Ucraina nell’Unione europea
Arrivati al quarto
mese di guerra, il sostegno europeo all’Ucraina rischia di indebolirsi. La
decisione sull’adesione dell’Ucraina all’Ue sarà fondamentale non solo per il
futuro dell’allargamento europeo. Negare la candidatura all’Ucraina (o offrirle
vuote alternative di candidatura potenziale) rappresenterebbe una debacle per
Kyiv e per l’Ue, e una straordinaria vittoria simbolica per Putin.
Altrettanto importante,
insieme al riconoscimento di una candidatura vera e propria, è la necessità di
accompagnare il processo di adesione con benefici concreti nel breve termine.
In questo caso non c’è bisogno di reinventare la ruota ricorrendo a concetti di
comunità politiche e geopolitiche europee. Esistono già formule concrete come
quella dello Spazio economico europeo che si sono dimostrate utili come gradini
verso la piena adesione all’Ue. Prima di diventare Stati membri dell’Ue,
Austria, Finlandia e Svezia erano stati membri del SEE e sono successivamente
entrati nel mercato unico europeo. Come proposto dalla European Stability
Initiative, la stessa traiettoria può essere immaginata per l’Ucraina. Infatti,
avendo già fornito protezione temporanea ai cittadini ucraini, l’Ue è in
pratica sulla via della liberalizzazione di una delle quattro libertà del
singolo mercato: la libertà di circolare e lavorare in tutta l’Ue.
La guerra in
Ucraina offre l’opportunità di rilanciare l’allargamento come progetto
politico. Ci sono imperativi strategici e etici per coglierla. Questo è vero
per l’Ucraina, la cui resistenza all’aggressione russa è indissolubilmente
legata ai valori su cui si fonda l’Ue, ma vale anche al di fuori dell’Ucraina.
Infatti, il processo di adesione aperto per i Balcani occidentali, piuttosto
che essere utilizzato dagli scettici dell’allargamento come scusa per non
procedere con l’Ucraina, dovrebbe servire a sostenere queste nuove domande di
adesione.
L’Ue rifugio
dall’imperialismo russo
L’Ucraina ha
presentato la domanda di adesione all’Ue il 28 febbraio 2022, quattro giorni
dopo l’inizio dell’invasione russa. Mentre i missili piovevano in tutto il
paese e molti temevano che la capitale potesse cadere, il tempismo della
domanda di Kyiv potrebbe essere sembrato strano. È vero il contrario. La
domanda dell’Ucraina per l’adesione all’Ue è intimamente legata al vero
significato che questa guerra e la resistenza ad essa hanno assunto. La Russia
non ha invaso l’Ucraina a causa dell’espansione della Nato, dato che tali piani
in realtà non esistevano. La Nato può anche essere una preoccupazione a Mosca,
ma non è certo il primo, né tantomeno il secondo, al massimo lontanamente un
terzo, motivo che spiega la guerra di scelta della Russia.
Questa è una
guerra imperiale condotta per negare l’esistenza dell’Ucraina e al suo popolo
il diritto all’autodeterminazione all’interno di uno Stato libero e
democratico. La resistenza dell’Ucraina è una lotta anticoloniale per
l’indipendenza e la libertà. Dato che l’Unione europea si fonda – o dovrebbe
fondarsi – sulla protezione dei valori della libertà, dei diritti umani e della
democrazia, questo è in definitiva il motivo per cui l’Ucraina vuole entrare
nell’Unione, proprio quando le truppe russe hanno attraversato i suoi confini.
Sciogliere le
reticenze
Dopo i primi
cinque pacchetti di sanzioni approvati alla velocità della luce (considerando
gli standard Ue), i leader europei hanno trascorso settimane a litigare sul
sesto pacchetto contenente sanzioni petrolifere, apparentemente ostaggio
dell’autocrate interno all’Ue, il primo ministro ungherese Viktor Orban. Alla
fine, è stato raggiunto un accordo sull’embargo petrolifero, ma pieno di
esenzioni, ritardi e tecnicismi da risolvere lungo il percorso.
L’Ue non ha ancora
trovato un’intesa sul price cap ai prezzi dell’energia, che richiederebbe una
maggioranza qualificata tra gli Stati membri. Sul gas russo, alcuni Stati
membri come Bulgaria, Danimarca, Paesi Bassi, Finlandia, Lituania e la Polonia
o hanno interrotto le forniture o è stata Mosca a fare la prima mossa, ma nella
maggior parte dei casi il gas continua a fluire e gli europei continuano a
riempire la casse di Mosca, ora nei famigerati “conti K” in euro e rubli. In
alcuni Stati membri, la reticenza a sostenere militarmente l’Ucraina è
(ri)emersa, con i famigerati ritardi nelle consegne di armi tedesche, o con la
sempre maggiore opposizione politica al sostegno militare a Kyiv tra i partiti
populisti italiani.
La domanda di
adesione all’Ue discussa al Consiglio europeo
Tutto questo sta
accadendo in vista del Consiglio europeo del 23-24 giugno, nel quale i capi di
Stato e di governo sono chiamati a decidere se l’Ucraina, la Moldova e la
Georgia possono diventare candidati all’adesione all’Ue, tenendo conto della
valutazione della Commissione europea sui tre paesi.
L’Ue si è spesso
vantata del proprio potere di trasformare gli altri. In effetti, l’Ucraina,
come altri candidati, può e vuole essere trasformata. Ma ora non è solo l’Ue
che sta cambiando l’Ucraina, ma l’Ucraina che può cambiare l’Ue, in meglio.
Mentre le bandiere europee sventolano a Kyiv e le bandiere ucraine sventolano
in tutta l’Unione, i leader europei non possono nascondersi dietro
l’indecisione pubblica e devono raccogliere la sfida. Nathalie Tocci, AffInt 13
Migranti: ok a pacchetto Ue, solidarietà per aiutare Stati di primo
ingresso
Lamorgese (min.
Interno), “si attiverà effettivo meccanismo di redistribuzione”
Via libera dal
Consiglio Affari interni dell’Unione europea al pacchetto attuativo della prima
fase dell’approccio graduale in materia di Migrazione e Asilo, comprendente un
meccanismo di solidarietà per aiutare gli Stati membri di primo ingresso e due
regolamenti per rafforzare la protezione delle frontiere esterne dell’Unione
europea.
Per il ministro dell’Interno,
Luciana Lamorgese, che ha partecipato ai lavori svoltisi a Lussemburgo, “si
tratta di un avanzamento di rilevanza strategica verso una politica europea di
gestione condivisa dei flussi migratori equilibrata ed ispirata ai principi di
solidarietà e di responsabilità”. “Voglio dare atto alla Presidenza francese e
al ministro Gérald Darmanin – ha proseguito la titolare del Viminale –
dell’impegno profuso per realizzare quell’approccio graduale, da tempo
auspicato, che oggi concretizza e lega i progressi sulla responsabilità a
quelli sulla solidarietà, attivando un effettivo meccanismo di redistribuzione
di migranti”.
“L’intesa
raggiunta favorisce principalmente gli Stati membri che devono affrontare gli
sbarchi a seguito di operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo e lungo
la rotta atlantica occidentale e si fonda sull’assicurazione di offerte di
quote adeguate di ricollocazione, già manifestata da un numero significativo di
Stati membri”, ha aggiunto Lamorgese a margine dei lavori del Consiglio Affari
Interni.
Già nei prossimi
giorni, informano dal Viminale, sarà operativa una piattaforma ad hoc,
coordinata da Presidenza e Commissione, per dare attuazione al meccanismo di
redistribuzione. A.B. sir 10
Onu: un sistema imperfetto in un mondo ‘westfaliano’
Oltre a mettere
fine all’immane tragedia dei lutti e delle devastazioni, vi è un’altra ragione
per fermare la guerra di aggressione all’Ucraina e far tacere le armi. Il
blocco navale attuato dalla Russia nel Mar Nero e le mine disseminate
dall’Ucraina per ostacolare uno sbarco russo a Odessa impediscono che 22
milioni di tonnellate di grano raggiungano i mercati africani e del Medio
Oriente. Inoltre, essendo pieni tutti gli stoccaggi è impossibile ricevere il
nuovo raccolto, con il rischio sempre più concreto di far schizzare verso
l’alto il prezzo del pane in molti paesi.
Il segretario
delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha espresso il timore che sia in arrivo
“un uragano di fame” se il grano dell’Ucraina resta bloccato e ha annunciato la
creazione di un Global Crisis Response Group on Food, Energy and Finance
dell’Onu, affidato al Vicesegretario Generale Amina Mohammed. David
Beasley, capo del Programma alimentare mondiale, Agenzia dell’Onu, il 20
maggio, intervenendo al Consiglio di Sicurezza, ha definito la mancata apertura
dei porti nella regione di Odessa “una dichiarazione di guerra alla sicurezza
alimentare globale e si tradurrà in carestia, destabilizzazione e migrazione di
massa in tutto il mondo”. Russia e Ucraina esportano più di un quarto
della produzione mondiale di grano e la Russia è il maggior esportatore di
fertilizzanti.
Lo sforzo
diplomatico internazionale
In occasione del viaggio
a Washington di metà maggio il Presidente del consiglio italiano Mario Draghi
per primo ha parlato della necessità di un’iniziativa umanitaria per evitare lo
scenario di una crisi alimentare a livello globale. La mossa di Draghi ha
avviato uno sforzo della diplomazia internazionale per trovare una soluzione
condivisa, e definire un accordo che consenta la creazione di corridoi
marittimi nel Mar Nero per far passare, sotto scorta, le navi cargo con il
grano. Si è così aperta una partita diplomatica in cui si è abilmente inserita
la Turchia, che in base alla Convenzione di Montreux del 1936 controlla il
regime di navigazione degli Stretti dei Dardanelli.
Sono emersi subito
alcuni ostacoli: Kiev teme che lo sminamento delle acque del Mar Nero possa
consentire alle navi da guerra russe di tentare lo sbarco a Odessa, Mosca
chiede garanzie che le navi non trasportino armi per l’Ucraina, e soprattutto,
per approvare il corridoio navale, ha posto come condizione che siano revocate
le sanzioni – non vi è nessuna sanzione all’export di beni alimentari – o
l’offerta dei soli porti sotto controllo russo per sbloccare l’export di grano.
Rotte alternative,
via terra verso i porti baltici o polacchi, o via fiume fino al porto romeno di
Costanza comportano una sfida logistica non indifferente, oltre a essere una
parziale soluzione per le quantità limitate che sarebbero coinvolte. L’incontro
dell’8 giugno a Ankara tra il presidente turco Erdogan e il ministro degli
Esteri russo Lavrov metterà alla prova la buona volontà di evitare una
catastrofe umanitaria. L’intesa che sembra profilarsi potrebbe affidare alla
Turchia sia il compito di sminare le acque davanti a Odessa, che di scortare le
navi cargo con il grano. Un’operazione che comporta anche rischi militari ed è
quindi importante garantirne l’attuazione in sicurezza. La Turchia ha proposto
un centro di coordinamento a Istanbul, sotto egida Onu.
Il ruolo dell’Onu
nelle crisi
Il presidente
francese Emmanuel Macron ha proposto l’adozione di una risoluzione del
Consiglio di Sicurezza a favore di questo corridoio navale “umanitario”, per
dare un quadro chiaro e copertura politica all’operazione. Come opzione
alternativa è stata presa in considerazione una risoluzione dell’Assemblea
generale, che però non sarebbe un atto giuridicamente vincolante.
Si rafforza quindi
il coinvolgimento delle Nazioni Unite, che hanno fornito supporto e protezione
a milioni di civili ucraini che subiscono le conseguenze del conflitto, ma si
caratterizzano sempre più come un’agenzia umanitaria. Aiutare a sbloccare
l’uscita del grano dai porti dell’Ucraina per l’Onu non è solo contribuire a
risolvere il problema dell’approvvigionamento mondiale di cibo, ma una
questione esistenziale.
I limiti delle
Nazioni Unite sono ben noti da tempo. Lo scoppio della guerra fredda, che ha
minato l’assunto di fondo del perdurare dell’intesa tra le grandi potenze su
cui si basava la costruzione concepita dal presidente americano Roosevelt, ha
impedito il raggiungimento degli obiettivi originari della Carta di San Francisco
firmata il 26 giugno 1945. Nonostante abbia varato missioni di peace-keeping,
creato regimi sanzionatori e autorizzato interventi militari, l’Onu, ha fallito
nel suo compito primario: assicurare pace e sicurezza internazionale.
Una riforma del
Consiglio di Sicurezza?
L’incapacità di
affrontare le più recenti crisi internazionali ha messo in luce l’esigenza di
una significativa riforma dei suoi meccanismi istituzionali, in primis del
Consiglio di Sicurezza, dove il diritto di veto concesso ai cinque membri
permanenti si traduce nella paralisi decisionale. Più che mediare tra i diversi
interessi delle maggiori potenze, il metodo di votazione dell’organo esecutivo
è finalizzato a impedire che possa funzionare contro una di esse.
Cina, Russia e
Stati uniti hanno usato in misura maggiore il diritto di veto, mentre Francia e
Regno unito, soprattutto dopo il 1989, ne hanno fatto minor uso. Il sempre più
basso numero di risoluzioni approvate ha reso evidente l’impasse decisionale.
Siria, Crimea, Yemen sono le principali crisi in cui negli ultimi anni si è
manifestata l‘incapacità di raggiungere un consenso nell’aula del Palazzo di
vetro.
Certamente Cina e
Russia si sono trovate spesso alleate nel difendere regimi dittatoriali e
impedire risoluzioni di condanna, ma anche gli Stati Uniti, già durante la
presidenza di George Bush, aggirando il ruolo dell’Onu nell’intervento in Iraq
del 2003, e successivamente con Donald Trump, che ha ritirato Washington dal
Consiglio dei diritti umani e dall’Oms, hanno contribuito al declino delle
Nazioni Unite come arbitro delle dispute internazionali.
Multilateralismo e
spirito cooperativo
In questo “momento
westfaliano” del sistema internazionale, dove gli stati rivendicano la loro
sovranità e prevale la rivalità tra potenze, lo spazio per il ruolo delle
Nazioni Unite si riduce inevitabilmente. Ciononostante, l’obiettivo di
un’organizzazione basata sul multilateralismo cooperativo per arginare
l’anarchia del sistema internazionale resta da perseguire.
Difendere il
multilateralismo alla base della Carta di San Francisco, che incarna il
principio della legalità internazionale e rappresenta un valore universale,
dovrebbe essere un interesse anche di quei paesi che contestano “l’ordine
internazionale liberale” stabilito dopo il secondo conflitto mondiale, e
reclamano nuovi equilibri geopolitici. Marinella Neri Gualdesi, AffInt. 9
BERLINO –
L’ambasciatore d’Italia in Germania Armando Varricchio ha rivolto ai
connazionali un messaggio di auguri per la Festa della Repubblica italiana,
ricordando come anche oggi si stia vivendo “un cambio epocale in Europa”.
“La guerra in
Ucraina, che ancora una volta riporta il fragore delle armi nella nostra
Europa, ci ricorda che i valori che davamo per scontati e i rapporti pacifici
tra le nazioni non possono essere dati per acquisiti. Come tragicamente ci
dimostrano le immagini di Bucha, Mariupol e Kiev, come ci dicono le notizie che
filtrano da Mosca e da San Pietroburgo, i concetti di democrazia e repubblica,
di libertà di espressione e di sovranità che ci rendono cittadini a pieno
titolo devono essere difesi, curati e alimentati – ricorda Varricchio.
Egli richiama poi
come in questo contesto si sia riscoperto “il ruolo della diplomazia, quella
forza gentile di chi sa di dover parlare anche con chi non la pensa come noi”.
“Come Ambasciata d’Italia in Germania – prosegue – abbiamo un compito di
cerniera in questa fase per creare spazi di dialogo a tutti i livelli nel cuore
dell’Europa, che oggi, specialmente da Berlino, guarda inevitabilmente al
nostro confine orientale. Ma guardiamo in profondità anche all’interno della
Germania dove tantissimi italiani e italiane contribuiscono a costruire la
comune casa europea basata sui valori di cittadinanza e democrazia, ma anche di
solidarietà e integrazione culturale”.
Varricchio dedica
pertanto “un pensiero speciale a tutti gli italiani e le italiane che vivono in
Germania, una grande e bellissima comunità che ha contributo e continua a
contribuire in maniera essenziale allo sviluppo del Paese che ci ospita”.
“Anche oggi – sottolinea l’Ambasciatore – l’ingegno italiano è essenziale per i
centri di eccellenza scientifica della Germania, ne arricchisce il vasto
panorama culturale e costruisce con la sua rete articolata di imprese, dalle
più grandi a quelle familiari, la spina dorsale dell’economia del nostro
continente”.
“La storia della
Germania in Italia – aggiunge Varricchio – va ben oltre la sehnsucht per il
vivere all’italiana, per la dolce bellezza del nostro paesaggio e
l’ineguagliabile eleganza dei nostri centri urbani che ancora oggi attirano i
nostri amici tedeschi. Quali conoscitori della nostra penisola come pochi altri
al mondo, siamo lieti di accogliere i nostri amici tedeschi su percorsi nuovi
di turismo consapevole, attivo e attento alla sostenibilità”.
“Dinnanzi alle
sfide su molteplici fronti, dalla preservazione della pace alla lotta al
cambiamento climatico, l’amicizia di due paesi che hanno condiviso una storia
democratica e repubblicana consolidatasi nei decenni rappresenta un bene
prezioso su cui costruire per i nostri figli e nipoti – conclude
l’Ambasciatore. (Inform/dip 12)
Monaco di Baviera. Ricevimento del Consolato per la Festa della Repubblica
Monaco di Baviera.
Riuscitissimo il Ricevimento dello scorso 2 Giugno, offerto in occasione della
Festa della Repubblica dal Console Generale d'Italia a Monaco di Baviera, Dr.
Enrico De Agostini e dalla gentile Signora Susan.
Una cerimonia che
– come nel 2019, prima, appunto, dell'arrivo della pandemia –ha rivestito
un'importanza particolare, anche per il luogo in cui si sono tenuti
i festeggiamenti: l'atrio e il cortile interno della Gliptoteca di Monaco di
Baviera, uno dei più famosi Musei tedeschi, come – del resto – hanno tenuto a
ribadire nei loro interventi: il Ministro Plenipotenziario, Dr. Enrico De
Agostini e il Ministro di Stato per gli Affari Federali e i Media, Dr. Florian
Hermann.
Al loro arrivo i
numerosi invitati sono stati accolti dal Console Generale e dalla sua
Signora, coadiuvati impeccabilmente dal Vicario Dr. Alfredo
Casciello, dall'Assistente Dr. Marchiello e da altre Collaboratrici e altri
Collaboratori, tra cui il "factotum" Giuseppe Bosso, che –
con la loro proverbiale cordialità – hanno messo subito a proprio agio
tutti i convenuti.
Come da Programma,
la festa, ha preso il via alle 18:00. Nel corso della serata sono stati
eseguiti: l'Inno Europeo, l'Inno Nazionale Tedesco, l'Inno della Baviera,
e l'Inno degli Italiani, cantati a fior di labbra da molti dei presenti.
All'inizio della
serata ha preso la parola il Console Generale De Agostini, che ha
cominicato il suo corposo e articolato discorso – in tedesco e in italiano
– salutando calorosamente le autorità e gli ospiti presenti; a
cominciare dal Ministro di Stato Dr. Florian Hermann, e continuando con la
Presidente del Comites di Monaco Dr.ssa Daniela Di Benedetto, con la Presidente
del Comites di Norimberga, Dr.ssa Nicoletta De Rossi, con la Direttrice
dell'Istituto Italiano di Cultura di Monaco, Dr.ssa Giulia Sagliardi; e
continuando con i suoi Collaboratori, con i Corrispondenti Consolari, con
alcuni Diplomatici, e terminando con i Rappresentanti delle Forze
Armate presenti, con gli operatori di vari Enti Internazionali di stanza a
Monaco e dintorni e con diversi Imprenditori, Dirigenti Scolastici
e liberi professionisti. E si è particolarmente dichiarato compiaciuto di
poter accogliere gli intervenuti in un luogo così prestigioso, rendendo così
omaggio all'amica Baviera.
Il Dr. De
Agostini, ha sottolineato pure l'importanza rivestita dal 76° Anniversario
della nascita della Repubblica e dei 74 anni della Costituzione Italiana,
non mancando di menzionare gli strettissimi rapporti che legano l'Italia alla
Baviera, alla Germania; non dimenticando, altresì, di accennare ai malesseri
che affliggono attualmente i nostri Paesi e la nostra Casa Comune Europea, che
rischia di disfarsi a causa di diversi fattori per nulla contingenti, peraltro,
come il perdurare della pandemia, ma soprattutto al pericolo connesso a
una Eskalation in concomitanza con la vicenda dell'invasione
dell'Ucraina da parte della Federazione Russa e degli interventi da parte dell'Europa,
della Nato e degli Stati Uniti: di tutto l'Occidente.
Il Diplomatico ha
continuato quindi, ricordando l'importanza dell'Italia e della Germania come
Paesi fondatori della UE, come le prime due potenze industriali del Continente,
non dimenticando di accennare all'impellente necessità di rivedere alcuni
trattati dell'Unione, al fine di rafforzarne l'efficacia operativa e, non da
ultimo, il sostegno dei più deboli, come, appunto, e come già detto: il
sostegno dell'Ucraina.
Il Console
Generale ha ricordato pure gli intensissimi scambi tra i due Paesi, nel campo
delle importazioni ed esportazioni, per i flussi d'investimento, per le aziende
italiane che operano in Germania, citandone a mo' di esempio alcune.
Il Diplomatico,
infine, non ha mancato, inoltre, di ricordare la presenza in Baviera di 130.000
connazionali, - diverse migliaia in più dal suo arrivo a Monaco - una presenza
storica e diffusa in tutte le attività e in tutti i settori sociali, che ha
contribuito e contribuisce al successo del Freistaat e che continua a crescere
con l'arrivo di numerosi studenti, ricercatori, professionisti, imprenditori.
Una comunità che ci si auspica – ha continuato De Agostini – si possa
maggiormente integrare sempre di più nel tessuto sociale e politico del Paese di
accoglienza.
Concludendo infine
il suo intervento De Agostini, dopo aver ripetuto alcuni passaggi precedenti,
già espressi in tedesco, ha promesso agli ospiti italiani che l'Amministrazione
– malgrado l'aumento dell'utenza della Circoscrizione a fronte della vistosa
riduzione dell'organico del Consolato Generale – fidando soprattutto sulle
qualità dei Collaboratori interni ed esterni, e sui più sofisticati
sistemi telematici, si sforzerà – ulteriormente – di venire maggiormente
incontro alle esigenze e alle richieste sempre più complesse della nuova
emigrazione. Non è un caso che, malgrado tutti gli intoppi, dovuti,
soprattutto, alla pandemia e alle esigenze di riduzione dei contatti, ha
parlato con soddisfazione dell'aumento del 50% di emissione di documenti e del
70% di registrazioni nello stato civile. E ha terminato il suo
intervento ringraziando i presenti per l'attenzione, augurando a tutti un buon
proseguimento della serata.
Dopo un intermezzo
musicale è seguito quindi un cordialissimo intervento del Ministro
Bavarese, che, dopo aver ringraziato il Console Generale e la sua Signora
per il graditissimo invito e salutato tutti i presenti anche a nome del
Presidente della Baviera Markus Söder e del Governo, si è dichiarato
anche lui compiaciuto del luogo scelto dal Console Generale, ribadendo alcuni
punti già citati dal Diplomatico e non mancando di ricordare – come già
affermato in passate occasioni da altri parlamentari bavaresi – che Monaco può
essere considerata per la sua architettura (Chiesa dei Teatini, Loggia dei
Marescialli, sempre nella Odeonsplatz), i Palazzi, le Residenze e per la vita
che vi si respira nei locali, nelle piazze e nelle vie della città, una città
italiana. Commentando anche di considerare questa sua partecipazione alla Festa
della Repubblica, un primo assaggio delle vacanze che, prossimamente,
trascorrerà in Toscana. E aggiungendo anche che gli italiani che vivono in
Baviera (solo a Monaco 28.000!) e i numerosi turisti italiani, che visitano la
capitale bavarese, mostrano di gradire sempre di più la vita in Baviera.
Tutto ciò anche a
motivo dei legami tra i nostri due Paesi, non solo nel ramo del turismo,
della gastronomia, di molte Università e Scuole, ma anche per gli stretti
rapporti in seno all'Unione Europea. Così questa Festa Nazionale che oggi
festeggiamo insieme – ha concluso il Dr. Hermann – dovrà segnare il superamento
delle numerose difficoltà che affliggono e dividono attualmente l'Europa.
Un'Europa Unita, un'Europa dei Popoli. Così, sia l'Italia che la Germania,
ma anche le loro Regioni, come la Lombardia e la Baviera, sono e dovranno
continuare a essere importanti pilastri nella comune Casa Europea; un'Europa,
come già detto dal Console Generale, che sostenga validamente chi, attualmente,
è vittima dei soprusi di chi si crede il più forte, ha concluso alla fine il
Ministro, ringraziando anche lui gli intervenuti per l'attenzione.
Al termine di
questa prima parte della Festa, che iniziata alle 18:00, si è protratta,
poi fino alle ore 21:30, è seguito l'invito da parte del Console Generale
e della sua gentile Signora di servirsi del delizioso e variegato buffet
(deliziosi stuzzichini di vario tipo; si ricorda inoltre lo squisito Prosciutto
di Parma e un eccezionale caciocavallo, un salame, che più salame non si può;
in ogni caso, anche i vegetariani non sono rimasti a bocca asciutta,
anche a motivo delle bevande.
Nel corso del
rinfresco i presenti hanno avuto modo, così, poi di assistere a una
graditissima sorpresa: il Ministro De Agostini ha svelato anche una sua segreta
passione, quella di provetto cuoco, cimentandosi personalmente ai fornelli e
cucinando con un altro chef un ragù di agnello e un piatto di cime di räpe
con cechitelli. Scroscianti gli applausi a questa esibizione e anche alla
indovinatissima esibizione di giovani cantanti di Bäri.
Tra i numerosi
ospiti, alcuni dei quali anche visibili nelle foto che seguono, e non ancora
nominati sopra, alcuni Funzionari del Consolato. Erano presenti inoltre:
il Corrispondente Consolare, Ing. P. Benini; l'Ing. C. Cumani (già
Presidente del Comites di Monaco) con la sua gentile Signora; l'Imprenditore
Uff. R. Farnetani; il Corrispondente Consolare, Avv. Kreuzer (già Console
Onorario di Norimberga); il Corrispondente Consolare, nonché
Vicepresidente Vicario delle ACLI Baviera, Dr. F. A. Grasso; il
Signor R. Salvatore, Presidente dell'Associazione Nazionale Alpini, ANA, Gruppo
Monaco di Baviera; il Rettore della MCI di Monaco, Padre G. Parolin,
il Corrispondente Consolare, Comm. A. Tortorici; la Dr.ssa P.
Zuccarini; il Prof. Macrì e Consorte, la Dr.ssa M. Kiderle... Inoltre: diversi
membri dei Comites di Monaco e di Norimberga; alcuni membri del Gruppo
ANA, tra cui il già nominato G. Bosso; Lettori Universitari e Professori
di Liceo, Direttori Scolastici, Responsabili di Musei e Gallerie di
Monaco, e Scrittori, Registi (Dr. A. Melazzini). E tanti altri...
Fernando A.
Grasso, de.it.press 13
Francoforte: riparte con l’intervista al fisico Paolo Ferri la rubrica del
Consolato
Francoforte - Il
Consolato Generale d’Italia a Francoforte riprende la rubrica online “10 minuti
con…” con un’intervista al fisico Paolo Ferri, dedicata al suo ultimo fresco di
stampa uscito pochi giorni fa dal titolo “Il lato oscuro del sole” (Laterza
2022). L’intervista è condotta da Michele Santoriello e Maria Cristina Belloni,
dell’Ufficio culturale del Consolato, e si può vedere on line, sul canale
YouTube del Consolato generale, ItalyinFFM.
L’avvento dell’era
spaziale ha permesso agli scienziati di inviare sonde interplanetarie a studiare
il Sole dallo spazio, al di sopra dell’atmosfera terrestre, e poi anche di
andare a osservarlo da vicino, sfidando l’enorme flusso di calore e di
radiazioni. L’Europa, attraverso l’Agenzia spaziale europea, ha partecipato fin
dall’inizio all’enorme sforzo scientifico e tecnologico di inviare sonde
spaziali sempre più sofisticate in missioni sempre più ambiziose: da Ulysses,
Soho e Cluster, a Venus Express, poi a Bepi Colombo, diretta verso il pianeta
Mercurio e infine a Solar Orbiter, la missione più ambiziosa mai ideata per lo
studio ravvicinato della nostra stella.
Paolo Ferri,
fisico teorico, ha lavorato per oltre 37 anni al centro di controllo
dell’Agenzia spaziale europea a Darmstadt, in Germania. Nella sua carriera ha
vissuto direttamente gran parte della storia dell’esplorazione spaziale europea
ed è stato responsabile delle operazioni di volo di numerose missioni
scientifiche, tra cui Cluster, direttore di volo di Venus Express, capo
progetto del segmento di terra di Bepi Colombo e Solar Orbiter.
Il suo è dunque,
un racconto in prima persona, che porta non solo a conoscere le scoperte e gli
strumenti che le hanno rese possibili, ma anche a condividere le emozioni che
hanno accompagnato lo sviluppo e il successo delle missioni spaziali.
Per il ciclo “Pier
Paolo Pasolini 100”, invece, domani, 14 giugno, alle ore 19.30, nella sala
conferenze del Deutsches Filmmuseum di Francoforte sul Meno verrà presentato il
volume Pier Paolo Pasolini. Gespräche und Selbstzeugnisse, a cura e con
prefazione di Gaetano Biccari (Wagenbach 2022).
L’incontro si
iscrive nel ciclo “…si vive per sperimentare la vita/…man lebt, um das Leben
auszuprobieren” Pier Paolo Pasolini (1922–1975) – Lyriker, Essayist,
Filmemacher, frutto della collaborazione tra la Deutsch-Italienische Vereinigung
di Francoforte, il Consolato Generale, il Filmmuseun, l’Italienzentrum
dell’Università “Johann Wofgang Goethe”, La Frankfurter Stiftung für
deutsch-italienische Studien. Il curatore del volume, il dr. Gaetano Biccari,
dialogherà con il dr. Philip Stockbrugger. (aise/dip 13)
Cosmo (ex-radio Colonia), le ultime puntate
03.06.2022
Germania e Italia fanno abbastanza per l'Ucraina?
Mentre la guerra
in Ucraina arriva al suo centesimo giorno, il cancelliere Olaf Scholz risponde
alle tante critiche di chi in Germania e all'estero accusa il governo federale
di fare troppo poco per Kiev e annuncia l'invio di notevoli forniture militari
agli ucraini. Ma sono giustificate le accuse delle ultime settimane a Scholz e
al governo tedesco? Veramente la Germania ha fatto finora troppo poco per gli
ucraini? Cerchiamo di rispondere a questa domanda con il nostro Enzo Savignano
e con l'editorialista della Süddeutsche Zeitung, Daniel Brössler. Con il
giornalista e autore Guido Rampoldi facciamo, invece, il punto sugli aiuti
militari italiani all'Ucraina.
02.06.2022 AAA
Personale cercasi in Germania
Il mondo del
lavoro tedesco cerca urgentemente personale, specializzato e non: ma in quali
settori? E quali sono le cause? Ci presenta dati e informazioni fondamentali
Enzo Savignano. Ascoltiamo poi l'esperienza di un asilo italo-tedesco di
Colonia, con Antonella Abbruscato, e di Stefano Bortolot che ha una gelateria a
Cochem. Nel mondo dell'educazione e della ristorazione, oltre che nella sanità,
la carenza di aspiranti lavoratori è infatti molto grave.
01.06.2022 La
Germania punta sull'eolico
È una vera e
propria accelerata nel campo dell'energia eolica, quella che si sta osservando
in Germania: per l'arrivo al governo dei Verdi ma anche per la necessità di
smarcarsi dal gas russo. Enzo Savignano ci spiega come il governo tedesco vuole
raggiungere i suoi obiettivi, mentre con due esperti del Fraunhofer Institut
parliamo degli ostacoli da superare. Di eolico in Italia e di
"Beleolico" parliamo invece con Davide Chiaroni del Politecnico di
Milano.
https://www1.wdr.de/radio/cosmo/programm/sendungen/radio-colonia/il-tema/eolico-germania-ue-100.html
31.05.2022 Il
mondo del calcio in Germania e non solo
Se negli ultimi
anni è il calcio inglese a farla da padrone in ambito europeo, in Germania si
assiste al predominio del Bayern Monaco. La squadra bavarese, infatti,
quest’anno ha vinto per la decima volta consecutiva la Bundesliga, segnando
così un record europeo, almeno tra i campionati maggiori. Allo stesso tempo
abbiamo una squadra come l’Eintracht Francoforte, che in Bundesliga è solo
undicesima e però vince l’Europa League.
30.05.2022
Referendum 2022 sulla giustizia. Si avvicina la scadenza referendaria a cui
sono chiamati a partecipare anche gli italiani all'estero. Vi spieghiamo il
contenuto dei quesiti referendari e le modalità di voto con Enzo Savignano in
studio. A difendere le ragioni del sì Marco Bentivogli, sindacalista e
co-fondatore di Base Italia. Per il no invece abbiamo sentito Alfonso Gianni
del "Comitato per il no ai referendum sulla giustizia". https://www1.wdr.de/radio/cosmo/programm/sendungen/radio-colonia/il-tema/referendum-giustizia-100.html
27.05.2022
Dibattito sull'allargamento della Nato
A 25 anni dal
"Patto fondatore" tra Russia e Nato che doveva garantire la pace in
Europa, l'alleanza atlantica è in fase di espansione in seguito all'aggressione
russa in Ucraina. Enzo Savignano ci spiega come funziona l'iter di adesione
alla Nato, sul no di Erdogan all'ingresso di Svezia e Finlandia abbiamo parlato
con la collega di Cosmo Fulya Cansen. Francesco Randazzo, docente di relazioni
internazionali, ci parla dello stato delle forze armate russe.
25.05.2022
9-Euro-Ticket, rivoluzione nei viaggi in Germania. Per tre mesi sarà possibile
viaggiare in tutta la Germania con un biglietto da 9 euro al mese, sui treni
regionali e su bus e tram locali. Vi spieghiamo tutto quello che c'è da sapere
sul 9-Euro-Ticket, ma anche quali sono le critiche, ad esempio di Pro Bahn, e i
rischi di questa misura del governo tedesco contro il carovita e a favore di
una mobilità più sostenibile. Con Roberto Boni, esperto di mobilità, parliamo
poi della transizione al motore elettrico nei trasporti pubblici e nelle auto
private.
24.05.2022. Niente
sanzioni: la fine di Hartz IV? Il Bundestag dice sì alla sospensione delle
sanzioni previste per i percettori del sussidio di disoccupazione di lunga
durata. La decisione è un primo passo verso la riforma del welfare tedesco?
Discordanti le reazioni della politica e nei Jobcenter. Alessia Marusco,
responsabile del Centro di Consulenza per migranti presso la Croce Rossa di
Düsseldorf, racconta la sua esperienza di lavoro accanto ai disoccupati
stranieri. Infine l’economista Mario Deaglio traccia un bilancio sul reddito di
cittadinanza in Italia. https://www1.wdr.de/radio/cosmo/programm/sendungen/radio-colonia/il-tema/hartziv-sanzioni-100.html
23.05.2022. 30
anni fa la strage di Capaci. La politica e la società tedesca ancora fanno
fatica a comprendere il fenomeno mafioso, ne parliamo con Alessandro
Bellardita, magistrato in Germania, giornalista e autore. Abbiamo chiesto a
Giuseppe Ayala, amico e braccio destro di Falcone, di raccontarci il suo
rapporto con il giudice palermitano a 30 anni dalla morte. Una delle principali
attività della mafia è il controllo della filiera dei prodotti agricoli che
finiscono sulle tavole dei consumatori europei: i dettagli da Enzo Savignano.
Vivere in Germania
Scopri il nostro
formato video per rispondere alle domande più frequenti degli italiani che
vivono in Germania. O che stanno pensando di trasferirsi. Guarda i video con
Luciana Mella sulle cose più importanti da sapere sull’AIRE, sull’assicurazione
sanitaria - la Krankenkasse -, sul sistema scolastico ma anche sul mondo del
lavoro, su Hartz IV e altri sussidi e sulla ricerca di una casa:
Musica italiana
non stop. Il nostro web channel COSMO Italia inoltre ti offre due ore di musica
non stop, che puoi ascoltare 24 ore su 24 sulla nostra pagina internet, sulla
app di COSMO e su Spotify.
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Ascolta COSMO
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Streaming e
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Facebook https://www.facebook.com/cosmoitalienisch de.it.press
A Stoccarda uno sportello di ascolto e di consulenza per le donne
Le ACLI
Baden-Württemberg annunciano l’apertura di "Ti ascolto",
"sportello di ascolto e consulenza psicologica” per le donne (senza
distinzione di etnia, religione, orientamento sessuale) che vivono a Stoccarda
e dintorni.
Il servizio, solo
in lingua italiana, è “gratuito*” e viene svolto da Alessia De Carlo, psicologa
dello sviluppo, iscritta all’albo degli psicologi della Regione Toscana.
Il servizio di
ascolto e consulenza psicologica è rivolto a tutte coloro che necessitano di
sostegno psicologico nei casi di: Stress ed emozioni, Gestione dell’ansia, Abitudini nocive, Rapporto genitori-figli adolescenti,
Autostima ed autoefficacia, Motivazioni ed obiettivi, Crescita personale.
Le consulenze si
svolgeranno il lunedì dalle ore 14:00 alle ore 16:00 solo su appuntamento
telefonico al numero 015223842070
Il servizio si
svolge presso il FIZ – Fraueninformationszentrum – Moserstr. 10 - 70182
Stuttgart.
I colloqui si
svolgeranno nel completo rispetto delle norme sulla privacy, in modo da
garantire alle utenti la massima riservatezza.
*Gratuito: sono
gratuiti i primi cinque colloqui per persona. Info presso:
alessia@fuchwaldstrasse.de - aclibw@yahoo.de
Chi è Alessia De
Carlo.
Alessia De Carlo è
una psicologa dello sviluppo e dell'educazione con esperienza di insegnamento
nella scuola italiana per oltre 10 anni. Psicologa dal 2007, iscritta all'albo
degli Psicologi della Toscana e collabora con "Guida Psicologi. È
specializzata nelle difficoltà di relazione, trattamento dello stress e
dell'ansia. Si occupa inoltre di empowerment e crescita personale".
Pino Tabbì, ACLI
Baden-Württemberg (de.it.press)
Monaco di Baviera. “Rinascita” celebra il 50° anniversario dei Giochi
Olimpici del 1972
Monaco di Baviera - L’associazione “Rinascita”, in collaborazione con il
Comites e il Circolo Cento Fiori, il prossimo 2 luglio parteciperà alle
celebrazioni del 50° anniversario dei Giochi Olimpici di Monaco 1972.
“Con questa partecipazione vogliamo apportare il contributo degli italiani
a Monaco di Baviera in un evento simbolo di condivisione di cultura, sport e
pace tra i popoli”, spiega l’associazione rilanciando l’invito a partecipare a
tutti i connazionali.
L'evento inizierà alle 10.30 con una parata dalla Alte Pinakothek alla
Coubertinplatz. Il percorso esatto è di circa 4,2 km. In seguito, tutti i
visitatori saranno invitati a partecipare alla celebrazione congiunta nel parco
olimpico.
Sul lago del parco verrà offerto un ampio programma, naturalmente gratuito.
Contemporaneamente, si svolgeranno il "Festival dei giochi, dello sport e
dell'arte" e i "Giochi sportivi di Monaco". Ci sarà anche
un'offerta gastronomica.
Al punto di partenza, dalle 9.30 circa, Simonetta Soliani distribuirà a
ciascun partecipante 1 braccialetto, 1 bandierina italiana e 1 maglietta blu
con la scritta "Italia" da indossare durante la sfilata [fino ad
esaurimento].
La sfilata si svolgerà anche in caso di pioggia. (aise/dip 19)
Benvenuti a Berlino: 2° incontro informativo con il Comites su fisco e
tasse
Berlino. Si terrà il
prossimo 30 giugno, alle ore 18.00, in diretta streaming sulla pagina Facebook
del Comites Berlino, il secondo incontro informativo di quest’anno della serie
“Benvenuti a Berlino” a tema Fisco e tasse.
Benvenuti a
Berlino è il ciclo di incontri informativi organizzato dal Comites della
circoscrizione consolare di Berlino, Brandeburgo, Sassonia, Sassonia alta e
Turingia, dall'Ambasciata d'Italia e da Il Mitte - Quotidiano di Berlino per
italofoni, per spiegare ai nuovi arrivati e non, tutto quello che c'è da sapere
per una vera integrazione in Germania.
Il secondo
incontro del nuovo ciclo, approfondisce le tematiche legate al tema della
fiscalità in Germania. Introdotto dalla Presidente del Comites Berlino Katia
Squillaci, si terrà in modalità online con una diretta streaming sulla pagina
Facebook del Comites Berlino, per permettere la più ampia partecipazione
possibile anche da parte dei tanti e delle tante connazionali che vivono fuori
dalla capitale tedesca.
Quali sono le
scadenze e i tempi per la dichiarazione dei redditi in Germania? Chi può
svolgere questa mansione in Germania, a chi possiamo affidarci, e cosa possiamo
fare da soli? Parlando di italiani in Germania: dove si ha la residenza fiscale
e cosa la determina? Dove si è tenuti a pagare le tasse?
A queste domande e
ad una serie di quesiti fondamentali in questo senso è Giorgio De Cesare,
consulente fiscale aziendale.
A moderare
l’incontro Lucia Conti direttrice de “Il Mitte”.
Nella prima parte
dell’incontro, l’ospite fornirà una serie di informazioni generali sul tema
della serata, mentre nella seconda parte si lascerà ampio spazio alle domande
da parte del pubblico. (aise/dip)
Aamburgo.
L’Istituto Italiano di Cultura di Amburgo ha lanciato lo scorso 1° giugno il
nuovo progetto “Andar per caffè”, un viaggio virtuale attraverso alcuni
dei caffè storici d’Italia.
Prima tappa di
questa serie, che si inserisce nell’ampia programmazione digitale
dell’Istituto, è il Caffè Tommaseo di Trieste.
Inaugurato nel
1830, il Caffè Tommaseo è il più antico caffè ancora in funzione nella città di
Trieste. Il locale fu uno dei centri del movimento irredentista triestino,
sviluppatosi in Italia a partire dal 1866, e ancora oggi è un luogo di ritrovo
per commercianti, artisti e intellettuali triestini. Il palazzo che lo ospita
fu costruito nel 1824 su iniziativa di due mercanti mantovani, i fratelli
Felice e Vitale Vivante, che commissionarono all’architetto triestino Antonio
Buttazzoni il progetto in piazza dei Negozianti, oggi chiamata piazza Niccolò
Tommaseo. Sei anni più tardi, il padovano Tomaso Marcato aprì il Caffè Tomaso
al piano terra dell’edificio, abbellendo la caffetteria con sedie realizzate
dall’ebanista Michael Thonet e specchi da parete belgi; inoltre commissionò al
pittore friulano Giuseppe Gatteri la decorazione murale. Marcato organizzò
anche numerosi concerti e mostre d’arte di noti pittori e fu il primo a introdurre
la tradizione del gelato a Trieste. Nel 1844 nel caffè venne introdotta
l’illuminazione a gas, che per l’epoca era considerata all’avanguardia della
tecnica. Nel 1848 il locale fu ribattezzato Caffè Tommaseo, in onore dello
scrittore e patriota dalmata Niccolò Tommaseo. Dopo l’esecuzione a morte di
Guglielmo Oberdan nel 1882, apice del movimento irredentista triestino, il nome
della caffetteria fu cambiato in Caffè Tomaso per paura della reazione delle
autorità austro-ungheresi. Solo quando le prime truppe italiane sbarcarono al
molo Audace di Trieste il 3 novembre 1918, unendo così la città all’Italia, il
locale venne nuovamente ridenominato Caffè Tommaseo. Il 7 aprile 1954 il locale
è stato ufficialmente dichiarato monumento storico e artistico. Negli anni
1984-1986 il palazzo fu ristrutturato dalle assicurazioni Generali, mentre nel
1997, su iniziativa del nuovo proprietario, i locali sono stati completamente
ristrutturati e gestiti secondo l’originale tradizione della caffetteria
viennese. La decorazione interna originale è stata in gran parte conservata.
Il nuovo
progetto online dell’IIC di Amburgo racconta un affascinante pezzo di
storia italiana: luoghi dal libero accesso e preziosi scrigni di memoria
collettiva, i caffè hanno rappresentato cruciali punti di incontro e importanti
luoghi di elaborazione culturale per artisti e letterati, oltre che una tappa
fondamentale per la definizione della nuova società borghese italiana.
Attraverso la loro storia, gli arredi originali, le testimonianze fotografiche
e letterarie, i caffè storici restituiscono un osservatorio sulla sfera
pubblica del Paese, sulla definizione e sul cambiamento della percezione del
tempo libero, sulla storia di imprese familiari e sul difficile tentativo
di preservare l’identità storica e culturale.
Il
progetto “Andar per caffè” è fruibile attraverso i canali social
dell’Istituto e si avvale di una importante galleria di immagini, frutto
del coinvolgimento degli enti proprietari, e della piattaforma
openstreetmap, per offrire al pubblico una consultazione “geografica” delle
tappe (13 in tutto con appuntamento fino alla fine di agosto una volta la
settimana il mercoledì) e suggerimenti per un prossimo viaggio in Italia.
Il progetto e i
testi sono stati curati da Anna Vittoria Aiello, studentessa del corso di
laurea magistrale in Lingue Straniere per la Comunicazione
Internazionale presso l’Università degli studi di Torino, che ha svolto un
periodo di tirocinio presso l’IIC di Amburgo nell’ambito della convenzione
Maeci-Miur-Crui.
Le prossime tappe
del viaggio alla scoperta dei caffè storici italiani saranno: Caffè Florian,
Venezia; Caffè Pedrocchi, Padova; Café Pasticceria Gamberini, Bologna; Caffe
Gilli, Firenze; Caffè Meletti, Ascoli Piceno; Antico Caffè Greco, Roma; Gran
Caffè Gamrbinus, Napoli; Caffè Pasticceria Stoppani, Bari; Gran Caffè Renzelli,
Cosenza; Caffè Sicilia, Noto.
Il progetto segue
i successi dei precedenti: Piccole fughe e Tesori di mare, alla scoperta
di mete nascoste e di borghi pittoreschi, nel 2020; Andar per castelli, Piazza
Dante e Andar per isole, nel 2021; e Andar per giardini, un viaggio
attraverso l’Italia per scoprire alcuni dei giardini storici che da secoli
arricchiscono e definiscono il territorio della Penisola, terminato da poco.
(Inform/dip 13)
Auto sulla folla a Berlino: morta insegnante, 12 feriti
Alcuni sono in
gravi condizioni. Arrestato il conducente, un 29enne, bloccato dai passanti
mentre tentava la fuga. Nell'auto trovati manifesti sulla Turchia
In Germania un'auto
si è schiantata sulla folla a Berlino, provocando 1 morto e 12 feriti, 6 in
condizioni molto gravi. La vittima è un'insegnante. La donna, scrive la Bild,
si trovava con i suoi studenti sulla Tauentzienstrasse.
CHI E' L'ARRESTATO
- Il conducente dell'auto, una Renault Clio, è stato fermato dalla folla mentre
stava cercando di fuggire. E' stato consegnato alla polizia che lo sta
interrogando. L'uomo arrestato ha 29 anni, è cittadino tedesco di origine
armena e risiede nella capitale, ha reso noto la polizia. Era già noto alle
forze dell'ordine per reati contro il patrimonio.
NELL'AUTO
MANIFESTI SULLA TURCHIA - Nell'auto sono stati trovati dei manifesti relativi
alla Turchia. Lo ha detto la ministra dell'Interno di Berlino, Iris Spranger,
che avrebbe spiegato che nell'auto non sarebbe stata trovata una "lettera
di confessione", come riportato da alcuni media, ma appunto questi
cartelli.
I TESTIMONI -
L'auto ha investito un gruppo di insegnanti e studenti proveniente dall'Assia,
secondo quanto riporta Focus.de citando una testimone che ha cercato di
prestare soccorso e sostegno al gruppo di ragazzi sotto shock dopo l'impatto.
L'auto che è
piombata sulla folla prima di finire la sua corsa dentro una vetrina viaggiava
ad alta velocità, circa 150 Km/h lungo la Tauentzienstrasse, ha detto a
Berliner Morgenpost un testimone oculare, il cui veicolo è stato sfiorato dalla
Renault coinvolta nell'incidente.
L'ATTACCO AL
MERCATINO DEL 2016 - Il luogo in cui l'auto ha investito la folla è l'incrocio
tra la Rankestrasse e la Tauentzienstrasse, in corrispondenza della
Breitscheidplatz, dove il 19 dicembre 2016 un camion investì un mercatino di
Natale uccidendo 12 persone e ferendone 56. Alla guida del mezzo Anis Amri,
rimasto ucciso pochi giorni più tardi a Sesto San Giovanni durante un controllo
della polizia. Adnkronos 8
La necessità della difesa comune europea e il riarmo della Germania
L’invasione
dell’Ucraina è stato un brusco risveglio per chi pensava che un evento del
genere non potesse mai verificarsi in Europa. Sulla spinta della tragedia in
corso è tornata d’attualità l’esigenza di dotare l’UE di uno strumento adeguato
per una difesa comune, ma raramente si va oltre l’auspicio di una svolta che,
alla fine, lascia il tempo che trova.
La situazione
attuale è tutt’altro che rassicurante: la Nato vede tuttora una preponderante
presenza degli Stati Uniti, che però guardano soprattutto alla Cina come rivale
da fronteggiare in questo momento storico. Nell’Unione Europea ci sono
divergenze sostanziali tra i Paesi dell’Est, sfuggiti alla sfera d’influenza
sovietica dopo la caduta del muro di Berlino, marcatamente nazionalistici e
inclini a creare un rapporto preferenziale con Washington e, il nucleo degli
Stati fondatori più portati a rafforzare l’integrazione.
La sfida di Putin,
forte della dipendenza dal gas russo di importanti economie, come quella
italiana e tedesca, si è inserita in un contesto già di per sé problematico.
L’Europa non solo non può cedere ai ricatti di Putin, ma deve trattare alla
pari, non su posizioni terzaforziste da nessuno giudicate credibili e,
falsamente, autonome.
Se la politica di
sicurezza e difesa dell’UE è uno stress-test per capire le difficoltà di un
processo decisionale sempre più verticalizzato nel Consiglio Europeo e, se la
difesa europea dipende dalla capacità di coordinare al meglio le difese
nazionali, dove esiste non solo un problema di inefficienza e diseconomia nella
spesa militare, ma anche di grave asimmetria, il massiccio riarmo della
Germania, seppure necessario, è destinato ad ostacolare e non certo a
rafforzare la difesa comune.
Come già avvenuto
sul piano economico durante la crisi finanziaria del 2008, una Germania
militarmente forte, in caso di crisi, è spinta a declinare la politica europea
della difesa solo in funzione dei propri interessi geopolitici e geoeconomici.
Inaccettabile per
i Paesi dell’Est europeo, la cui visione politica su come garantire la
sicurezza europea non coincide con quella tedesca e dei Paesi centrali
dell’Eurozona, Italia compresa. La militarizzazione separata rischia di essere
messa così al servizio di interessi geopolitici e geoeconomici divergenti e di
difficile ricomposizione, anzi, se ciò dovesse accadere ad opera della Nato,
sarebbe sempre sulla base di priorità strategiche non europee.
Emerge, ancora una
volta, l’ignoranza del passato, di quel XX secolo che dovrebbe insegnare
proprio per l’atrocità di ben due guerre mondiali che, quando è in gioco la
sicurezza, bisogna superare la logica intergovernativa, che genera solo
divisioni difficili da ricomporre e capire, invece, che occorre dominare gli
eventi e non lasciarsi dominare da essi nell’immediatezza del loro accadere. di
Angela Casilli, de.it.press 14
Salario minimo. Passi avanti in Ue. Schmit (Commissione): “Non lo imponiamo
all’Italia”
Al termine di un
faticoso tour negoziale, nella notte è arrivata l’ufficialità dell’accordo
provvisorio sulla nuova direttiva Ue. Ridurre le diseguaglianze sociali,
combattere la povertà e migliorare la vita dei cittadini europei sono gli
obiettivi di una norma che interviene sulle retribuzioni minime e sulla
contrattazione collettiva - Alberto Baviera
Strasburgo. “In
Italia c’è un ampio dibattito in atto in questo momento per vedere come
rafforzare il sistema delle contrattazioni collettive. Dall’altro lato bisogna
vedere se non sia arrivato il momento di introdurre un salario minimo, che noi
non imponiamo all’Italia”. Lo ha chiarito Nicolas Schmit, commissario europeo
per il Lavoro e i diritti sociali, intervenendo in conferenza stampa, a Strasburgo,
per presentare l’accordo provvisorio al termine del Trilogo (Commissione,
Consiglio e Parlamento europei) sulla nuova direttiva relativa ai salari minimi
adeguati nei Paesi dell’Ue. Al suo fianco Dragos Pîslaru, europarlamentare
romeno che presiede la Commissione per l’occupazione e gli affari sociali, e i
correlatori del provvedimento, il tedesco Dennis Radtke e l’olandese Agnes
Jongerius. I volti non nascondono stanchezza ma anche soddisfazione. L’accordo,
infatti, è arrivato nella notte.
Un passo definito
“storico” per i lavoratori europei anche se prima che diventi una realtà ci
vorranno almeno un paio di anni: quanto siglato dovrà essere confermato dal
Comitato dei rappresentanti permanenti dei governi degli Stati membri
dell’Unione europea (Coreper) prima dell’approvazione sia del Consiglio che del
Parlamento europeo. Successivamente gli Stati membri avranno due anni per
recepire la direttiva nel diritto nazionale. Una volta adottata, la nuova legge
promuoverà l’adeguatezza dei salari minimi legali e contribuirà a raggiungere
condizioni di lavoro e di vita dignitose per i lavoratori europei tenendo
conto, ha spiegato Pîslaru, “delle diversità esistenti nei Paesi e delle buone
pratiche” già in atto. Reduci da un faticoso tour negoziale, gli europarlamentari
hanno rimarcato come con questa direttiva “il pilastro sociale è realtà”. Per
Jongerius, “i lavoratori sono i vincitori di tutto questo programma” perché
“essere tutelati dalla contrattazione collettiva è la miglior protezione contro
la povertà lavorativa”.
Il tasso fissato
dalla direttiva è di almeno l’80%, “un aspetto che è molto vincolante”, ha
precisato Radtke. Relativamente alle retribuzioni, l’europarlamentare tedesco
ha spiegato che con la nuova norma “diciamo agli Stati membri che i salari minimi
sono adeguati se rappresentano il 60% del salario medio” nel Paese.
Da un’analisi di
questo indice, ha sottolineato Jongerius, “oltre ai Paesi Bassi ci sono altri 22
Stati membri a dover aumentare il salario minimo”, un intervento che
“complessivamente riguarda 24 milioni di lavoratori in Europa”. Per questo tra
Strasburgo e Bruxelles sono convinti che si tratti di una direttiva che “farà
davvero la differenza”. E che, ha rilevato Schmit, è una prima risposta a ciò
che emerso durante i lavori della Conferenza sul futuro dell’Europa quando i
cittadini hanno chiesto l’introduzione dei salari minimi perché “nessuno deve
vivere in povertà mentre lavora”. Il provvedimento compie un passo importante
in una fase congiunturale difficile: in una situazione di forte inflazione – è
stato rilevato – i salari bassi non devono risentire di questo aumento.
Inoltre, l’imperativo del commissario, “non dobbiamo ridurre i salari reali perché
ci portano a stagflazione”.
Le istituzioni
europee sono convinte di aver trovato un buon punto di equilibrio tra le
esigenze dei lavoratori – “anche i datori di lavoro hanno interesse a che ci
siano salari minimi”, ha osservato Schmit – e le realtà dei singoli Paesi, dove
non manca un dibattito a volte acceso. Dalla Svezia alla Danimarca, dalla
Germania all’Italia non mancano le critiche, i timori, i rilievi. Ma
europarlamentari e commissario si sono detti ottimisti per un esito positivo
per la direttiva. Riguardo all’Italia, poi, Schmit ha affermato di essere
“molto fiducioso che alla fine il governo italiano e le parti sociali, che
hanno un ruolo importante, raggiungeranno un buon accordo per rafforzare le
contrattazioni collettive, soprattutto per coloro che non sono ben tutelati.
Per poi giungere alla conclusione che potrebbe essere importante introdurre il
sistema del salario minimo in Italia. Ma spetta al governo italiano e alle
parti sociali farlo”. Sir 7
Questo
quindicinale è una certezza che merita d’essere approfondita. Intendiamo
valorizzarne le specifiche competenze. Non solo per una questione di criterio.
Saremo, infatti, operativi nella misura in cui i Lettori intenderanno
servirsene.
Il “Progetto”
vuole essere un naturale polo d’informazione su quanto può interessare la
nostra Comunità in Germania. I problemi, di norma, non hanno confini
geografici; semmai politici. Ed è per questo motivo che il nostro impegno resta
distribuito a livello internazionale.
In seguito,
andremo a specificare anche distinte realtà continentali. La nostra
disponibilità resta a tutto campo. Con l’opportunità di fornire un contributo
informativo a chi è intenzionato a chiederlo.
Siamo sicuri che
l’iniziativa non sarà messa in disparte; anche perché è l’unica a prendere atto
dei molteplici settori che possono interessare i Connazionali all’estero e non
solo. L’invito resta evidente: “Fateci conoscere ciò che vi può interessare sia
nei Paesi ospiti, sia in Patria”.
La realtà è,
riepilogando, come l’abbiamo rilevata. Siamo certi che l’operatività del
“Progetto” continuerà ad avere utili riscontri. Intanto, invitiamo i Lettori a
segnalarci i loro punti di vista; anche perché il nostro impegno non ha né
confini politici né, tantomeno, territoriali. Questa realtà editoriale è, e
rimane, un servizio.
Giorgio Brignola,
de.it.press
Premetto al
lettore che questo articolo potrebbe “apparire” scorretto ma, mi creda, non lo
è. E’ semplicemente empirico perché si basa sui dati e sui fatti. Pochi giorni
fa siamo stati assaliti da innumerevoli e altisonanti peana in Tv, nelle radio
e sulla carta stampata per la ricorrenza della festa della Repubblica del 2
giugno. Giustissimo onorarla e festeggiarla perché è stata una grande conquista
dei nostri Padri. Però qualcosa di enorme le è stato caricato sulle spalle e
che offusca e lede la sua forza intrinseca. Se questi fardelli non le saranno
prima alleggeriti e, poi, tolti sarà difficile che essa potrà svilupparsi ma
potrà, al massimo forse, sopravvivere. I fardelli sono di 4 tipi e tutti
rilevanti. I primi due sono la “giustizia e la stampa” che marciano a braccetto
da un trentennio fatte salve isolate eccezioni. Il fenomeno del processo
mediatico vede all’opera alcune procure ed alcune testate che sbattono il
mostro di turno in prima pagina e, senza che questi ne sia informato, si trova
già esposto al pubblico ludibrio. L’opera viene completata nel pomeriggio e di
sera dove, sedicenti talk show, distruggono completamente il povero malcapitato
di turno. Purtroppo questa situazione, a dir poco illiberale, va avanti da 30
anni circa e la politica non è riuscita mai a tentare un riequilibrio basti
guardare quello che va sotto l’abusato nome di “riforma Cartabia” che non
riforma nulla sottoposta, come è stata, a un tirar di giacca da tutte le parti.
Neanche le grandi denunce fatte da Palamara hanno smosso, sostanzialmente, le
acque chete della nostra giustizia.
Il terzo punto
riguarda il “fisco”. La questione fiscale in Italia è sempre stata, a dir poco,
paradossale infatti da un lato si promulgano leggi, decreti, ordinanze e grida
di manzoniana memoria e più la soluzione di far pagare a tutti il giusto si
allontana sempre più. Si consente, ad esempio, alle grandi società che
fatturano miliardi di euro di poter portare la residenza fiscale negli appositi
“paradisi fiscali europei” come Lussemburgo, Olanda, Irlanda ecc. mentre i
poderosi uffici dell’agenzia delle Entrate si scatenano su un’eventuale multa
non pagata. A proposito, e senza vis polemica, mi chiedo perche si chiami solo
delle Entrate e non anche delle Uscite, visto e considerato che è anche a tal
ruolo preposta attraverso i rimborsi? L’attuale direttore dell’Agenzia delle
Entrate, Ernesto Maria Ruffini, forse non si è reso conto di aver presentato la
propria lettera di dimissioni quando, alla nell’autorevole Commissione
parlamentare per il federalismo fiscale, ha affermato che negli ultimi 20 anni
il suo ufficio ha accertato 1.100 miliardi di euro di crediti non riscossi. Di
fronte a questo totale fallimento si dovrebbero pretendere dal Parlamento le
dimissioni del Ruffini e di qualche migliaio fra dirigenti e funzionari. Invece
niente, si divertono a perseguitare il pensionato che va a ritirare più di
1.000 euro in contanti. Proposta del direttore la solita: ci manca il
personale! Ed è quello che tutti gli uffici, o quasi, della macchina pubblica
affermano innanzi ai loro complessivi fallimenti. E’ inaccettabile! Avrei
capito che, a fronte di 1.100 miliardi se ne fossero recuperati la metà, allora
poteva anche essere comprensibile la richiesta di altro personale ma così è
assurdo e fa perdere di fiducia nella Repubblica italiana e nei suoi valori.
Il quarto punto
che ci pone fuori dalla competizione internazionale è quel mostro sacro che va
sotto il nome di “Burocrazia”. Partiamo dal livello nazionale con i famigerati
“decreti attuativi”. Fin dal suo insediamento, il governo Draghi ha riposto una
grande attenzione nel cercare di risolvere l’annoso problema. Quelle norme che
contengono le indicazioni operative e precise di dettaglio indispensabili
affinchè vi possa essere l’applicazione pratica delle disposizioni stabilite da
leggi, decreti legge e decreti legislativi. Lo stato dell’arte grazie ai dati
messi a disposizione dall’ufficio per il programma di governo (Upg) possiamo
osservare che, al 23 maggio scorso, le attuazioni richieste per le norme
pubblicate nella XVIII legislatura sono 1.656, di cui 510 ancora da pubblicare.
Mancano all’appello più del 30% di decreti e leggi già approvate che, però, non
possono essere ancora applicate. Se si passa al tour de force a cui deve
sottostare l’apertura di una nuova impresa, al di là del record europeo per gli
alti costi, emerge il martirio asfissiante a cui sono sottoposti i nuovi
imprenditori schiacciati dagli uffici dei Comuni, Asl, Provincia, eventuali
Parchi, città metropolitane, vincoli paesaggistici, vincoli urbanistici, ENAV, Vigili del Fuoco, ENAC,
ASI, ARPA, ISPRA, VIA, SUAP e associazioni di ogni ordine e grado che si
oppongono a tutto e a tutti per cui alla forte spesa si aggiungono
mortificazioni e perdite di tempo infinite alla fine delle quali decidono di
lasciar perdere oppure se ne vanno all’estero. Nella nostra inestricabile
ragnatela burocratica i signori burocrati dispongono, a loro vantaggio e
favore, una discrezionalità
impenetrabile che li pone al di sopra di tutto e tutti, un arcipelago di norme
che ora consentono una cosa e nella legge successiva la mettono in dubbio, dei
regolamenti inumani che sono, spesso, fuori da ogni logica, per non parlare di
alcune misure stravaganti, molte sanzioni assurde, senza dimenticare la
retrodatazione nell’applicazione di nuove norme, l’inversione dell’onere della
prova per cui loro sbagliano ed il cittadino deve dimostrare di non aver sbagliato,
le distorsioni sistemiche nel loro totale complesso, le persecuzioni senza
senso e senza logica in cui il cittadino è di fatto retrocesso a suddito,
continui ricorsi al tar su tutto quanto
viene approvato senza dimenticare certi strani e molto particolari arbitrati. I
sevizi apparentemente costruiti per i cittadini sono costruiti, spesso e
volentieri, per coloro che vi operano e
non per gli utenti (clienti). Il tutto è dominato da un esasperato ed
inconcludente formalismo, da una demagogia persecutoria accompagnata e sorretta
molto spesso da demenziali tortuosità e, purtroppo va segnalato ed evidenziato,
anche da una particolare visione di fare un certo tipo di
sindacato. Poi ci sono le corporazioni che, ovviamente, portano nomi diverse da
quello che sono in realtà. Senza dimenticare che Italia esistono ben 19 ordini
e 8 collegi professionali. In totale ci sono 27 diverse professioni che
richiedono l’iscrizione a un albo, per un totale di oltre 2 milioni di iscritti
ed aderenti. Oggi in Italia abbiamo poco più che gli stessi notai di un secolo
fa. Nel 1914 erano 4.310, adesso sono circa 5.000 ed in molti Paesi non
esistono neanche e non mi pare che da loro le cose vadano peggio che da noi.
Pubblici dipendenti, notai, farmacisti, giornalisti, avvocati, magistrati,
mondo accademico, medici, veterinari, ma anche psicologi, agronomi, consulenti
del lavoro, ingegneri, commercialisti, architetti, giornalisti, farmacisti ecc.
ecc. ognuno di questi gruppi mantiene il proprio fortilizio di interessi dentro
il quale è costretto ad entrare il semplice cittadino che ne esce, spesso,
triturato. Tutte queste corporazioni hanno adottato il N.I.M.B.Y.: Not in my
back yard ovvero fate tutto quello che volete ma non nel mio cortile!
“Non importa
che il gatto sia bianco o nero;
ciò che importa è che acchiappi i topi”.
Questo motto cinese che rivela tutta l’empirica sapienza di quel popolo lo
dovremmo fare totalmente nostro ed invece, quasi sempre, ci accapigliamo per il
colore da scegliere. Raffaele Romano, de.it.press 11
Positivo primo accordo per la ridistribuzione (volontaria) dei migranti che
arrivano via mare
Roma – La Commissione
europea e la presidenza francese del Consiglio si riuniscono nei prossimi
giorni per mettere a punto la piattaforma di solidarietà approvata venerdì
scorso in tema di richiedenti asilo. I ministri dell’Interno dei Paesi UE hanno
raggiunto un primo accordo per la ridistribuzione (volontaria) dei migranti che
arrivano via mare, con l’obiettivo di alleviare il peso sui Paesi di primo
sbarco. La ricollocazione dei richiedenti asilo sarebbe volontaria ma chi si
rifiuta di partecipare sarebbe obbligato a offrire un sostegno finanziario
diretto ai Paesi di primo arrivo. Di segnale importante parla, alla Radio
Vaticana e Vaticannews, mons. Gian Carlo Perego, presidente della Commissione
Cei per le Migrazioni e della Fondazione Migrantes. Un “passo avanti
significativo” in termini di messaggio offerto dai ministri degli Interni. Il
presule sottolinea che servono altre decisioni a livello istituzionale per
rendere operativa questa indicazione ma certamente – afferma – si tratta di un
primo pronunciamento a nome dei governi importante anche perché chiarisce che i
Paesi di primo approdo non possono essere lasciati soli nel gestire
un’emergenza. Mons. Perego ricorda che da tempo se ne parla con precedenti di
tensione e con tentativi di incoraggiare alla corresponsabilità. Un meccanismo
che obbliga all’accoglienza o che impone comunque un contributo economico può
aiutare nella sensibilizzazione dei Paesi che si sentono fuori dalle rotte.
Peraltro monsignor Perego accenna alla questione ucraina come ad un tragico evento
che ha aperto nuovi orizzonti di migrazioni per Paesi non toccati dalle rotte
sul Mediterraneo”. Mig. On. 13
La guerra di Putin vista da Andrei Kolesnikov
Andrei Kolesnikov
è ricercatore presso il Carnegie Endowment for International Peace.di Mosca, un
istituto di ricerca che è stato chiuso poco dopo l’inizio della guerra russa
contro l’Ucraina. La ricerca di Kolesnikov si concentra sulle principali
tendenze che plasmano la politica interna russa, con particolare attenzione ai
cambiamenti ideologici all’interno della società russa.
Grazie Andrei per
aver accettato il nostro invito. Mi permetta di chiederle direttamente: qual è
il motivo principale per cui il Presidente Putin ha avviato la guerra su larga
scala contro l’Ucraina?
Non vedo alcuna ragione
razionale. È piuttosto la sua personale idea dell’ordine mondiale. L’Occidente
non lo ha riconosciuto come un suo pari per diversi decenni e Putin ha deciso
di iniziare a ricostruire il mondo per sé. Per farlo, aveva bisogno di azioni
straordinarie, come questa guerra. E credo che anche mobilitare le masse a suo
sostegno sia un obiettivo importante, ma secondario, perché l’obiettivo
principale è creare, ricreare, rifare il mondo secondo le sue regole, secondo
la sua visione del mondo. Tutto questo sembra irrazionale e orribile per il XXI
secolo; ma lui è una persona della metà del XX secolo e per questo si è
comportato così. E parlando di questioni razionali, direi che, non so se lo
volesse o meno, ma ha rafforzato il suo potere personalistico, all’interno
della Russia. Per i russi è diventato più forte, e per i russi intendo non solo
il pubblico, ma anche l’elite.
Pur partendo dal
presupposto che la Russia ha invaso l’Ucraina, qui in Italia c’è ancora un
grande dibattito su chi debba essere incolpato in questa guerra. Un’ipotesi è
che l’intenzione dell’Ucraina di entrare nella NATO o, più in generale,
l’espansione della NATO verso est dal 1999 sia stata la motivazione che ha
spinto il presidente Putin a invadere l’Ucraina. Ci sono poi altri gruppi di esperti
che ritengono che questa politica estera assertiva abbia in realtà a che fare
con la politica interna di Putin e sia più legata al rafforzamento
dell’autoritarismo in Russia. Lei che ne pensa?
Si tratta più che
altro della natura autoritaria del regime russo. Forse non è così visibile
dall’Occidente, ma dal 2012, quando Putin è tornato al potere, e dal 2014,
quando ha annesso la Crimea, ha provocato un’ondata senza precedenti di,
diciamo, quasi-patriottismo. Dal 2020 poi, quando aveva quasi terminato il suo
mandato presidenziale e annullato le conquiste democratiche della Russia, ha
costruito un regime autoritario a tutti gli effetti, persino con elementi di
totalitarismo, in termini di mobilitazione della gente, cercando di far sì che
la gente si esprimesse maggiormente a sostegno di questo regime con la dura
repressione non solo dell’opposizione politica, ma anche della società civile
in quanto tale. Quindi, la Nato non è un motivo reale, è un motivo artificiale.
Tutti capiscono che la Nato non era affatto una minaccia per la Russia.
Putin crede che
l’Ucraina sia sempre stato il suo territorio, che gli appartiene e che
l’Occidente dovesse allontanarsi da esso. E dopo anni di stallo, perché con i
negoziati di Minsk ha semplicemente imitato l’attività pacifica, l’attività
negoziale, ha deciso di compiere dei passi risoluti per raggiungere il suo
obiettivo personale di rendere l’Ucraina parte della Russia. E, ancora una
volta, in questo senso, l’Unione europea, la Nato, gli Stati Uniti d’America sono
semplicemente delle ragioni artificiali per questo conflitto. Putin ha
semplicemente perseguito i propri obiettivi.
Quando dice che
voleva rendere l’Ucraina parte della Russia, cosa intende esattamente? Voglio
dire, parte della Federazione Russa, o c’era qualche progetto per creare una
confederazione tra Russia, Bielorussia e Ucraina?
Possiamo parlare
in termini di territori, legalità, confini legali, qualcosa del genere, ma lui
pensa in termini ideologici, filosofici, come “Russkiy Mir”, “il mondo russo”.
E in questo senso, almeno il centro est, il sud dell’Ucraina, questi territori
del mondo russo, forse in forma di Stato cuscinetto, forse in forma di
territorio quasi legale della Russia, non importa. Vuole semplicemente
controllare il territorio. In questo senso, vuole semplicemente ricreare, in
qualche misura, l’impero russo. Putin è principalmente imperialista, non
nazionalista russo. Per lui è importante ricreare la giustizia, restituire i
territori. E in questo momento sta raggiungendo questo obiettivo. Quando ha
occupato, ad esempio, i territori della regione di Kherson, le zone nella
regione di Zaparojia, intendeva dire che non si trattava di un’occupazione, ma
di una liberazione di questi territori. Sì, inizialmente non era il suo
obiettivo. Intendeva solo Donetsk e Luhansk, ma in questa situazione, se
l’esercito russo ha preso questi territori, è una buona ragione per tenerli
sotto il controllo russo. Forse, secondo lui, potrebbero essere territori
indipendenti. Potrebbero essere territori che fanno parte della Russia. Questa
è una questione secondaria per lui, la storia più importante è il controllo su
questi territori.
Quindi, seguendo
la sua logica, Putin dovrebbe essere contrario non solo all’adesione
dell’Ucraina alla Nato, ma anche all’adesione dell’Ucraina all’Ue, perché ciò
implicherebbe la perdita di tutta l’Ucraina, della sua orbita geoeconomica e
geoculturale?
Assolutamente sì,
ha ragione. Questa è la sua interpretazione. E in alcuni discorsi il Ministro
degli Esteri Lavrov ha affermato che l’adesione dell’Ucraina all’Unione europea
è inaccettabile per la Russia. Quindi, possiamo parlare dell’argomento in
termini culturali e storici. Per la Russia è davvero ideologicamente
inaccettabile qualsiasi tipo di adesione dell’Ucraina a un’organizzazione
europea. È impossibile ancorare l’Ucraina all’Occidente. E ricordiamo che nel
2014, il principale fattore scatenante dell’aggressione russa e dell’invasione
della Crimea è stato il fatto che l’Ucraina avesse deciso di firmare gli
accordi di associazione con Unione europea. Quindi, in questo senso, Putin
continua semplicemente la sua strategia.
Quando Putin ha
iniziato la guerra il 24 febbraio, sembrava che il suo obiettivo generale fosse
quello di controllare l’intera Ucraina, per questo ha tentato di assaltare
Kyiv. Poi abbiamo visto che l’Ucraina è riuscita a difendersi e ora Lavrov,
alcuni giorni fa, ha detto che la priorità sarebbe stata quella di difendere o
liberare la regione del Donbass. Ma ancora una volta, stiamo assistendo
all’occupazione di Kherson, Melitopol e Mariupol. E ce chi sostiene che il
Cremlino stia ancora considerando un altro assalto a Kyiev dopo aver completato
la battaglia nel Donbass. Quindi, esiste un obiettivo finale in questa fase
della guerra? Oppure, se sarà deciso sul campo di battaglia, quale sarà
l’obiettivo finale?
Putin ripete
continuamente che tutto va secondo il suo piano, ma nessuno conosce i dettagli
del suo piano, né le fasi intermedie di questo piano. E direi che gli obiettivi
di Putin sono opportunistici, dipendono dalle situazioni attuali, dalla
situazione attuale dei campi di battaglia, dai negoziati impossibili che sono
scomparsi. Il problema è che per lui non c’è modo di tornare indietro, perché
impantanandosi nella guerra, espandendosi come territorio da occupare, non
mostrando buona volontà, Putin sta tagliando la strada ai negoziati di pace.
Questo è il problema principale. E in questo senso, non ha un obiettivo
generale.
Ha solo obiettivi
temporanei, intermedi, e cambia continuamente piano. Possiamo seguire qualsiasi
uso, qualsiasi parola del Ministro degli Affari Esteri, del Ministro della
Difesa, di diversi diplomatici, dello speaker della Duma, eccetera eccetera, ma
solo Putin prende le decisioni finali. E può fermare questa guerra, in
qualsiasi momento e anche se sarà considerata dall’Occidente o dall’Ucraina
come una sconfitta della Russia, Putin troverà le parole per descrivere la
sconfitta come una vittoria, e sarà accettata, percepita dalla maggioranza
della popolazione come una vittoria. Quindi, tutto dipende dalla sua personale
comprensione della situazione attuale.
Quindi, questo
significa che in realtà non c’è alcun problema per lui ad avere una strategia
di uscita, poiché qualsiasi tipo di risultato può essere venduto come una
vittoria?
Sì, sì, assolutamente.
Immaginiamo che domani voglia fermare questa guerra. Può dire: “Abbiamo
liberato quasi tutto il territorio di Donetsk e Luhansk. Abbiamo dimostrato la
nostra forza. Tutto il mondo era contro di noi, ma abbiamo difeso la nostra
sovranità. Abbiamo la prova che siamo forti, che possiamo vivere senza
l’Occidente. Siamo autosufficienti”. Può annunciare che, ad esempio sui
territori di Kherson e Zaporizshia, ci saranno dei referendum, oppure può
suggerire alla parte ucraina di iniziare i negoziati sullo status di questi
territori, qualsiasi cosa. Quindi la gente dirà: Ok, questo è un risultato
accettabile, questo è un buon momento per fermare la guerra e ricominciare a
vivere come prima della guerra, cosi l’occidente può rimuovere le sanzioni
perché vogliamo andare in vacanza in Europa”. Quindi, la gente è molto
flessibile in termini di comportamento e di accettazione di qualsiasi risultato
di questa campagna.
Ok. Ma cosa sta
succedendo nella realtà? Voglio dire, c’è un piano reale per organizzare nei
prossimi giorni -o forse più tardi, a settembre – dei referendum a Kherson per
ripetere lo scenario di Donetsk-Luhansk?
È un’opzione
possibile, perché per il momento, nonostante il nostro scenario immaginario di
finire la guerra domani, Putin non ha alcuna intenzione di farlo nella realtà.
Non credo che il Cremlino abbia una decisione definitiva su questo argomento,
perché ci sono segnali molto contraddittori dal Cremlino e da diversi oratori.
L’addetto stampa del presidente ha detto che il Cremlino non ha una decisione
in merito, ma allo stesso tempo qui è il vecchio mantra del Cremlino che la
gente di quel territorio è in grado, deciderà da sola, dove vuole vivere sul
territorio del regime neonazista o in Russia, in libertà e avendo molte
capacità di sviluppare questi territori. Tradotto dal linguaggio del Cremlino
al linguaggio normale, significa che hanno intenzione di occupare i territori,
imitando il referendum e dimostrando la volontà della maggioranza della
popolazione dei territori. Quindi, significa che i normali colloqui di pace
sono abbastanza problematici, perché capiamo che la parte ucraina non sarà
pronta a discutere questi punti… i territori devono essere liberati
dall’esercito russo, e potrebbe essere il primo punto di questi possibili
negoziati di pace.
Quindi lei pensa
che in questo momento non ci siano speranze realistiche per i negoziati?
Sì. E il problema principale
è Putin stesso. È lui la principale fonte di problemi in senso generale – come
nel caso dell’inizio dell’operazione speciale, dell’instaurazione del regime
autoritario in Russia – ma è lui la fonte del fallimento del processo
negoziale. Non ha alcun tipo di buona volontà, non dimostra la sua buona fede.
Si comporta come una persona che semplicemente osserva la situazione. È stato
così durante i negoziati di Istanbul, quando nessuno ha osservato alcun tipo di
opinione di Putin su questo problema, se accettasse o meno i punti di questo
accordo, un possibile accordo, [in quanto] è rimasto muto. E questo significa
che vuole continuare, forse capisce i rischi economici per la Russia. Non è un
folle, ma allo stesso tempo è molto più importante per lui continuare questo
processo di conferma dei punti di forza della sua politica, di sé stesso, del
suo Paese, della sua Russia.
Quindi tutto si
deciderà sul campo di battaglia, ma quanto è realmente informato Putin su ciò
che accade sul campo di battaglia? Perché ci sono state alcune voci secondo cui
ha tutti questi yes-men e non ha informazioni reali sulla situazione in corso
sulle operazioni militari.
Nel periodo
prebellico ha ripetuto più volte che le informazioni dei servizi speciali sono
particolarmente affidabili per lui. Ciò significa che ha avuto informazioni
false per molti, molti, molti anni. Ed è stato un fallimento del intelligence.
Si è trattato di una vera e propria comprensione sbagliata di ciò che è
l’Ucraina nelle circostanze attuali, di ciò che è l’auto-identificazione
ucraina, di ciò che è l’anima ucraina, la coscienza ucraina, ecc. Quindi ha
commesso un errore, ma ora continua a insistere sulla sua posizione. Forse sta
cercando di creare questo mondo artificiale, non solo per la popolazione russa,
non solo per il pubblico interno, ma forse anche per sé stesso. Si tratta di
una sorta di circolo vizioso di disinformazione [da] quando è stato
disinformato dai suoi servizi speciali.
Poi, i suoi organi
di propaganda hanno disinformato la popolazione russa. E ora tutta questa
atmosfera di informazione rovina la sua stessa comprensione dell’attuale
situazione sul campo di battaglia e, in generale, del conflitto russo-ucraino.
Penso che, sì, in generale, sia davvero disinformato. E forse personalmente non
è in grado di lavorare con le informazioni perché, sta continuando a
comportarsi come un ufficiale del KGB, non di più ma con diversi pregiudizi.
Ma, nelle attuali circostanze, deve lavorare in modo moderno con diversi tipi
di informazioni da diverse fonti. Non ha questa capacità, diciamo.
Volevo tornare
alla domanda iniziale, cioè se l’Occidente avrebbe potuto fare qualcosa per
evitare questa guerra e se, più in generale, questa guerra avrebbe potuto
essere evitata.
Penso che non
fosse possibile evitare questa guerra, perché l’unica fonte di questa
cosiddetta operazione speciale è Putin stesso, e l’Occidente ha fatto del suo
meglio. Direi che tutti questi negoziati, tutti questi tentativi di capire la
posizione di Putin, l’anima di Putin, diciamo, tutti questi tentativi di
compiacere Putin sono stati tutti vani. Putin ha cercato di fermarsi ma la sua
parte emotiva era molto più forte quando ha preso questa orribile decisione di
iniziare l’ “operazione speciale”. Quindi non posso incolpare l’Occidente in questo
senso. Il problema di Putin è Putin stesso. Il problema della Russia è Putin.
La storia della Russia degli ultimi anni è fortemente personalizzata da Putin e
dobbiamo ammetterlo.
La mia ultima
domanda è: il putinismo è possibile senza Putin?
Sì e no. Da un
lato temo che anche senza Putin la Russia manterrà lo status di Stato
autoritario, ma allo stesso tempo la storia della Russia, la storia dell’Unione
Sovietica dimostrano che la scomparsa del leader cambia quasi tutto, anche
quando Stalin è morto da un giorno all’altro, i suoi più stretti alleati hanno
iniziato la liberalizzazione del regime e del sistema. Quindi, credo che nel
caso in cui gli alleati di Putin, per esempio uno come Patrushev, vengano
mantenuti, la liberalizzazione di questo regime potrebbe essere molto modesta
nei primi anni. Ma in generale questo processo è inevitabile. Nona Mikhelidze,
AffInt 16
Vivere nel Bel
Paese è sempre difficile. Questo Esecutivo ci riserverà passi imprevisti. La
situazione è tanto anomala da non poter neppure supporre se l’attuale Governo
sarà in grado di ridare stimolo a un’economia che è in declino per i vincoli di
un progetto di non semplice attuazione. Ora una classe sociale è, in sostanza,
sublimata. Tra “povertà” e “ricchezza” non esistono più vie interposte. Come a
scrivere che la classe “borghese” è stata rimossa da una serie d’eventi che
hanno anche impoverito il Paese.
I redditi da lavoro dipendente o da vitalizio
(pensioni) saranno ancora i più colpiti. La mancanza di liquidità è una delle
peggiori piaghe che possono colpire un Paese. Quale garanzia ci potrà
assicurare questo Governo? Ci sarebbero anche altri interrogativi da esporre.
Preferiamo, però, evitarli perché non consentirebbero, al momento, nessuna
risposta efficace.
Se, tuttavia,
questo Esecutivo consentirà una sorta di “compromesso” politico responsabile,
potremmo anche essere più disponibili a un riscontro meno contraddittorio. Però
questa scelta non appare proprio praticabile perché questo Esecutivo, pur se a
“muso duro”, non sembra in grado di programmare strategie veramente innovative
avvalorate da un Potere Legislativo coerente. Insomma, imbastire un programma
di governo, svincolato da legacci economici, resta d’improbabile attuazione. Ma prima di tornare alle urne ci vuole una
nuova legge elettorale. Giorgio Brignola, de.it.press
L’Italia nella Nato tra deterrenza europea e necessità mediterranee
L’aggressione
militare russa in Ucraina iniziata il 24 febbraio di quest’anno ha riacceso i
riflettori sulla necessità, per l’Italia, di lavorare insieme ai partner
transatlantici per gestire l’impatto che tale invasione – il tentativo russo di
cambiare le fondamenta del sistema di sicurezza europea costruito negli ultimi
30 anni – ha avuto.
Questo sforzo, in
realtà, è in atto già da alcuni anni. Gli eventi del 2014, con l’annessione
illegale russa della Crimea e l’inizio del conflitto a bassa intensità nel
Donbas, ridiedero già slancio alla necessità, per la Nato, di adottare misure
diverse in Europa centro-orientale sia per rassicurare i paesi di tale spazio
sia per mandare un messaggio di deterrenza alla Russia, e l’Italia da allora è
partecipe di tali sforzi.
Le iniziative
della Nato per la deterrenza
Al summit di
Varsavia del luglio 2016, la Nato lanciò l’iniziativa Enhanced Forward Presence
(EFP), forza di difesa e deterrenza schierata in Polonia, Lettonia, Lituania ed
Estonia. Attraverso l’EFP, l’Alleanza ha schierato per la prima volta forze di
combattimento a est dell’ex confine est-ovest della Germania, sebbene lo abbia
fatto su base rotazionale piuttosto che permanente, in modo da rispettare una
disposizione specifica dell’atto costitutivo NATO-Russia del 1997.
L’Italia decise di
contribuire, pur sottolineando di averlo fatto “non [come] politica di
aggressione nei confronti della Russia, ma di rassicurazione e difesa dei
nostri confini come alleanza atlantica”, come rimarcato dall’allora ministro
degli Esteri Paolo Gentiloni. Il contingente italiano è stato schierato in
Lettonia. Nella stessa logica, l’Italia partecipa alla missione Enhanced Air
Policing (EAP) in Romania. I caccia italiani sarebbero dovuti rientrare in
Italia dopo che Roma ha consegnato il comando della missione ai britannici
nell’aprile 2022, ma sono rimasti, raddoppiando (passando da quattro a otto.)
Roma inoltre è tra i principali contributori ad altre missioni di polizia aerea
della Nato, con supporto ad attività di pattugliamento aereo in Islanda,
Bulgaria, Slovenia, Macedonia del Nord e Montenegro.
Dopo febbraio,
l’Italia si è anche ulteriormente impegnata nel rafforzare il proprio supporto
alle attività di deterrenza Nato. In tal senso, vi è una piena identità di
veduta tra Draghi e Guerini. L’Italia ha annunciato l’intenzione di rafforzare
i proprio contingenti – previa approvazione parlamentare – in Bulgaria e
Ungheria, rispettivamente di 750 e 250 unità. In Bulgaria il passaggio è
particolarmente importante, visto che l’Italia assumerà il ruolo di Framework Nation,
con responsabilità di comando, controllo, e logistica. A tale sforzo sul fronte
orientale, corrisponde anche una più marcata azione italiana rispetto alla
cosiddetta sponda sud, sforzo che in realtà precede l’inizio della guerra
d’aggressione russa in Ucraina.
L’impegno
crescente dell’Italia
In questo
contesto, l’Italia sta assumendo anche una serie di crescenti responsabilità
militari. Nel febbraio 2021, la Nato ha annunciato che l’Italia avrebbe assunto
il controllo della missione in Iraq dalla Danimarca nel 2022. Inoltre, insieme
ad una presenza militare non combattente in Libia, l’Italia sta diventando
sempre più coinvolta diplomaticamente, con l’apertura di nuove ambasciate, e
militarmente nel Sahel, sebbene nelle ultime settimane ci sia incertezza sul
futuro del ruolo europeo in questo spazio.
Tali decisioni
sono conseguenza di una serie di interessi di fondo. In primis, la necessità,
nata dopo il 2014 e rafforzatasi in maniera decisiva dopo il 24 febbraio di
quest’anno, di prendere sul serio le paure degli alleati centro-orientali
rispetto al revanscismo russo. Tale passaggio, in passato, non ha sempre
incontrato orecchie attente a Roma. L’attuale governo, con un asse atlantista
molto marcato centrato su Draghi e Guerini, ha lavorato sin dall’inizio della
guerra in Ucraina per dimostrare coi fatti come l’Italia supporti tali attività
di deterrenza sul fronte orientale.
Alcune di queste
operazioni, come quelle in Lettonia e Romania, vanno avanti dal 2017, e non
furono abbandonate neanche dal governo populista giallo-verde targato Movimento
5 Stelle e Lega nato nel 2018, partiti ad oggi tra le forze politiche più
sensibili agli interessi di Mosca esistenti in Italia. A dimostrazione che,
quando al governo, anche forze populiste – sebbene in maniera spesso silenziosa
– restino ancorate ai capisaldi tradizionali dell’approccio italiano rispetto
alla sicurezza europea e transatlantica.
L’Italia tra
confine est e Mediterraneo
In questo ambito,
però, l’Italia ha da sempre posto anche l’accento sulla necessità di bilanciare
la deterrenza anti-russa e con un coinvolgimento Nato più deciso verso la
sicurezza nel Mediterraneo. Questo fu uno dei cavalli di battaglia italici al
summit di Varsavia, di Londra, e lo sarà probabilmente a Madrid tra qualche
settimana. Le crescenti responsabilità prese in sede Nato in Iraq dimostrano
che l’attuale governo supporta tale approccio non solo a parole, ma con azioni
concrete.
Questo è anche un
messaggio agli alleati, in particolare a Washington, a vari livelli. Sebbene
l’Italia probabilmente aumenterà la spesa militare come risposta alla guerra in
Ucraina, venendo incontro alle esigenze spesso espresse dagli americani in
passato, tale attivismo dimostra che vi sono svariati modi per rafforzare il
Burden-Sharing transatlantico, e che l’ossessione del 2% non debba essere
necessariamente l’unico indicatore per misurare tale impegno.
Inoltre, con tali
azioni, l’Italia dimostra un interesse atto a supportare un maggior
protagonismo europeo in ambito Nato, con un doppio fine. Sia rafforzare
l’alleanza in sé ma anche mostrare come l’attivismo europeo nel vicinato, in
particolare quello meridionale dove gli americani faticano a tenere
l’attenzione alta come in passato, sia un passaggio che possa anche aiutare il
rafforzamento dell’autonomia strategica europea, vista non in opposizione alle
logiche transatlantiche ma in termini di complementarietà e “sostenibilità
transatlantica”. Dario Cristiani, AffInt 9
Iscritti Aire e residenza fiscale
Con l’importante
Ordinanza n. 18009 del 6 giugno 2022 la Corte di Cassazione ha stabilito che la
persona che è iscritta all’AIRE e contestualmente detiene all’estero il centro
dei propri interessi vitali (centro inteso come la sede principale degli affari
e degli interessi economici e delle relazioni personali) non può essere
considerato fiscalmente residente in Italia, anche se in Italia ha un domicilio
nel senso che vi svolge un’attività lavorativa.
A un cittadino
italiano residente in Svizzera e che veniva a lavorare in Italia ogni giorno
per poi tornare in Svizzera era stata contestata dall’Agenzia delle Entrate
un’omessa presentazione della dichiarazione per redditi da lavoro percepiti in
Italia e corrisposti da una società italiana.
La Commissione
tributaria competente della Lombardia aveva in precedenza già evidenziato che
non era legittimo, come invece riteneva l’Agenzia delle Entrate, considerare il
cittadino residente fiscale in Italia alla luce dei fatti che egli aveva
dimostrato di essere effettivamente residente in Svizzera dal 1997, di essere
iscritto all'AIRE dal 1998, unitamente a moglie e figlio, di essere titolare
del mutuo stipulato per l'acquisto dell'abitazione in Svizzera, di essere
titolare di più utenze domestiche (elettricità, gasolio, telefono, acqua,
televisione), che il figlio frequentava l'Università di Zurigo e la moglie
lavorava in una scuola di Lugano.
La Corte ha
ritenuto infine irrilevante ai fini fiscali, a fronte di tali numerosi
elementi, che egli lavorasse presso una società con sede in Italia, avendo
anche dimostrato (a mezzo estratti Telepass) di recarsi giornalmente al lavoro
dalla propria abitazione in Svizzera, vista la poca distanza.
Il ricorso
dell’Agenzia delle Entrate è stato quindi respinto dalla Corte di cassazione in
questa sua recente e importante pronuncia con la quale, in estrema sintesi (si
consiglia a chi è interessato di esaminare la approfondita e complessa
Ordinanza), la Cassazione ha praticamente affermato che ai fini delle imposte
sui redditi si considerano residenti in Italia le persone che per la maggior
parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione
residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai
sensi del codice civile.
Nel caso in
questione il cittadino è residente in Svizzera (anche alla luce di quanto sopra
evidenziato) ed è iscritto all'AIRE (Anagrafe degli italiani residenti
all'estero), il criterio di attribuzione della residenza fiscale in Italia
invocato dall'Agenzia sarebbe rappresentato dal domicilio fiscale in Italia
(visto lo svolgimento in Italia della sua attività lavorativa).
Su questo punto,
ha rilevato la Corte, una costante giurisprudenza di legittimità evidenzia che
il domicilio debba essere inteso come la sede principale degli affari ed
interessi economici nonché delle relazioni personali, come desumibile da
elementi presuntivi da valutare in relazione al luogo in cui la persona
intrattiene sia i rapporti personali che quelli economici.
Nel caso esaminato
devono quindi essere valorizzati, secondo la Cassazione, gli elementi esibiti
dal cittadino volti a provare che da molti anni egli aveva stabilito il proprio
centro di interessi vitali in Svizzera, unitamente al proprio nucleo familiare.
In conclusione la
Cassazione ha sottolineato che non vi erano elementi precisi, gravi e
concordanti per dimostrare la fittizietà della residenza estera, tenuto conto
che la vicinanza tra luogo di residenza e sede di lavoro non impedisse di
considerare il centro di interessi vitali in Svizzera. Dip 16
E’ vano sperare
nella stabilità politica italiana e, nella conseguente, governabilità del Paese.
Ora ancor più complicato per la presenza di una pandemia le cui origini sono
ancora da appurare. Se, per il passato, gli Esecutivi avessero operato in un
ambito meno condizionato, parecchi problemi del Bel Paese non ci sarebbero
stati. Per anni, è sempre venuto meno il “dialogo" con effetti dirompenti.
Da una parte rimane, quindi, l’Italia degli impegni economici/sociali da
realizzare e dall’altra una sorta di “incertezza” parlamentare.
Come e con quali possibilità resta, per noi,
un impenetrabile mistero. Se è vero, come già abbiamo scritto, che i nostri
politici hanno più “anime”, dobbiamo anche riconoscere che, a livello alleanze
certe incoerenze ci sono. Le intenzioni, in apparenza, sono tutte buone. I
risultati assai meno. L’inconcludente atteggiamento dei singoli, non favorisce
lo stabilirsi di propizie condizioni per intravedere cosa ci aspetterà per il
futuro. I poli di “convergenza” non hanno fatto altro che accentuare le dispute
politiche. Come primo passo, sarebbe stato opportuno favorire una “pax”
politica. Soprattutto per ridare fiducia a tutti quelli che l’hanno perduta. Lo
“zoccolo duro”, quello delle “Maggioranze” forti, è finito. Ci siamo arenati
sulle cose importanti. Il tempo dei controsensi non ha più ragion d’essere.
Spesso, è venuta meno anche l’onestà.
C’è da ritrovare i fondamenti di una nuova
equità che consenta di poter concorrere al futuro d’Italia. L’ipotesi di un
Esecutivo a “contratto”, tanto cara alla formazione di Centro/Destra, stona
ancor prima di vedere la luce. Si sono perdute di vista certe priorità da
esaminare e alcune realtà da rivalutare. Insomma, c’è tutto uno stato politico
che ha da ritrovare un’identità. Sono aumentati solo i sacrifici dei più
deboli, mai compensati dal benessere di chi non ha dovuto rinunciare. Solo una
prova di maggiore serietà politica, che oggi ancora ci sfugge, potrebbe
consentire d’andare oltre il “ginepraio”. L’incongruenza resta, in ogni caso,
sempre la stessa: in Italia ci si dimentica con facilità del passato che
vincola il nostro presente e, probabilmente, anche il nostro futuro.
Giorgio Brignola,
de.it.press
Per il ripristino all’estero delle prestazioni familiari per i figli a
carico
Ritengo che
l’abrogazione a partire dal 1° marzo 2022 delle prestazioni familiari per figli
a carico (ANF e detrazioni) di cui beneficiavano gli italiani residenti
all’estero sia stato un grave errore politico, economico e soprattutto umano.
Per questa ragione, continuo a chiedere il ripristino di tali benefici fiscali
e previdenziali a favore dei nostri connazionali, che purtroppo – giova
sottolineare - avendo la residenza all’estero non potranno richiedere l’Assegno
unico universale (la prestazione è infatti subordinata alla residenza in
Italia). In occasione del decreto “Aiuti”, attualmente all’esame della
Commissione Bilancio, ho presentato tre emendamenti.
Con un emendamento
chiedo che ai dipendenti a contratto in servizio presso la rete estera del
MAECI siano ripristinate le detrazioni per figli “under 21” a carico che erano
state soppresse a partire dal 1° marzo u.s. Con gli altri due emendamenti
chiedo di riattivare – solo per gli italiani residenti all’estero i quali non
possono beneficiare dell’Assegno unico universale – il pagamento degli assegni
familiari per figli a carico a cui hanno diritto e la possibilità di continuare
a usufruire delle detrazioni per figli a carico sui loro stipendi o sulle loro
pensioni. Si tratta di lavoratori e pensionati il cui reddito è (o è stato)
prodotto in Italia e che per questo motivo (per la maggior parte dei casi)
pagano le tasse in Italia. Sono insomma contribuenti fiscali italiani a tutti
gli effetti anche se vivono all’estero e devono essere quindi protetti da
ingiuste discriminazioni fiscali e previdenziali. Angela Schirò dip 8
TERAMO – In
occasione della Festa della Repubblica, lo scorso 2 giugno, presso il Monumento
ai Caduti di Viale Mazzini a Teramo, sono state consegnate 22 medaglie d’onore
dal prefetto Massimo Zanni conferite con Decreto del Presidente della
Repubblica, Sergio Mattarella, ai cittadini deportati e internati nei lager
nazisti e destinati al lavoro coatto per l’economia di guerra, quale
risarcimento soprattutto morale che la Repubblica Italiana riconosce per il
sacrificio patito dai propri cittadini.
Questi i
destinatari delle medaglie, consegnate ai familiari: Giuseppe Alleva,
fante, nativo di Campli. Cacchiò Antonio, aviere, nativo di Colonnella;
alla sua memoria è stato dato alle stampe un libro a cura di Danilo Massi dal
titolo “Stalag II-B 30323”. Ciarrocchi Rinaldo, operaio militarizzato,
nativo di Tortoreto ma residente all’epoca dei fatti a Giulianova; muore a
Bastia in Corsica il 12 settembre 1943, dopo essere stato catturato dai
tedeschi e il suo corpo risulta disperso sull’isola. Cioschi Quintino,
autiere, nativo di Teramo; il figlio e il nipote sono arrivati a Teramo da San
Salvo per ricordare il loro congiunto (era prevista la consegna a Chieti). D’Andrea
Bruno, fante, nativo di Forcella di Teramo; dopo la liberazione, ricoverato a
Merano, morì per una grave patologia contratta sotto le miniere
tedesche. De Berardinis Ermenegildo, aviere, nativo di Bellante; era
già orfano di padre morto a seguito della Prima Guerra Mondiale. Del
Nunzio Giuseppe, artigliere, nativo di Giulianova; muore sull’isola di Rodi il
13 novembre 1943 a causa di un incidente aereo durante il trasferimento da
parte dei tedeschi sulla terra ferma in Grecia, il suo corpo riposa a Giulianova
dopo la riesumazione. Di Emanuele Francesco, aviere, nativo di Canzano;
muore in uno stalag di Berlino il 17 marzo 1944. Di Felice Mario,
marinaio, nativo di Giulianova; viene catturato in Liguria e internato in
Germania. Di Giovanni Pasquale, fante, nativo di Teramo; verrà catturato
in Grecia. Di Ilio Ernesto, marinaio, nativo di Giulianova. Di Pietro
Altobrando, autiere, nativo di Canzano; catturato in Albania finirà nello
stalag IV-F in Sassonia fino al marzo 1945 quando arrivano le truppe americane. Falone
Venanzio, artigliere, nativo di Mosciano Sant’Angelo; la nipote Sara Marranconi
sta ricostruendo la sua vita militare. Feliziani Edmondo, sergente di
fanteria, nativo di Giulianova; disperso il 31 ottobre 1944 nel campo di Bor in
Serbia, alla sua memoria il nipote Flaviano ha realizzato una targa marmorea
all’interno del cimitero di Giulianova che verrà scoperta il prossimo 24
giugno. Garzarelli Francesco detto Ciccillo, maresciallo di marina,
nativo di Giulianova; dopo 72 anni è stata trovata una sua lettera originale
della prigionia da un collezionista filatelico siciliano. Gramantieri
Enio, fante, nativo di Alfonsine (Ravenna); la figlia da Roseto degli Abruzzi
si sta occupando della ricostruzione storica. Ianni Umberto, fante, nativo
di Mosciano Sant’Angelo. Lelii Antonio, aviere scelto, nativo di
Nereto. Piozzi Antonio, Sottotenente di fanteria, nativo di Nereto;
ufficiale del 17° fanteria della Acqui, verrà fucilato dai tedeschi ad
Argostoli sull’isola di Cefalonia il 24 settembre 1943. Il suo nome compare in
tantissimi libri di storia sui fatti dell’8 settembre a Cefalonia; a Nereto
esiste una via dedicata, ma manca il riconoscimento di una medaglia al Valor
Militare. Riccioni Vincenzo, fante, nativo di Fano Adriano; muore ad
Hannover il 9 aprile 1944. Risoluti Giuseppe, artigliere, nativo di Fano
Adriano. Sbei Luigi, artigliere, nativo di Colonnella ma residente
all’epoca dei fatti a Giulianova; disperso sull’isola di Corfù dopo l’8
settembre, il suo caso rientra nell’ambito della rappresaglia dei tedeschi su
Cefalonia. Il nipote, Delfino Sbei, ha condotto delle importanti ricerche sulla
sua storia.
L’iniziativa è
stata il frutto di un attento percorso di ricerca portato avanti negli anni dal
giornalista e ricercatore storico sugli IMI – Internati Militari
Italiani, Walter De Berardinis, il quale, documenti alla mano, ha saputo
ricostruire con attenzione certosina le vicende dei cittadini cui è stata
conferita l’alta onorificenza, dando ai familiari delle ulteriori notizie e
informazioni relative ai propri cari, con ciò aprendo un dialogo di memoria tra
i discendenti di chi, con il proprio sacrificio, ha dato un enorme contributo
umano e ideale all’Italia. Oltre agli archivi privati familiari, per De
Berardinis, è stato fondamentale incrociare i dati con: il portale dell’ANRP;
Arolsen Archives – centro internazionale tedesco sulla persecuzione nazista e
l’Archivio di Stato di Teramo diretto da Ottavio Di Stanislao,
quest’ultimo detiene i fogli matricolari dell’ex distretto militare di Teramo.
“Queste sono giornate memorabili per la storia degli IMI teramani – spiega De
Berardinis – erano anni che non venivano insigniti così tanti ex internati alla
memoria, con il 2 giugno siamo saliti a 36 medaglie d’onore solo nel 2022”.
(Inform/dip 13)
L’Italia non ha
bisogno di nuovi sacrifici proiettati in un’ottica che ben poco andrebbe a
migliorare la realtà nazionale. Se i politici dovessero continuare a dare
un’importanza marginale agli italiani che vivono altrove, si potrebbe verificare
quell’effetto “boomerang” che molti in Patria hanno, da sempre, intuito. I
Parlamentari eletti nella Circoscrizione Estero, però, non hanno fatto nulla
per aggiornare una legge sul voto già nata vecchia.
Ovviamente, ci sono stati seguiti politici che
hanno fatto slittare il cambiamento. Di ciò, dopo sessant’anni di giornalismo
al servizio degli italiani che vivono altrove, prendiamo atto. Per migliorare
ciò che riteniamo possibile, certe proposte dovrebbero maturare anche fuori
d’Italia. Sempre che ci si creda veramente.
Non è il caso d’aggiungere cenni personali.
Chi vive oltre frontiera è già nelle condizioni per partecipare, più
attivamente, al futuro della terra d’origine.
Proprio sotto questo profilo, che riteniamo
fondamentale, intendiamo fare chiarezza sullo “status” dei Connazionali nel
mondo per coinvolgerli nelle decisioni che potrebbero cambiare il loro ruolo,
che non è marginale, nella Penisola. Se lo scriviamo, significa che ci
crediamo.
Certe soluzioni, tuttavia, non dovrebbero essere
prese senza una più approfondita analisi da parte di chi non vive in Italia; ma
ne ha, a pieno diritto, la cittadinanza.
Gli Italiani
“altrove” dovrebbero avere la stessa valenza politica che sollecitiamo, da
qualche tempo, anche nella Penisola. Particolarmente sotto il profilo della
rappresentatività attiva. Ma, ancora una volta, non c’è peggior sordo di chi
non ha l'intenzione di sentire. Giorgio Brignola, de.it.press
Riforma della giustizia e pietre d’inciampo
Quando si parla di
riforma della giustizia vengono alla mente i versi di Dante nel canto X del
Purgatorio: «Non v’accorgete voi che noi siam vermi / nati a formar
l’angelica farfalla / che vola a la giustizia senza schermi?». Questo «volare a
la giustizia senza schermi» che ispira le persone oneste è, però, diventata la
pietra d’inciampo del sistema italiano. Lo sciopero dei magistrati lo
testimonia, non era mai successo nella storia repubblicana. Eppure, la riforma
Cartabia prevede l’aumento a trenta dei consiglieri del Consiglio superiore
della magistratura (Csm), una nuova legge elettorale, novità nelle regole per
arginare le correnti, l’incompatibilità tra politica-magistratura, la
separazione delle funzioni e la riduzione dei fuori ruolo. Rimane un però: la
credibilità della magistratura non può esaurirsi in una riforma, accelerata
dagli scandali come quelli delle nomine pilotate ai vertici di alcuni uffici
giudiziari e dalla perdita di fiducia dei cittadini.
«Nessuna riforma
politica della giustizia può cambiare la vita di chi la amministra, se prima
non si sceglie davanti alla propria coscienza “per chi”, “come” e “perché” fare
giustizia. È una decisione della propria coscienza. Così insegnava santa
Caterina da Siena, quando sosteneva che per riformare occorre prima riformare
sé stessi». È ciò che ha affermato il Papa all’udienza con il Csm, lo scorso 8
aprile, quando li ha esortati contro «le lotte di potere, i clientelismi, le
varie forme di corruzione, la negligenza e le ingiuste posizioni di rendita:
questa problematica, queste situazioni brutte, voi le conoscete bene». Il
segreto è quello di potare i rami secchi senza amputare l’albero della
giustizia. Per il Papa «sono la credibilità della testimonianza, l’amore per la
giustizia, l’autorevolezza, l’indipendenza dagli altri poteri costituiti e un
leale pluralismo di posizioni gli antidoti per non far prevalere le influenze
politiche, le inefficienze e le varie disonestà. Governare la magistratura
secondo virtù», ha detto, «significa ritornare a essere presidio e sintesi alta
dell’esercizio al quale siete stati chiamati».
È la Costituzione
italiana ad affidare alla magistratura di amministrare la giustizia “in nome
del popolo”. Il popolo chiede giustizia, e la giustizia ha bisogno di
trasparenza e verità, fiducia e lealtà, purezza di intenti e bene comune:
«Ascoltare, ancora oggi, il grido di chi non ha voce e subisce un’ingiustizia,
vi aiuta a trasformare il potere ricevuto dall’Ordinamento in servizio a favore
della dignità della persona umana e del bene comune». E ancora: «Nella tradizione
la giustizia si definisce come la volontà di rendere a ciascuno secondo ciò che
gli è dovuto». Ma oltre a «uguaglianza, giusta proporzione, imparzialità...
secondo la Bibbia occorre anche amministrare con misericordia».
Il Papa, infine,
chiede di guardare al sacrificio di Rosario Livatino, il primo magistrato
Beato, che ispira a un’idea di giustizia e magistratura a cui tendere.
«Nella dialettica tra rigore e coerenza da un lato, e umanità dall’altro», ha
detto, «Livatino aveva delineato la sua idea di servizio nella magistratura
pensando a donne e uomini capaci di camminare con la storia e nella società,
all’interno della quale non soltanto i giudici, ma tutti gli agenti del patto
sociale sono chiamati a svolgere la propria opera secondo giustizia. (...)
Quando moriremo – sono le parole di Livatino – nessuno ci verrà a chiedere
quanto siamo stati credenti, ma credibili». Per tutto questo è un dovere morale
partecipare ai referendum sulla riforma della giustizia e scegliere secondo
coscienza ciò che aiuta a rendere la magistratura non una casta ma un servizio
da rendere a chi chiede giustizia. Francesco Occhetta, Vita pastorale, giugno
Referendum abrogativi 2022. Il rientro delle schede elettorali degli
italiani all’estero
ROMA – Con il volo
di linea che ha portato il materiale elettorale proveniente dal Venezuela e da
Panama, domenica 12 giugno si è concluso il rientro in Italia delle schede
votate dagli Italiani all’estero in occasione dei referendum abrogativi per il
successivo scrutinio in Italia a cura della Corte d’Appello.
Ha accolto
l’ultimo volo aereo all’aeroporto di Fiumicino il Direttore Generale per gli
italiani all’estero della Farnesina, Min. Plen. Luigi Maria Vignali: “Abbiamo
appena concluso le operazioni relative al voto di quasi 5 milioni di italiani
all’estero. Le elezioni si sono tenute con regolarità, nonostante situazioni
difficili per la pandemia e l’impatto della guerra, con l’invio delle schede
dei referendum in ogni angolo del mondo, dalle Figi alle Barbados. Ringrazio di
cuore il personale diplomatico e consolare della Farnesina, che con eccezionale
spirito di servizio ha reso possibile questo fondamentale diritto
costituzionale ai nostri cittadini nel mondo”.
Nei giorni scorsi
sono state inviate le schede elettorali ai 4,8 milioni di elettori italiani
all’estero in circa 180 Paesi nel mondo. Gli elettori avevano previamente
ricevuto i plichi elettorali al proprio domicilio e restituito per posta le
buste elettorali preaffrancate contenenti le 5 schede votate. Ambasciate e
Consolati hanno successivamente organizzato i voli di rientro del materiale
elettorale a Roma. Tra venerdì 10 e domenica 12 giugno sono arrivati presso gli
scali aeroportuali di Fiumicino 107 funzionari consolari su circa un’ottantina
di diversi voli.
Referendum
all’estero: ha votato il 16% degli aventi diritto
Quasi il 16% degli
italiani residenti all’estero ha votato al referendum sulla giustizia. Con una
percentuale che si attesta appena sotto il dato nazionale (21% circa), gli iscritti
all’Aire che hanno votato per corrispondenza hanno risposto “no” ai quesiti
sull’abolizione della Legge Severino e sulla limitazione delle misure
cautelari, e “sì” a quello che chiedeva la separazione delle carriere per i
magistrati, così come ai due quesiti sui membri laici nei consigli giudiziari e
sulla elezione dei componenti togati del Consiglio Superiore della
Magistratura.
2.570.962 gli
aventi diritto in Europa, 1.511.406 in America meridionale, 411.521 in America
centrosettentrionale e 242.316 in Africa, Asia, Oceania e Antartide.
Al referendum,
così come alle elezioni politiche, gli italiani all’estero votano per
corrispondenza.
Il voto nel
dettaglio
Si attesta intorno
al 12% la percentuale di voto in America Settentrionale, per via di una media
che va dal 50% dell’Honduras al quasi 10% degli Usa, passando per il 13% del
Canada o il 23% della Repubblica Dominicana. In linea con il dato complessivo,
per i primi due quesiti – legge Severino e limitazione delle misure cautelari –
vince il “no”; per gli altri tre quesiti il “sì”
Sfiora il 14.5% la
percentuale dei votanti nella ripartizione Africa, Asia, Oceania e Antartide,
dove spicca l’81% del Camerun, con l’Australia che si attesta a ridosso del
14%, il Sud Africa sul 19% e Israele a chiudere con il 2,83%.
Anche in questa
ripartizione vince il “no” per i primi due quesiti – anche se di pochissimo per
la limitazione delle misure cautelari – e il “sì” per gli altri tre.
È dall’America
Latina che arriva il numero più cospicuo di voti: la percentuale in questa
ripartizione sale al 22%, con i dati sui Paesi praticamente identici con la
Bolivia che – sulla media dei 5 quesiti – arriva al 30%. Cambiano i numeri, ma
identico è il risultato: anche qui, vince il “no” ai primi due quesiti, e il
“sì” agli altri tre.
Infine l’Europa,
la ripartizione con il maggior numero di votanti, che arriva quasi al 13%,
media tra il 41% della Lettonia e il 7,23% del Belgio, con la Spagna al 10.42,
il Lussemburgo al 18% e il Regno Unito al 17%. Vince il “no” ai primi due
quesiti – con la Germania che riesce a fare 50-50 al quesito sulle misure
cautelari, e con l’eccezione della Svizzera dove vince il “sì” anche per il
secondo quesito anche se di misura (51,63) – e il “sì” agli altri tre.
(aise/dip 13)
Restano da
affrontare ancora momenti difficili per l’Italia. Indipendentemente dagli
eventi politici che matureranno. Fermo restando il concetto che il futuro della
penisola sarà sempre nelle strategie di chi guiderà il potere esecutivo
nazionale. Ovviamente, con una maggioranza parlamentare risultante da un nuovo
criterio di “conta”. La ripresa, ora, resta delimitata. Anche se qualcosa si
muove nel senso giusto. Questo è uno di quei “miracoli” all’italiana nei quali
anche i politici arrivisti hanno confidato. Però, l’austerità non è finita. Da
noi, come sempre, resta un problema di pesi e di misure. Quindi, non basta più
dare solo il buon esempio. Tanti “privilegi” ci sono ancora e interessano tutto
un mondo che orbita intorno ad una politica incapace.
Questo potrebbe essere un anno costruito su un
castello di carte destinato, purtroppo, a crollare sotto il peso di tanta
illogicità. Siamo, tuttavia, convinti che una svolta autentica possa iniziare
solo con un “rinnovamento” politico. Ci aspettiamo uomini e donne nuovi e meno
compromessi col passato. Col prossimo Esecutivo, se e quando ci sarà, si
dovrebbe dimostrare, a chiare lettere, d’avere imparato bene la lezione che ha
impoverito il popolo italiano. Del resto, le responsabilità di quanto è capitato,
sono note e ogni considerazione, atta a minimizzarne gli eventi, sarebbe
inutile. Chi amministrerà l’Italia avrà nuove responsabilità.
Potrà, però, contare sulla stima di una
“nuova” maggioranza del Popolo italiano. Dopo la nefasta esperienza di governi
di vertice e delle coercizioni sulla effimera “fiducia”. Giorgio Brignola,
de.it.press
L’AQUILA - La piccola
comunità abruzzese di Filetto, frazione del comune dell’Aquila, ha accolto
Rainer Schnitzer, borgomastro di Pöcking, giunto in Abruzzo per partecipare
alla commemorazione di 17 civili uccisi per rappresaglia il 7 giugno 1944, dopo
l’uccisione di un tedesco nel corso di uno scontro a fuoco con un gruppo di
partigiani della banda “Giovanni Di Vincenzo”. Accompagnava Schnitzer una
qualificata delegazione, comprensiva di Wolfram Staufenberg e Albert Luppart,
rispettivamente, secondo e terzo sindaco della cittadina bavarese.
Quella di Filetto
è una vicenda intricata che racchiude molteplici aspetti umani e storici. Il
dramma è stato sempre vissuto intensamente dalla piccola comunità, che soffrì
anche la devastazione, l’incendio di molte case, razzie e furti. Ci vollero due
giorni per spegnere l’incendio del povero paese di montagna, a 1.070 m. di
altezza, situato a 18 km da L’Aquila, che allora contava 650 abitanti, in
genere pastori e contadini. Molti per sopravvivere alla miseria emigrarono.
Oggi sono rimaste poco più di cento persone, inevitabilmente legate a quei
morti.
Il paese si sentì
estraneo all’uccisione del militare tedesco perché non avvenuto per mano di uno
della comunità che fino ad allora aveva stabilito buoni rapporti con tedeschi
che vivevano a Filetto, tanto che viene tuttora ricordato come uno di loro il
maresciallo Hermann Schafer, responsabile del presidio che, nel tentativo di
fermare l’inizio della rappresaglia, venne ucciso da un commilitone, tra quelli
giunti in forze da Paganica e altri centri. Peraltro, precedentemente non erano
mancati gravi episodi. Tra questi si segnala l’uccisione a freddo, nel novembre
1943, di un pastore quindicenne al pascolo nei pressi del paese.
Nel 1969 la storia
dell’eccidio riemerse improvvisamente dall’oblio per effetto di un articolo
pubblicato dal settimanale Der Spiegel del 7 luglio 1969 dal titolo “Crimini di
guerra. Il vescovo Defregger. Piombo teutonico”, che metteva in evidenza il
passato del capitano Matthias Defregger - presentato come criminale - che dopo
il ritorno in Germania entrò in seminario per diventare sacerdote nel 1949. Una
scelta conseguente al tormento seguito alle vicende della guerra e di quella
strage. La consacrazione a vescovo e quindi a vicario dell’arcivescovo di Monaco
di Baviera, cardinale Julius Döpfner, suo sostenitore, trasformò mons.
Matthias Defregger in un bersaglio dei media.
Del paese
abruzzese, in realtà, interessava molto meno. La lettura della stampa
dell’epoca e del saggio “Morte a Filetto”, ed. Mursia, Milano, 1970, curato dal
Aldo Rasero, maggiore degli alpini e comandante partigiano nell’area, si
percepisce una strumentalizzazione dell’eccidio contro la chiesa tedesca. Se
fosse rimasto un semplice sacerdote forse non si sarebbe più parlato dell’ex
capitano e di Filetto.
Non è questa la
sede per andare oltre ad un accenno a quelle vicende, ma è opportuno segnalare
come da fonti tedesche riprese nell’autorevole saggio di Costantino Felice,
“Dalla Maiella alle Alpi: guerra e resistenza in Abruzzo”, ed. Donzelli, Roma,
2014, l’ordine del maggiore, poi generale, Hans Boelsen a Defregger di
“incendiare il paese e fucilare tutti gli abitanti maschi”, venne rifiutato,
tanto da essere stato minacciato di morte. A quel punto la sorte dei filettesi
era segnata. Seguì un ordine ufficiale, che Defregger delegò al sottotenente
Paul Ehlert, il quale avrebbe a sua volta delegato un caporal maggiore, rimasto
anonimo, che mise in atto la strage.
Pare che
Defregger, che non era presente, abbia cercato di ridurre il numero delle
vittime rispetto allo sterminio voluto da Hans Boelsen, primo responsabile
della strage, che si ripeté solo quattro giorni dopo, ordinando un massacro
nella vicina frazione di Onna. Una
vicenda dimenticata che riemerse solo dopo il terremoto del 2009 che sconvolse
la piccola frazione, provocando morti e distruzioni, che non lasciarono
indifferente la Germania. Il sanguinario Boelsen il 22 giugno 1944 si macchiò
anche della strage di Gubbio, dove furono assassinati 40 civili. Der Spiegel e
altri media ignorarono il ruolo determinante di Boelsen, deceduto nel 1960.
I media si
occuparono di quel tragico eccidio avvenuto in quel “paesetto montano” (Der
Spiegel), con molti giornalisti che cercarono invano di intervistare mons.
Defregger e lo stesso card. Döpfner. Una cortina di silenzio si innalzò da
parte della chiesa bavarese. Solo qualche dichiarazione si riuscì a strappare a
Defregger pressato da giornalisti e tv che parlò di quella drammatica vicenda
come di “un terribile peso per la sua anima”. La consegna del silenzio si
estese addirittura dalla chiesa bavarese a quella aquilana. Tanto si evince
dall’articolo di Gian Franco Vené pubblicato su L’Europeo del 14 agosto 1969.
Il giornalista incontrò il parroco di Filetto, don Demetrio Gianfranceschi, che
chiarì: “Il mio vescovo mi ha chiesto il silenzio”.
Si saprà invece
che il parroco era impegnato affinché tra i filettesi emergesse il desiderio
della riconciliazione. Ricevette anche la toccante lettera di Berta Schreiner,
vedova del sergente rimasto ucciso, che a 25 anni dopo la morte del marito
Adolf, insieme ai figli, Rudolf, Manfred e Hans, scrisse di perdonare chi aveva
colpito a morte il marito. Don Demetrio si recò anche a Monaco insieme ad
alcuni parenti delle vittime per incontrare lo stesso Defregger che aveva già
dato la sua disponibilità a dimettersi da vescovo. La scelta del silenzio in
ambito pubblico fu da ritenere inopportuna, tanto per i familiari dei civili
morti che per l’immagine della chiesa bavarese e per lo stesso Defregger. I filettesi
non intesero concedere alcun perdono senza un segno di pentimento, senza una
richiesta di perdono e una parola di pietà per i morti.
Anche in quelle
settimane, in cui la vicenda era all’attenzione dei media internazionali e poi
durante la lavorazione del film “Quel giorno Dio non c’era” (Der Tag, an dem
Gott nicht da war), di Osvaldo Civirani, la piccola comunità rimase
dignitosamente chiusa nel suo dolore, non desiderando alcuna notorietà per
quella tragedia.
Dopo la morte di
Defregger, avvenuta nel 1995, il comune di Pöcking, cittadina di 5600 abitanti
sul lago di Starnberg, dove l’ex capitano visse appartato in una proprietà di
famiglia, decise di dedicargli una piccola strada vicina al cimitero per
ricordare il religioso che era stato rispettato e stimato dalla popolazione. Lo
scorso anno la storica Marita Krauss, scrivendo un saggio sulla storia della
cittadina segnalò al sindaco come quella denominazione fosse discutibile per il
controverso passato del vescovo. Da qui la decisione del sindaco di avviare
contatti con Giovanni Altobelli e con il prof. Domenico Cupillari, presidente
del Centro Sociale per Anziani di Filetto per sondare la possibilità di vedere
accolta una delegazione guidata dallo stesso borgomastro in occasione della
commemorazione del 7 giugno. Il prof. Cupillari, promosse un’assemblea che
valutò positivamente la richiesta.
L’anniversario è
stato quindi celebrato insieme alla rappresentanza tedesca, con la
partecipazione della sezione alpini di Camarda, dalla delegazione dell’ANPI
dell’Aquila e del consigliere Leonardo Scimia, su delega del sindaco
dell’Aquila. La celebrazione della messa è stata presieduta da don Domenico
Marcocci, nativo di Filetto. Nella sua omelia ha sottolineato i valori
universali della pace e del perdono, facendo notare ai presenti che il calice
con cui celebrava messa era stato donato dalla Arcidiocesi di Monaco. A seguire
si è formato un corteo verso il cimitero preceduto dagli alpini che ha poi
sostato davanti al modesto monumento che ricorda l’eccidio, realizzato grazie
ai denari inviati dagli emigrati in America.
Dopo le note del
silenzio, il sindaco Rainer Schnitzer ha deposto una corona d’alloro, con il
picchetto di due carabinieri, per poi salutare i presenti, spiegando che da
bambino era stato chierichetto di mons. Defragger e che a distanza di anni ha
capito che l’ex capitano non si era mai recato a Filetto, né aveva chiesto
perdono. Con voce commossa ha detto: “Questo gesto lo vogliamo recuperare oggi.
Siamo qui per commemorare e onorare le vittime”. Un gesto sentito, accompagnato dagli applausi
e seguito dalla lettura dei messaggi del presidente della Repubblica federale
tedesca e del cardinale di Monaco di Baviera, diretti al sindaco di Pöcking e
alla comunità di Filetto, letti in italiano dalla prof.ssa Monika Hutmacher e
dalla giornalista Sandra Sedlmaier.
Al termine della
lettura il sindaco ha ricevuto l’abbraccio del giovane segretario dell’ANPI
Tommaso Cotellessa che gli ha donato il suo fazzoletto tricolore. A seguire il
pranzo preparato dalle donne e dagli uomini di Filetto. Piatti e bicchieri sono
di plastica, le panche spartane, ma il calore umano e la sincera ospitalità
della gente di Filetto sono senza pari. Palpabile l’impegno della v. presidente
del Centro Sociale per Anziani, Antonella Marinelli, impegnata in prima
persona, dopo la scomparsa del prof. Cupillari, avvenuta i primi di maggio.
Nemmeno un manifesto ha segnalato lo storico evento che è stato volutamente
vissuto in forma intima, ma non per questo meno solenne, dalla sola piccola
comunità.
Tornando ai
messaggi, parole nette quelle espresse dal presidente Frank-Walter Steinmeirer
che ha scritto come “sappiamo sempre troppo poco dei crimini tedeschi commessi
in Italia. Le vittime, i loro discendenti, i superstiti hanno il diritto di non
essere dimenticati”, ammettendo di sentire “vergogna di fronte a crimini come
quello di Filetto, ma anche gratitudine per il fatto che le nostre amiche ed i
nostri amici italiani accettino così generosamente le nostre richieste di
perdono e che ci invitino a piangere per le vittime insieme a loro.” Il suo
messaggio va anche oltre l’eccidio di Filetto e fa pensare alla scia di sangue
lasciata dai tedeschi in Abruzzo e in Italia.
Ma un rilievo specifico
assume la lettera del cardinale Reinhard Marx diretta “ai cari cittadini di
Filetto”, letta anche in chiesa, in cui, interrompendo il lungo silenzio della
chiesa bavarese, ricorda - alludendo all’Ucraina - “come il significato della
guerra ci appare ancora una volta terribilmente chiaro”, esprimendo il
desiderio di essere idealmente con loro “nella commemorazione delle vittime
innocenti, nelle sofferenze inflitte e nel rispetto di un faticoso percorso di
comprensione tra tedeschi e italiani.” Il cardinale non evita di entrare nel
merito della vicenda di mons. Defregger ponendosi l’angoscioso interrogativo
“se non ci fosse una via d’uscita dal dilemma in cui si trovava” che resta
senza risposta, ammettendo comunque come sia necessario “esaminare criticamente
il comportamento del vescovo Defregger prima e dopo il suo percorso religioso e
fare i conti con esso”. E con la storia.
Il lungo e
travagliato cammino verso la pace e la riconciliazione è venuto a compiersi
quando il paese è ormai spopolato, come tanti paesi della montagna abruzzese,
mentre molti di quelli che avrebbero desiderato partecipare a questo atteso
momento non ci sono più.
Ma occorre dare
merito al sindaco Rainer Schnitzer per aver promosso l’incontro e cercato di
coinvolgere nell’iniziativa così importanti livelli istituzionali in Germania
quando è riemerso ancora una volta il passato dell’ex vescovo. Proprio per la stima e la sua conoscenza
diretta ha sentito di farsi umilmente carico della richiesta di perdono in
luogo del vescovo innanzi alla comunità di Filetto, mentre come borgomastro, ha
inteso dare un segnale pubblico di attenzione che rendesse concreto e attuale
il desiderio di pace tra Italia e Germania per una nuova cultura della memoria,
dopo il nazismo e le tragedie della seconda guerra mondiale. Un gesto
encomiabile, non solo perché non era tenuto a farlo, ma ancor più perché della
seconda vita di Defregger aveva ed ha tuttora un ricordo positivo, di persona
carismatica e di efficace predicatore che rimarrà senz’altro nella sua sfera
personale e forse di molte altre persone.
A livello pubblico ha annunciato che in un prossimo consiglio comunale
informerà della visita a Filetto e avanzerà la proposta di revocare la
denominazione della strada. Una storia esemplare che induce a riflettere. Antonio Bini, dip 14
ROMA – Online il
portale incentivi.gov.it, un motore di ricerca che ha l’obiettivo di far
conoscere e promuovere, in modo semplice e veloce, gli incentivi finanziati dal
Ministero dello sviluppo economico, compresi quelli previsti dal PNRR, ad
aspiranti imprenditori, alle imprese nuove e a quelle già attive, ai liberi
professionisti, a enti e istituzioni. “É uno strumento agile e diretto a
disposizione degli imprenditori che, con coraggio, creano nuove attività e per
le quali possono richiedere agevolazioni per realizzare gli investimenti”, ha
dichiarato il ministro Giorgetti. “Navigando nella piattaforma – prosegue il
ministro – si possono trovare tutte le informazioni utili sugli incentivi del
Mise. Una bussola che permette di orientarsi tra le agevolazioni previste da
bandi e provvedimenti dedicati allo sviluppo del tessuto produttivo del Paese.
È un’opportunità – conclude Giorgetti – per realizzare idee e progetti
imprenditoriali, investire in competitività, valorizzare il territorio,
coltivando e concretizzando i sogni imprenditoriali”. Dall’home page del
portale, grazie ad una dettagliata classificazione delle varie misure e a
procedure guidate, si può trovare o scegliere l’incentivo seguendo uno dei
quattro percorsi: per profilo, adatto ad aspiranti imprenditori, imprese e
professionisti, enti o cittadini; per parola chiave; per categorie di
interesse, ad esempio startup, innovazione, digitalizzazione; esplorando
l’intero catalogo anche con l’uso dei filtri. Ogni incentivo selezionato è
corredato da una scheda sintetica, con le informazioni di dettaglio, che
riporta in sintesi la misura, a chi si rivolge, cosa prevede, la data di
chiusura e apertura del bando, la tipologia d’impresa che può richiedere il
contributo, le specifiche tecniche e i costi ammessi, l’ambito territoriale, le
indicazioni per consultare la modulistica necessaria e i riferimenti per
agevolare la compilazione della domanda. In una prima fase il portale consente di
trovare tutte le misure del Ministero dello sviluppo economico in continua
interrelazione con il sito del Mise mentre in una seconda fase sarà aperto
anche alle misure e le sovvenzioni di altre amministrazioni centrali o degli
enti territoriali. È infine prevista un’area riservata alle pubbliche
amministrazioni per offrire report e dati aggiornati utili alla programmazione
e alla conoscenza dello stato delle misure in tempo reale. Dip 6
In Italia non è
agevole fare delle previsioni economiche; anche in considerazione della
pandemia virale. Del resto, non ci sono costrutti che potrebbero indurci ad
assumere posizioni cautamente ottimistiche. Sull’Esecutivo Draghi, vedremo col
“tempo”. Con questa situazione, la politica non ha valenza. Quando sarà
sconfitta la pandemia, sollevarci potrebbe essere arduo. Ci hanno abituato,
giorno per giorno, ad avere meno e a sostenere l’insostenibile. Siamo stanchi
di questa situazione che sfilaccia ogni iniziativa, ogni possibile via
d’uscita. E’ ipotecato il futuro e non solo della nostra generazione.
Se risparmiare, è
impossibile, tentare di spendere “bene” appare più difficile. La mancanza di
liquidità ci ha spinto ai prestiti, ad acquistare a rate. Ipotecando per mesi,
se non per anni, gli eventuali miglioramenti economici che potrebbero
verificarsi. Ci sembra, a questo punto, eccessivo, fare dei raffronti.
Il “superfluo” non esiste più da tempo, ora è
iniziata la forzata rinuncia al “necessario”. Ce ne siamo accorti tutti.
Sopravvivere è assai più difficile di quando lo era in Seconda Repubblica. Chi
ancora “ha”, preferisce non investire. Chi non “ha” trova difficile guardare al
futuro. C’è bisogno di un diffuso cambiamento. La “grave” malata è la nostra
economia e la politica potrebbe non essere la “terapia” migliore. Giorgio
Brignola de.it.press
ROMA – “Italia in 10
selfie” è un rapporto annuale prodotto da Symbola (insieme a Unioncamere e
Assocamerestero) con la collaborazione del Maeci e parla dei dieci aspetti, a
volte anche poco noti, nei quali l’Italia è un’eccellenza a livello globale. Si
tratta di una raccolta di dieci micro-dossier che fungono da specchio di queste
dieci virtù italiane. Tra tutti spiccano gli aspetti legati alla transizione
ecologica ma anche alla sostenibilità, che vedono l’Italia tra le principali
potenze nella cosiddetta economia circolare e nel recupero dei rifiuti. A
prendo l’evento Lorenzo Angeloni (Direttore Generale Maeci per la Promozione
del Sistema Paese) ha parlato di questa pubblicazione annuale ricordando come
questo rapporto che racchiude dieci testimonianze sulle eccellenze italiane, si
rivolga al mondo rappresentando un sistema in movimento e a misura d’uomo, tra
digitalizzazione e transizione verde. Un’evoluzione che interessa ogni settore
del Made in Italy. “Questi dieci selfie – ha aggiunto Angeloni – ci aiutano a
conoscere primati poco noti del nostro Made in Italy e a creare ulteriori
partenariati. I dieci selfie si pongono nel solco della promozione integrata di
una campagna di national branding senza precedenti come BeIT che con linguaggi
nuovi restituisce un’immagine innovativa dell’Italia e suoi talenti. Scienza,
cultura e innovazione vengono messe insieme per massimizzare il processo di
evoluzione in quello che può essere definito come uno straordinario compendio
dell’attività stessa della Direzione generale per la Promozione del sistema
Paese. L’efficacia di questi selfie induce a riconoscerci in questa esigenza di
comunicazione a largo raggio. La Farnesina lavora – ha concluso il
Direttore Generale – per l’incremento dell’export: l’anno scorso c’è stato il
record di 500 miliardi in esportazioni ma lavoriamo per incrementare sempre più
anche i rapporti economici. Vogliamo più rapporti tra imprese”.
Ermete Realacci
(fondatore Symbola) ha parlato delle finalità di questi dieci selfie: in primis
raccontare in maniera sintetica cosa sia l’Italia e cosa abbia da dire non solo
all’estero ma ai suoi stessi cittadini. Realacci ha sottolineato come ci siano
sfide aperte: dai cambiamenti climatici alla sostenibilità. “Alcuni di questi
selfie, così sintetici, hanno in realtà dietro di sé rapporti di decine di
pagine”, ha spiegato Realacci ringraziando la Coldiretti, Federlegno e IILA per
il supporto. “Questi selfie sono dentro le scelte strategiche europee:
coesione, transizione verde e digitale. Siamo leader nel recupero dei materiali
nell’economia circolare. L’Italia recupera oltre il 79% dei rifiuti prodotti
mentre la media europea si attesta al 49%. Questi risultati sono figli, più che
della politica, dei cromosomi produttivi di un Paese come il nostro povero di
materie prime per cui dobbiamo essere più bravi a usare fonti di energia come
l’intelligenza umana”, ha rilevato Realacci evidenziando il numero molto
elevato di aziende medio-piccole in Italia che fanno la differenza ma l’impegno
di un colosso come Enel che ha puntato sulle rinnovabili. “Avessimo già avuto
più fonti rinnovabili avremo una situazione migliore rispetto alla crisi
attuale”, ha poi sottolineato Realacci riferendosi al problema energetico
generato dal conflitto in Ucraina. “Siamo primi nel mondo per siti Unesco e nei
primi posti per la tecnologia dello spazio: l’Italia sarà leader nell’usare
queste tecnologie nei mutamenti climatici. Abbiamo una leadership anche nel
campo dei prodotti alimentari certificati, seguiti dalla Francia: i nostri
prodotti sono legati ai territori incrociando un sapere antico con
l’innovazione”, ha spiegato Realacci ricordando i 842 prodotti italiani per lo
più legati ai piccoli comuni. Nella produzione di macchine utensili siamo al
quarto posto dopo Germania, Giappone e Cina, mentre deteniamo il primato nella
produzione ed esportazione di piastrelle. Anche nella produzione di occhiali di
qualità l’Italia è al vertice: al secondo posto dopo la Cina.
Domenico Auricchio
(Presidente Assocamerestero) ha ricordato che con Symbola le Camere di
commercio italiane all’estero collaborano da tempo e lo faranno anche con la
rete diplomatica. Auricchio si è soffermato sul selfie del mondo alimentare
evidenziando che “quando si esporta un alimento si sta esportando un pezzo del
modo di vivere italiano”. Maria Porro (Presidente Salone del Mobile) ha parlato
di un settore che si raccoglie attorno a Federlegno: “una filiera molto
radicata sul territorio italiano” . L’Italia è leader in Europa per il riciclo
del legno e per l’uso di legno certificato. “Il nostro spirito è quello di
essere portavoce del Made in Italy e della sua qualità nel mondo”, ha
commentato Porro. Barbara Colombo (Fondazione UCIMU) ha ricordato che l’Italia
è ai vertici per la produzione di macchine utensili, per la digitalizzazione e
la sostenibilità: nel 2021 c’è stato un incremento rispetto al 2020 facendo
meglio di Germania e Giappone. “Il segreto del successo? Risiede nella
flessibilità delle imprese di dimensione medio-piccola e quindi più snelle”, ha
spiegato Colombo. Lavinia Biagiotti (Comitato promotore Roma Expo 2030) ha
parlato di come l’azienda di famiglia sia stata pioniera nel portare la
bellezza italiana nel mondo con le sfilate di Laura Biagiotti. E’ stato
evidenziato come non si sia mai tenuta una Expo Roma: “si tratta di un
appuntamento per la rigenerazione e l’innovazione della città, un progetto per
dare a Roma nuovo futuro”, ha commentato Biagiotti parlando dell’Expo di Roma
come di un simbolico undicesimo selfie da aggiungere ai dieci già presentati
dal report. (Inform/dip 6)
Il progetto
“NASCERE IN PUGLIA” si propone di realizzare una promozione del brand Puglia e
valorizzare i legami tra le Comunità di pugliesi nel mondo anche attraverso una
PIATTAFORMA WEB con la collaborazione con gli istituti di cultura, scuole
italiane all’estero, associazioni, ristoratori ed imprenditori.
Abbiamo
individuato una linea strategica: quella della cultura e quella
dell’enogastronomia, veri punti di forza dell’Italia e della Puglia.
Il progetto unirà
la Cultura e la ristorazione.
I ristoratori sono
gli ambasciatori delle nostre produzioni Made in Italia e all'estero. Il
network favorirà il turismo incoming per la Puglia con pacchetti turistico
culturali: Puglia, Cultura e Emozioni (corsi di lingua e cultura, di cucina
Pugliese e tour di bellezze, emozioni e sapori) che saranno diffuse presso le
Associazioni degli Italiani
nel mondo, gli
Istituti di cultura, scuole italiane all’estero, Ambasciate, Comites, Consolati
e Comuni e sui giornali-TV , su “Umanità Europa Mondo”, “Radici” e sui siti,
social e i notiziari delle associazioni partner del progetto.
Il progetto è
realizzato dall’AITEF, dall’ ANIM, dall’Associazione Giordano Bruno e dall’UPE
e la collaborazione dell’AICCRE della Puglia e dei GAL.
Saranno
organizzati eventi promozionali, informativi in Puglia e nel mondo. Il progetto
ha l'obiettivo di coinvolgere i ristoratori di origine pugliese nel mondo, i
professori, i ricercatori che lavorano in università, scuole di italiano,
centri di cultura all'estero.
Saranno istituiti
premi di riconoscenza e consegnati attestati di merito!
Staff Nascere in
Puglia: G. Abbati Aitef, A. Peragine Anim, V. Marsano UPE Matino, V. Garofalo
Ass.G.Bruno (de.it.press 31.5)
ROMA – La terza
Commissione Affari esteri del Senato ha iniziato ieri la discussione, del
disegno di legge (A.S. 2368), già approvato dalla Camera dei deputati, recante
l’Istituzione di una Commissione parlamentare per gli italiani nel mondo.
Verranno discussi
congiuntamente i disegni di legge recanti l’istituzione di una Commissione
parlamentare sull’emigrazione italiana nel mondo (A.S. 1851) a prima firma del
senatore Giacobbe e il disegno di legge per l’istituzione di una Commissione
parlamentare sull’emigrazione e la mobilità degli italiani nel mondo (A.S. 273)
a prima firma Garavini.
“Siamo molto
felici dell’avvio dell’iter” – dichiarano i due parlamentari del Partito
Democratico eletti all’estero – “è un segnale positivo da parte del Parlamento
e del Governo nei confronti delle nostre comunità all’estero anche circa il
rilievo sempre più marcato sul piano economico, sociale e culturale, assunto
dalle stesse nel corso di questi anni” – continuano Giacobbe e Porta –
Ricordiamo che
l’ultimo Rapporto della Fondazione Migrantes, relativo all’anno 2021, segnala
come gli italiani regolarmente iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti
all’Estero (AIRE) siano quasi 5,6 milioni, con un aumento del 3 per cento
nell’ultimo anno.
Lo stesso Rapporto
evidenzia come il contributo fornito da tali cittadini sia prezioso, non solo dal
punto di vista economico, stante anche la diretta correlazione esistente tra la
loro presenza e l’aumento dell’export di prodotti italiani verso le rispettive
aree di residenza, ma anche perché essi stessi rappresentano i primi
ambasciatori della lingua e della cultura italiane oltre i confini nazionali.
“Le prossime
settimane saranno cruciali affinché si possa arrivare all’approvazione del
testo e come rappresentati delle nostre Comunità insieme al nostro Capogruppo
in Commissione esteri il senatore Alfieri faremo da sentinelle vigili affinché
si possa arrivare nel più breve tempo possibile all’approvazione di un testo
condiviso” -concludono i Senatori Giacobbe e Porta -. (Inform/dip
15)
Deutschland, Frankreich und Italien unterstützen EU-Kandidatenstatus für Ukraine
Deutschland, Frankreich, Italien und
Rumänien befürworten den „sofortigen“ offiziellen Status eines
EU-Beitrittskandidaten für die Ukraine, wie die Staats- und Regierungschefs der
vier EU-Länder am Donnerstag (16. Juni) bei einem Besuch in dem vom Krieg
zerrütteten Land erklärten. Von: Alexandra Brzozowski, Charles Szumski und
Julia Dahm
„Wir alle vier unterstützen den Status eines sofortigen
Beitrittskandidaten“, sagte der französische Präsident Emmanuel Macron auf
einer gemeinsamen Pressekonferenz mit Bundeskanzler Olaf Scholz, dem
italienischen Premierminister Mario Draghi und dem rumänischen Präsidenten
Klaus Iohannis, die alle am Donnerstag mit dem Zug nach Kyjiw gereist waren.
Es wird erwartet, dass die EU-Kommission ihre Stellungnahme
zum Kandidatenstatus der Ukraine am Freitag (17. Juni) veröffentlicht.
Die Staats- und Regierungschefs der EU haben dann etwa eine
Woche Zeit, das Dokument zu prüfen, bevor sie auf einem entscheidenden
EU-Gipfel am 23. und 24. Juni über die Angelegenheit entscheiden.
„Die EU-Kommission wird den Rahmen für die Diskussion
vorgeben, und der Rat wird nächste Woche Entscheidungen treffen“, sagte Macron.
Scholz und Macron gehörten zu den letzten Staats- und
Regierungschefs der EU, die die Ukraine seit dem Beginn der russischen Invasion
am 24. Februar besuchten, und wurden zuvor dafür kritisiert, zu vorsichtig zu
sein und der Ukraine nicht genug Unterstützung zu bieten.
Der französische Präsident erklärte, er sei dafür, der
Ukraine sofort den Kandidatenstatus zu gewähren, verbunden mit einem Fahrplan,
der auch die Westbalkanstaaten und Moldawien berücksichtigen würde.
Auch Scholz sprach sich ausdrücklich dafür aus, der Ukraine
– und zum ersten Mal auch Moldawien – den Kandidatenstatus zu gewähren. Der
Bundeskanzler betonte zu Beginn des Tages, dass die Staats- und Regierungschefs
nicht nur in die Ukraine reisen würden, um Solidarität zu zeigen, sondern auch,
um konkrete Verpflichtungen einzugehen.
„Meine Kollegen und ich sind heute hier nach Kyjiw gekommen
mit einer klaren Botschaft: Die Ukraine gehört zur europäischen Familie“, sagte
er in einer Pressekonferenz.
„Das gilt auch für die Republik Moldau“, sagte Scholz und
fügte hinzu, dass Deutschland 800.000 ukrainische Flüchtlinge aufgenommen habe
und die Ukraine so lange unterstützen werde, wie es nötig sei.
Da eine Entscheidung für den Kandidatenstatus Einstimmigkeit
unter den 27 Mitgliedsstaaten erfordert, sagte Scholz, er werde „auf eine
gemeinsame Position“ in der EU hinarbeiten.
Gleichzeitig warnte er davor, die Westbalkanstaaten auf
ihrem langsamen Weg zum EU-Beitritt zu vernachlässigen.
„Es ist eine Frage der europäischen Glaubwürdigkeit, dass
wir gegenüber den Staaten des westlichen Balkan, die sich seit Jahren schon auf
diesem Weg befinden, nun endlich unser Versprechen einlösen, jetzt und
konkret“, sagte der Bundeskanzler.
Macron betonte außerdem, dass sich die EU auf die
bevorstehenden Erweiterungen vorbereiten müsse, „indem sie ihre Strukturen und
Verfahren modernisiert“.
Er erinnerte auch daran, dass Frankreich seine Versprechen
in Bezug auf Waffenlieferungen „gewissenhaft“ einhalte und beabsichtige, noch
mehr Waffen an die Ukraine zu liefern als ursprünglich geplant.
Zusätzlich zu den zwölf CAESAR-Kanonen, die Frankreich der
Ukraine versprochen hat, wird Kyjiw „sechs weitere CAESAR-Kanonen“ erhalten, um
sich vor Russland zu schützen.
„Selenskyj weiß, dass dies ein Schritt nach vorn ist, nicht
nur ein Schritt“, sagte der italienische Premier Draghi.
An welche Bedingungen das Beitrittsgesuch der Ukraine geknüpft
werden würde war nicht sofort klar, es ist aber wahrscheinlich, dass die
EU strenge Anforderungen in Bezug auf Rechtsstaatlichkeit, institutionelle
Reformen und Korruptionsbekämpfung stellen wird, bevor sie der formellen
Aufnahme von Beitrittsgesprächen zustimmt.
In Brüssel bezeichnete NATO-Generalsekretär Stoltenberg den
Besuch der Staats- und Regierungschefs in der Ukraine als eine „Botschaft der
Solidarität“, die die bereits von den europäischen Regierungen unternommenen
Unterstützungs- und Sanktionsmaßnahmen verstärken werde. EA 17
Studie zum Weltflüchtlingstag: Wachsende Offenheit und Hilfsbereitschaft gegenüber Geflüchteten
Hamburg. Vor dem Hintergrund des Ukraine-Krieges ist die Akzeptanz
und Hilfsbereitschaft der Deutschen gegenüber Geflüchteten deutlich gestiegen.
Laut einer anlässlich des Weltflüchtlingstags in 28 Ländern durchgeführten
Studie des Markt- und Meinungsforschungsinstituts Ipsos zeichnet sich in
Deutschland im Vergleich zu den Vorjahren ein gänzlich positiveres
Stimmungsbild ab. Nicht nur die Offenheit gegenüber der Aufnahme von
geflüchteten Menschen nimmt hierzulande zu, sondern auch der Optimismus, dass
deren Integration in die neue Gesellschaft erfolgreich gelingen kann.
Gleichzeitig wird seltener die Skepsis geäußert, dass Ausländer, die in der
Bundesrepublik Zuflucht und Asyl suchen, in Wahrheit nur aus wirtschaftlichen
Gründen nach Deutschland kommen wollen.
Mehr Akzeptanz fürs Asylrecht, weniger Skepsis gegenüber
Geflüchteten
Mehr als drei Viertel (78%) aller Bundesbürger halten es
grundsätzlich für richtig, dass Menschen die Möglichkeit haben sollten, in
Deutschland Zuflucht zu suchen, um vor Krieg oder Verfolgung zu fliehen. Damit
ist die allgemeine Zustimmung zum Grundrecht auf Asyl im Vergleich zur
Vorjahresbefragung (71%) deutlich um sieben Prozentpunkte angestiegen.
Gleichzeitig denken immer weniger Deutsche, dass die meisten Schutzsuchenden
tatsächlich nur aus wirtschaftlichen Gründen nach Deutschland kommen. In der
diesjährigen Befragung äußert nur noch knapp die Hälfte (51%) der Befragten
diese Skepsis, fünf Prozentpunkte weniger als im Vorjahr (56%) und sieben
Prozent weniger im Vergleich zum Jahr 2020 (58%).
Mehr Glaube an Integration, weniger Forderungen nach
Grenzschließung
Auch der Glaube an eine erfolgreiche Integration von
Geflüchteten hat in den letzten beiden Jahren stark zugenommen. Vor zwei Jahren
war lediglich ein Drittel (35%) der Befragten davon überzeugt, dass die
Integration der meisten Flüchtlinge, die nach Deutschland kommen, gelingen
wird. 2021 stieg dieser Anteil bereits auf 41 Prozent, in der aktuellen
Befragung zeigt sich sogar fast jeder zweite Bundesbürger (49%) zuversichtlich.
Im Umkehrschluss fordern zurzeit auch deutlich weniger Deutsche (32%) eine
vollständige Schließung der Grenzen für flüchtende Menschen – ein Rückgang um
zehn Prozentpunkte gegenüber dem Vorjahr.
Aufnahmebereitschaft variiert je nach Fluchtgrund und
Nationalität
Allerdings erfahren nicht alle Schutzsuchenden das gleiche
Maß an Toleranz und Unterstützung. Während immerhin sechs von zehn Deutschen
(60%) eine verstärkte Aufnahme von Menschen befürworten, die vor Krieg oder
einem gewaltsamen Konflikt fliehen, sinkt die Akzeptanz bei Klimaflüchtlingen
bereits deutlich. Weniger als die Hälfte der Befragten (46%) würden es
unterstützen, wenn Deutschland mehr Menschen aufnehmen würde, die vor einer
Naturkatastrophe oder den Auswirkungen des Klimawandels fliehen.
Bei Fluchtgründen, die persönliche Charakteristika betreffen,
fällt die Aufnahmebereitschaft noch geringer aus. Nur etwa jeder Dritte
befürwortet eine erhöhte Aufnahme von ausländischen Personen, die aufgrund
ihrer sexuellen Orientierung oder Geschlechtsidentität (37%), ihres Geschlechts
(36%), ihrer politischen Meinung (35%), ihrer Volkszugehörigkeit, Ethnie oder
Nationalität (35%) oder ihrer Religion (33%) in Deutschland Zuflucht suchen.
Danach gefragt, inwieweit man die Aufnahme
von mehr Flüchtlingen aus bestimmten Ländern mit starken
Fluchtbewegungen unterstützen würde, wird die außergewöhnlich große Solidarität
der deutschen Zivilbevölkerung mit den Menschen aus der Ukraine deutlich. Sechs
von zehn Bundesbürgern (60%) befürworten eine vermehrte Aufnahme von
Ukrainerinnen und Ukrainern, die vor dem Krieg in ihrer Heimat fliehen. Bei
anderen krisengebeutelten Nationen wie Syrien (31%), Afghanistan (29%), Myanmar
(27%), Venezuela (25%) oder dem Südsudan (23%) sinkt die Aufnahmebereitschaft
der Deutschen um ein Vielfaches.
Große Hilfsbereitschaft für Geflüchtete aus der Ukraine
Folgerichtig hat sich seit der russischen Invasion in die
Ukraine auch das Engagement der Zivilbevölkerung für Geflüchtete merklich
erhöht. Mehr als jeder dritte Hilfeleistende (37%) aus Deutschland hat sich in
den letzten zwölf Monaten zum ersten Mal ehrenamtlich für geflüchtete Menschen
eingesetzt. Fast die Hälfte (49%) war laut eigener Aussage besonders durch die
Lage in der Ukraine motiviert. Nur ein Viertel (24%) derjenigen Befragten, die
im letzten Jahr Flüchtlingshilfe geleistet haben, taten dies auch in der
Vergangenheit schon regelmäßig. Ipsos 17
Nicht demokratisch gewählt,
aber beliebt: Bürgerräte können die Beteiligung der Bevölkerung in der EU
stärken, sie dürfen aber nicht überhöht werden. Nils Meyer-Ohlendorf
Bürgerräte haben Konjunktur.
Frankreich oder Deutschland hatten große Bürgerräte zur Klimapolitik. In Irland
gab es einen einflussreichen Bürgerrat, der geholfen hat, den
Abtreibungskonflikt beizulegen. Es gibt viele weitere Beispiele. Nun arbeitet
auch die EU mit Bürgerräten.
Bei der Konferenz zur Zukunft
Europas haben diese sogenannten Europäischen Bürgerforen eine zentrale Rolle
gespielt. 800 Bürgerinnen und Bürger aus allen Mitgliedstaaten wurden per
Zufallsalgorithmus ausgewählt. Sie haben Empfehlungen zu Themenfeldern
erarbeitet, die für die Zukunft Europas relevant sind – von Klimaschutz, über
Arbeitsmarktpolitik bis hin zu Sicherheitspolitik.
Die EU-Kommission betrachtet die
EU-Bürgerforen als Erfolg. Nach dem Willen der Kommission sollen Bürgerforen
deshalb in Zukunft für zentrale Gesetzesvorhaben der Europäischen Union
Empfehlungen erarbeiten. Das Europäische Parlament drängt in die gleiche
Richtung. Es spricht also viel dafür, dass Bürgerräte einen festen Platz in
EU-Entscheidungsprozessen bekommen werden.
Was sind die Lehren aus den
EU-Bürgerforen? Wie können diese künftig in Entscheidungsprozesse der EU
eingebunden werden?
Ein beeindruckender Austausch
zwischen Bürgerinnen und Bürgern aus allen Mitgliedstaaten, ein hohes Maß an
Gemeinsamkeiten und sehr viel Einsatzbereitschaft waren echte Stärken der
EU-Bürgerforen. Ihre Empfehlungen haben die Beschlüsse der Konferenz wesentlich
geprägt. Paritätische Besetzung mit Frauen und Männern und große Beteiligung
junger Menschen waren weitere Stärken. Dies ist ein großer Erfolg.
Aber es gab auch Schwächen.
EU-Bürgerforen und europäische Bürgerinnen wurden zu oft gleichgesetzt. „Die
Bürger Europas hätten gesprochen und werden nun gehört“ – sinngemäß war dies
ein oft zu hörendes Statement von Politikern. Die Empfehlungen der
EU-Bürgerforen würden die Erwartungen der Bevölkerung Europas spiegeln. Quasi
als Vorgabe des Souveräns müssten sie umgesetzt werden. Damit wurden die
EU-Bürgerforen überhöht und problematisch.
Diese Gremien sollen die
Bevölkerung in ihren unterschiedlichen Facetten abbilden. Insofern sind sie
repräsentativ, aber ungewählt vertreten sie niemanden. Ohne demokratische
Legitimität haben sie keinen Anspruch auf Umsetzung ihrer Empfehlungen. Den
Mitgliedern der Bürgerforen war dies meistens bewusst, aber viele
Politikerinnen haben in ein großes Horn gestoßen: Wir haben die Europäer gehört
und setzen ihre Wünsche um.
Damit sind Enttäuschungen
vorprogrammiert – wenn Vorschläge nicht umgesetzt werden. Anstatt, wie
beabsichtigt, einen zusätzlichen Austausch zwischen Vertretern und Vertretenen
zu schaffen, wird das Narrativ „von denen da oben“ befeuert. Zudem entsteht
Verwirrung, wenn sich die Beschlüsse der Konferenz manchmal auf Empfehlungen
der EU-Bürgerforen berufen – und manchmal nicht. Haben die Beschlüsse deshalb
unterschiedliche Legitimität? Diese Frage gewinnt an Dringlichkeit, weil sie
politisch wichtige Beschlüsse der Konferenz betrifft, wie etwa die Direktwahl der
Kommissionspräsidentin.
Die überhöhende Rhetorik
suggeriert zudem, dass Bürgerforen die ultimative Form der Bürgerbeteiligung in
der EU seien. Sie sind der missing link zwischen politischen
Entscheidungsträgerinnen und der Bevölkerung. Bürgerforen heben Demokratie in
der EU auf eine neue, sprich bessere Ebene.
Diese Überhöhung wischt
andere Formen von Bürgerbeteiligung beiseite. Mitarbeit in politischen
Parteien, Bürgerbewegungen wie etwa Fridays for Future, die Europäische
Bürgerinitiative und Konsultationen der Öffentlichkeit bleiben unerwähnt. Die
Verengung auf Bürgerforen suggeriert zudem, dass ohne sie die Demokratie in der
EU auf einem alten und damit überkommenen Zustand verharre. Ohne sie gebe es
keinen echten Austausch zwischen Bürgerinnen und Politik. Das Kind wird mit dem
Bade ausgeschüttet.
Schließlich war die
Themenstellung der EU-Bürgerforen – die Zukunft Europas – zu breit. Mit dieser
uferlosen Themenstellung wurde es schwer, konkrete und damit handlungsleitende
Empfehlungen zu erarbeiten – und zwar innerhalb kurzer Zeit und ohne großes
Vorwissen. Viele Empfehlungen sind deshalb allgemein und wiederholen in der
Sache bestehende Beschlüsse der Europäischen Union – womit ihr praktischer
Mehrwert für die EU gering blieb.
Vor diesem Hintergrund bieten
sich vier Lehren an für den Fall, dass Bürgerräte in EU-Entscheidungsprozessen
einen festen Platz bekommen sollen.
Erstens: Politikerinnen und
Politiker sollten ehrlicher und mit mehr Mut sagen, was Bürgerforen in
Wirklichkeit sind: Beratungsgremien, keine Ersatzparlamente. Sie ergänzen
andere Formen der Bürgerbeteiligung, sie sprechen aber nicht alleinig für das
Volk.
Zweitens: Für Empfehlungen
mit praktischem Mehrwert sollten die bürgerlichen Diskussionsplattformen eng
begrenzte Themenfelder bearbeiten. Bürgerforen für bestimmte
Gesetzgebungsvorhaben – wie die Kommission sie vorschlagen will – sind eine
Möglichkeit für Themeneingrenzung. Bürgerforen zur strategischen Ausrichtung
der EU laufen dagegen Gefahr, sich in abstrakten Aussagen zu verlieren.
Drittens: Für eine
rechtzeitige und thematisch begrenzte Beteiligung am EU-Gesetzgebungsverfahren
sollten Bürgerforen nach einer Mitteilung der Kommission, aber vor dem
Gesetzgebungsvorschlag der Kommission einberufen werden. Damit es eine klare
Abgrenzung zu den eigentlichen gesetzgeberischen Entscheidungen gibt, sollte
die Arbeit der Bürgerforen mit der Kommentierung des Kommissionsvorschlags
enden. Nach dem Gesetzgebungsverfahren sollten die Bürgerforen öffentlich und
detailliert Feedback erhalten: Warum wurden Empfehlungen übernommen und warum
nicht.
Da Bürgerforen zeitintensiv
und teuer sind, sollten sie auf solche Gesetzgebungsvorhaben beschränkt werden,
die richtungsweisend für die EU sind und bei denen Bürgerforen die Debatte
voranbringen und inspirieren könnten. Festgefahrene Themen bieten sich hier an.
Die Kommission sollte die Bürgerräte einberufen und dafür ein weiteres Ermessen
haben. Bürgerforen sollten die ohnehin langsame und komplizierte Gesetzgebung
in der EU nicht weiter verlangsamen.
Viertens: EU-Bürgerforen
sollten so repräsentativ wie möglich sein. Das bedeutet nicht nur, dass die
Bürgerforen ein Mini-Europa hinsichtlich des Geschlechts, der Herkunft, des
Alters, der Bildung und des sozioökonomischen Hintergrunds abbilden, sondern
auch hinsichtlich von Werten und politischen Überzeugungen.
Werden diese Lehren
umgesetzt, stärken Bürgerforen die Beteiligung von Bürgern an
EU-Entscheidungen. Sie ergänzen dann die anderen Formen von Bürgerbeteiligung.
IPG 18
„Verarbeitung der Flutkatastrophe kann Jahre dauern“
Fast ein Jahr nach der
Flutkatastrophe in Nordrhein-Westfalen und Rheinland-Pfalz haben die Malteser
die ersten größeren Einzelfallhilfen ausgezahlt.
Insgesamt seien 215
Einzelfallhilfen im Wert zwischen 2.000 und 90.000 Euro bewilligt worden, wie
die Hilfsorganisation am Freitag in Köln mitteilte. Weitere 200 Anträge lägen
vor. Es sei davon auszugehen, dass die Betroffenen noch über Jahre Hilfe in
Anspruch nehmen würden.
Erheblich sei auch der Bedarf
an psychosozialer Unterstützung gewesen: Mehr als 9.000 Kontakte für eine meist
niederschwellige Beratung und Kurzzeitinterventionen bis hin zur Vermittlung
von Therapieangeboten zählen die Malteser nach eigenen Angaben bis heute.
„Zunächst haben viele
Menschen funktioniert...“
Zunächst hätten viele
Menschen „funktioniert“, sagte der Psychotherapeut und Koordinator der
Psychosozialen Nachsorge in NRW, Frank Waldschmidt. „Sie haben Schlamm
geschippt, ein Dach über dem Kopf gefunden, sind zur Arbeit und Schule gegangen
und haben Vorbereitungen für den Wiederaufbau getroffen. Doch irgendwann setzt
Ruhe ein und die Psyche verlangt Antworten.“
Dieser Prozess könne Jahre
dauern, sagte Waldschmidt. Die Fachkräfte versuchten, den Betroffenen „die
Normalität zurückzugeben, die sie bis zum 14. Juli 2021 gewohnt waren“.
„Viele Menschen sind müde,
ausgelaugt“
Berater gingen auch bezüglich
der Einzelfallhilfe gezielt auf Bewohner von beschädigten Häusern zu, betonte der
Präsident des Malteser Hilfsdienstes, Georg Khevenhüller. „Die Katastrophe
wirkt nach. Viele Menschen sind müde, ausgelaugt, oder stecken fest zwischen
Finanzierung und Handwerksarbeiten“, erklärte er. „Sie brauchen Zeit und
jemanden, der ihnen über längere Zeit beisteht. Das werden wir Malteser tun.“
Nach der bereits geleisteten
Soforthilfe, Versicherungsleistungen sowie staatlicher Unterstützung sind die
Einzelfallhilfen der letzte mögliche Teil der Hilfe, so die Malteser. Sie
finanzieren sich demnach aus Spenden und dienen dazu, den verbleibenden
Eigenanteil von bis zu 20 Prozent der Wiederaufbau- und Hausratkosten zu
decken. Finanziert werden damit Gebäudesanierungen und der Kauf etwa von
Möbeln, Haushaltsgeräten und Geschirr.
„Es gilt Formulare auszufüllen,
ja. Aber wir helfen dabei gerne“
Khevenhüller appellierte an
weitere Betroffene, sich zu melden. „Es gilt Formulare auszufüllen, ja. Aber
wir helfen dabei gerne und nehmen uns Zeit für die individuelle Beratung.“ Zehn
„Fluthilfe-Büros“ berieten Betroffene vor Ort; die Bearbeitung der
vollständigen Unterlagen erfolge binnen kurzer Zeit. Bisher seien zwölf Prozent
der Anträge abgelehnt worden. „Leider sind manche Haushalte nach den für uns
geltenden Bedingungen der Finanzbehörden nicht förderbar“, so der
Malteser-Präsident. Man versuche jedoch, in jedem Einzelfall eine
erfolgversprechende Lösung zu finden. (kna 17)
Vereinte Nationen. Flüchtlingskrise von nie dagewesenem Ausmaß
Mehr als 100 Millionen Menschen sind laut Vereinten Nationen
auf der Flucht vor Gewalt, Unterdrückung und bewaffneten Konflikt. Der
russische Angriffskrieg gegen die Ukraine hat in kürzer Zeit die Not drastisch
verschärft.
Die UN schlagen Alarm: Die Welt müsse eine Flüchtlingskrise
von nie dagewesenem Ausmaß bewältigen, warnte das Flüchtlingshilfswerk UNHCR am
Donnerstag in Genf. Erstmals seien mehr als 100 Millionen Menschen auf der
Flucht vor Menschenrechtsverletzungen, Gewalt und Konflikten. Der Angriffskrieg
Russlands in der Ukraine und andere bewaffnete Konflikte hätten erheblich dazu
beigetragen, erklärte das UNHCR in dem Bericht „Global Trends“, der anlässlich
des Weltflüchtlingstages am 20. Juni erscheint.
In den vergangenen zehn Jahren sei die Zahl der Vertriebenen
immer weiter gestiegen, beklagte der UN-Hochkommissar für Flüchtlinge Filippo
Grandi. „Entweder kommt die internationale Gemeinschaft zusammen, um etwas
gegen diese menschliche Tragödie zu unternehmen, Konflikte zu lösen und
dauerhafte Lösungen zu finden, oder dieser schreckliche Trend wird sich
fortsetzen.“
Grandi: Alle Krisen brauchen Ukraine-Mobilisierung
Neuen Daten des UNHCR zufolge ist die Zahl der weltweit
vertriebenen Menschen bis Ende 2021 auf knapp 90 Millionen gestiegen. Wellen
der Gewalt oder langwierige Konflikte in Ländern wie Äthiopien, Burkina Faso,
Myanmar, Nigeria, Afghanistan und der Demokratischen Republik Kongo hätten dazu
beigetragen. Ebenso habe der Krieg in der Ukraine in diesem Jahr mehrere
Millionen Menschen innerhalb des Landes in die Flucht gezwungen. Zudem hätten
mehr als sechs Millionen Flüchtlinge die Ukraine verlassen.
Zu den weltweit Vertriebenen zählen Flüchtlinge und
Asylsuchende sowie 53 Millionen Menschen, die durch Konflikte innerhalb ihrer
Heimatländer geflohen sind. „Die internationale Reaktion auf die Menschen, die
vor dem Krieg in der Ukraine fliehen, war überwältigend positiv“, sagte Grandi.
„Das Mitgefühl ist lebendig und wir brauchen eine ähnliche Mobilisierung für
alle Krisen auf der Welt.“
Schulze: Schwerste Hungersnot seit dem Zweiten Weltkrieg
droht
Bundesentwicklungsministerin Svenja Schulze (SPD) wies
angesichts der erschreckenden Zahlen darauf hin, dass viele Flüchtlinge und
Binnenvertriebene nun zusätzlich vom Hunger bedroht seien. „Die durch den
russischen Angriffskrieg verursachten steigenden Nahrungsmittelpreise sind eine
Katastrophe für Entwicklungsländer, die von Armut, Trockenheit und Hunger
betroffen sind und zudem als Aufnahmeländer für Millionen geflüchteter Menschen
zu sorgen haben“, erklärte Schulze am Donnerstag in Berlin. „Es droht die
schwerste Hungersnot seit dem Zweiten Weltkrieg.“
Auch Gewalt und Repressionen gegen Geflüchtete nähmen weiter
zu, erklärte „Brot für die Welt“. „Ob im Mittelmeer oder der Sahara, ob auf dem
Balkan oder entlang der Fluchtrouten in Mittelamerika – überall werden die Rechte
von Menschen, die aus unterschiedlichen Gründen ihre Heimat verlassen haben,
mit Füßen getreten“, sagt Dagmar Pruin, Präsidentin des evangelischen
Hilfswerks. „Viele bezahlen die unmenschliche Abschottungspolitik, wie sie etwa
die EU und die USA betreiben, mit dem Tod.“
„Globales Systemversagen“
David Miliband, Präsident der Hilfsorganisation IRC, sprach
mit Blick auf die Flüchtlingszahlen von einem „globalen Systemversagen“. Ohne
konkretes Handeln der Entscheidungsträger werde die historische Zahl von 100
Millionen auf der Flucht nur der Vorläufer für immer höhere Zahlen sein.
Reimund Reubelt, Erster Vorstand der Menschenrechts- und Hilfsorganisation
Hoffnungszeichen, mahnte: „Die direkten und die indirekten Folgen des
Klimawandels werden mit Sicherheit noch in diesem Jahrhundert mehr und mehr
Menschen aus ihrer Heimat vertreiben.“
Der jüngste UNHCR-Bericht beinhaltet laut dem Verfasserteam
auch Hoffnungsschimmer. Die Zahl der zurückgekehrten Flüchtlinge und
Binnenvertriebenen habe im Jahr 2021 wieder das Niveau von vor der
Corona-Pandemie erreicht. Dabei sei die Zahl der freiwilligen Rückkehrer um 71
Prozent gestiegen. (epd/mig 17)
Symbol- oder Innenpolitik? Scholz, Macron und Draghi besuchen die Ukraine
Die Staats- und Regierungschefs Deutschlands, Frankreichs
und Italiens reisen am Donnerstag nach Kyjiw, um ihre Unterstützung zeigen und
so der wachsenden Unzufriedenheit über mangelndes Engagement für die Ukraine
entgegenzutreten. Von: Oliver Noyan
Analyst:innen weisen jedoch darauf hin, dass der Besuch
innenpolitische Gründe haben könnte und die Politik Berlins, Paris‘ und Roms
gegenüber der Ukraine kaum verändern werde.
Der Besuch von Olaf Scholz, Emmanuel Macron und Mario Draghi
ist zwar noch nicht offiziell bestätigt, doch aus verschiedenen Quellen heißt
es, dass die drei Staatschefs voraussichtlich heute nach Kyjiw reisen werden,
um über die EU-Bewerbung der Ukraine und weitere finanzielle und militärische
Unterstützung zu sprechen.
Ein am Donnerstagmorgen von der italienischen
Nachrichtenagentur RAI veröffentlichtes Foto, das die drei Staats- und
Regierungschefs in einem Zugabteil zeigt, scheint diese Berichte zu bestätigen.
Deutschland und Frankreich wurden in den letzten Wochen
zunehmend von verschiedenen Vertreter:innen der Ukraine kritisiert, die den
beiden größten EU-Mitgliedstaaten vorwarfen, Kyjiw nicht ausreichend in seinen
Bemühungen zu unterstützen, die russische Invasion abzuwehren.
Außerdem seien die Länder zu zögerlich darin, ihre Beziehungen
zu Russland zu kappen.
Der ukrainische Präsident Wolodymyr Selenskyj hat bereits
betont, dass „kein Spagat zwischen der Ukraine und den Beziehungen zu Russland
versucht werden sollte“, wie er am Dienstag im ZDF sagte.
Während die drei Staatschefs versuchen, ihre Unterstützung
für die Ukraine zu zeigen, ist es unwahrscheinlich, dass der Besuch einen
Kurswechsel einleitet.
„Ich denke, es ist eher eine Form von Symbolpolitik, dass
die drei Staatsoberhäupter, die in Bezug auf Waffenlieferungen und im Umgang
mit Russland eher vorsichtig und zögerlich sind, nun in die Ukraine reisen“,
sagte Stefan Meister, Leiter des Programms für Internationale Ordnung und
Demokratie bei der Deutschen Gesellschaft für Auswärtige Politik (DGAP)
gegenüber EURACTIV.
Der Zeitpunkt des Besuchs ist nicht zufällig gewählt. Die
Europäische Kommission wird am Freitag bekannt geben, ob sie der Ukraine den
Status eines EU-Beitrittskandidaten verleihen wird.
Allerdings gibt es auch innenpolitische Gründe für den
Besuch.
Besonders der Druck auf Scholz ist in den vergangenen Wochen
kontinuierlich gewachsen. Noch im Mai hatte er gemeint, nicht „für ein kurzes
Rein und Raus mit einem Fototermin“ in die Ukraine reisen zu wollen.
Seitdem ist er jedoch zunehmend ins Kreuzfeuer geraten, da
er die vor einem Monat versprochenen schweren Waffen bisher nicht an die
Ukraine geliefert hat und von der ukrainischen Seite wegen seines Zögerns
zunehmend in der Kritik steht.
In Frankreich findet der Besuch derweil nur wenige Tage vor
der zweiten Runde der Parlamentswahlen am Sonntag statt, bei der Macron seine
Mehrheit in der Nationalversammlung gegen das Linksbündnis NUPES verteidigen
will, das in den letzten Wochen immer mehr Zuspruch gewinnen konnte.
Friedensgespräche fördern?
Zusätzliche finanzielle und militärische Unterstützung sowie
der EU-Kandidatenstatus der Ukraine dürften ganz oben auf der Tagesordnung
stehen. Es ist jedoch sehr wahrscheinlich, dass die Staats- und Regierungschefs
der größten EU-Länder auch über mögliche Friedensgespräche mit Russland
diskutieren werden.
Macron hat sich zu diesem Thema besonders deutlich geäußert.
Anfang Juni betonte er, dass der Westen „Russland nicht demütigen“ dürfe – und
löste damit breite Kritik in der Ukraine aus.
Macron wiederholte diese Position am Mittwoch bei einem
Besuch in Rumänien und Moldawien, wo er betonte, dass „der ukrainische
Präsident und seine Beamten mit Russland verhandeln müssen.“
Die Europäer:innen schuldeten der Republik Moldau ein
positives und klares Signal bezüglich ihres EU-Beitrittsantrags, sagte der
französische Präsident Emmanuel Macron am Mittwoch in Chisinau.
Während Scholz nicht öffentlich auf Friedensgespräche
drängte, sagte der Russland-Experte Stefan Meister, dass Frankreich und
Deutschland „ähnliche Positionen in dieser Frage vertreten.“
„Ich denke, bei dem Besuch wird es auch darum gehen,
auszuloten, was in Bezug auf einen Waffenstillstand möglich ist und wo die
Ukraine hier steht“, so Meister.
‚Frieden‘ oder ‚Gerechtigkeit‘?
Neue Umfragen des European Council on Foreign Relations
(ECFR), die am Mittwoch veröffentlicht wurden, könnten darauf hindeuten, dass
sowohl Bundeskanzler Olaf Schoz als auch Macron den Puls ihrer jeweiligen
heimischen Öffentlichkeit genau erfasst haben.
In allen befragten Ländern, mit Ausnahme Polens und
Großbritanniens, überwiegt bei den europäischen Wähler:innen (35 Prozent) der
Wunsch, den Krieg so schnell wie möglich zu beenden, während nur 22 Prozent
glauben, dass nur eine klare Niederlage Russlands Frieden bringen kann.
Noch höher sind diese Zahlen in Italien, Deutschland und
Frankreich, wo 52, 49 und 41 Prozent der Befragten einen sofortigen Frieden
verlangen, selbst wenn dies mit Zugeständnissen der Ukrainer:innen an Russland
verbunden wäre.
Nur jeweils 16, 19 und 20 Prozent glauben, dass nur eine Niederlage
Russlands Frieden bringen könnte.
In der Zwischenzeit hat die Ukraine bereits die Idee eines
möglichen, von Frankreich und Deutschland vermittelten Friedensplans abgelehnt
– wie es bei den Minsker Vereinbarungen der Fall war, die den Konflikt in der
Ukraine 2014 und 2015 einfroren.
„Ich fürchte, sie werden versuchen, ein Minsk-III zu
erreichen“, sagte Selenskyjs wichtigster Berater, Oleksiy Arestovych, gegenüber
Bild.
„Sie werden sagen, dass wir den Krieg beenden müssen, der zu
Ernährungsproblemen und wirtschaftlichen Problemen führt“, erklärte er.
Für Arestowitsch ist das keine Option mehr. Putin hat in Butcha
Menschen getötet, „und der Westen sagt, wir sollen sein Gesicht wahren.“ EA 16
Infektionsschutzgesetz: Mehrheit für Verlängerung
Hamburg. Das Infektionsschutzgesetz zur Bekämpfung des
Coronavirus läuft zum September hin aus. Mehr als jeder zweite Deutsche (52%)
wünscht sich laut einer aktuellen Umfrage des Markt- und
Meinungs-forschungsinstituts Ipsos jedoch eine sofortige Verlängerung des
Gesetzes. Nur knapp jeder Fünfte (19%) spricht sich dafür aus, künftig ganz auf
das Gesetz zu verzichten. 29 Prozent der Befragten würden es wiederum
bevorzugen, wenn die Bundesregierung diese Entscheidung erst trifft, falls sich
die Corona-Situation wieder verschlechtert. Unter den Anhängern der
Koalitionsparteien herrscht in dieser Frage Uneinigkeit. Während die
Unterstützer von SPD und Grünen mehrheitlich eine sofortige Verlängerung des
Infektionsschutzgesetzes begrüßen, zeigen sich die Sympathisanten der FDP tief
gespalten.
Größte Zustimmung bei Grünen-Anhängern, FDP-Unterstützer
gespalten
Die größte Zustimmung für eine Verlängerung findet sich
unter den Grünen-Anhängern (68%), gefolgt von den Sympathisanten von Union
(61%) und SPD (58%). Im Gegensatz zur Anhängerschaft der anderen
Koalitionspartner, zeigen sich die Unterstützer der FDP jedoch unentschlossen.
Lediglich 40 Prozent sprechen sich für eine Verlängerung des Gesetzes aus,
weitere 40 Prozent bevorzugen eine Vertagung der Entscheidung auf einen
späteren Zeitpunkt. Jeder fünfte Anhänger der Liberalen (20%) lehnt eine
Fortsetzung der Infektionsschutzmaßnahmen vollständig ab. Bei den Unterstützern
der Grünen (5%) und SPD (8%) tut dies nur eine kleine Minderheit, und auch
unter den Unions-Anhängern wird diese Meinung nur von jedem Zehnten (10%)
vertreten.
Sympathisanten der AfD mehrheitlich gegen Verlängerung
Bei der Anhängerschaft der Linken ergibt sich ein ähnlich
gespaltenes Bild wie bei den Freien Demokraten. Während 37 Prozent eine
Verlängerung präferieren würden, spricht sich ein Drittel (33%) dafür aus, dass
die Entscheidung später getroffen wird. Weitere 30 Prozent sind der Meinung,
dass man das Gesetz auslaufen lassen sollte. AfD-Sympathisanten sind als
einzige mehrheitlich gegen eine Verlängerung des Infektionsschutzgesetzes. 58
Prozent sind dafür, zukünftig ganz darauf zu verzichten. Nur jeder Vierte (26%)
wünscht sich eine Verlängerung und jeder Sechste (16%) eine Vertagung der
Entscheidung.
Ipsos 15
NATO-Staaten gespalten, ob China eine Bedrohung darstellt
Während Amerikaner und Europäer immer noch geteilter Meinung
darüber sind, ob sie China als „Bedrohung“ oder „Herausforderung“ für ihre
Sicherheit betrachten sollen, versuchen die Verbündeten, sich auf das neue
langfristige strategische Dokument der NATO zu einigen. Von: Alexandra
Brzozowski, Oliver Noyan und Théo Bourgery |
„Der wachsende Einfluss Chinas verändert die Welt, mit
direkten Folgen für unsere Sicherheit und unsere Demokratien“, so
NATO-Generalsekretär Jens Stoltenberg am Dienstag gegenüber der
Athen-Mazedonischen Nachrichtenagentur (ANA) und fügte hinzu, dass „Chinas Zwangspolitik“
eine „Bedrohung und Herausforderung“ für die Sicherheit des Westens darstelle.
Einige Wochen zuvor hatte Stoltenberg in Davos davor
gewarnt, Sicherheit nicht gegen wirtschaftlichen Profit einzutauschen, und auf
die Risiken hingewiesen, die entstehen, wenn die engen wirtschaftlichen
Beziehungen zu Russland und China nicht überwacht werden.
Allerdings zeigen mehrere Mitgliedsstaaten, darunter
Frankreich und Deutschland, bisweilen noch Bedenken, für China und Russland
dieselbe Bezeichnung zu verwenden.
Stattdessen könnten sie es vorziehen, Moskau eindeutig als
„Sicherheitsbedrohung“ zu benennen, während Peking als
„Sicherheitsherausforderung“ angesehen wird.
Doch selbst die Einstufung Chinas als „Herausforderung“
würde eine schärfere Formulierung darstellen als im aktuellen strategischen
Konzept der NATO aus dem Jahr 2010, in dem das Land überhaupt keine Erwähnung
findet.
Letztes Jahr betonten die Staats- und Regierungschefs der NATO
in einer historischen Wende, dass China eine Herausforderung darstelle, die es
zu bewältigen gelte, teilweise auf Drängen der USA.
Übereinstimmende Sichtweisen auf China
„Die transatlantischen Ansichten über China gehen seit
langem auseinander, aber in letzter Zeit nähern sie sich allmählich an“,
erklärte Bruno Lété, Experte für Sicherheit und Verteidigung beim German
Marshall Fund in Brüssel, gegenüber EURACTIV.
„Die EU-Mitgliedstaaten sind sich nicht einig, ob China eine
Bedrohung darstellt, und bis auf Weiteres wird China im Allgemeinen als
’strategischer Konkurrent‘ bezeichnet“, sagte er und fügte hinzu, dass die neue
Strategie der NATO dieser Linie folgen werde.
Die NATO wird wahrscheinlich auch versuchen, die
Zusammenarbeit mit China beim Bau von Infrastrukturen und Lieferketten im
NATO-Verbund zu minimieren.
Insbesondere unter dem ehemaligen US-Präsidenten Donald
Trump hat Washington lange Zeit Druck auf europäische und andere Länder
ausgeübt, chinesische Technologie, wie etwa den chinesischen Telekommunikationsausrüster
Huawei, von 5G-Netzen auszuschließen.
„Die Trump-Administration hat die EU in eine Position
gebracht, in der sie aufgefordert wurde, eine ‚Amerika zuerst und gegen
China‘-Politik zu akzeptieren, was für Washington aber nicht gut gelaufen ist“,
sagte Lété.
„Die Biden-Administration geht nuancierter vor und versteht,
dass die Europäer:innen ihre eigenen Beziehungen zu Peking haben, drängt aber
dennoch die Regierungen der EU-Länder, sich mit den von China ausgehenden
Sicherheitsbedenken zu befassen – dies versetzt die Europäer:innen in eine viel
komfortablere Position, um öffentlich eine transatlantische Annäherung an China
in Betracht zu ziehen“, fügte er hinzu.
Deutschland: Abhängigkeiten in der Lieferkette abbauen
„Eine härtere Position der NATO und der EU gegenüber China
spiegelt im Allgemeinen einen ähnlichen Trend in Deutschland wider“, sagte Tim
Rühlig, wissenschaftlicher Mitarbeiter der Deutschen Gesellschaft für
Auswärtige Politik (DGAP) gegenüber EURACTIV.
Derzeit arbeitet die Bundesregierung an einer neuen
China-Strategie, die höchstwahrscheinlich diesen kritischeren Ansatz
verdeutlichen und sich mit den Abhängigkeiten in der Lieferkette befassen wird
– nicht zuletzt im Hinblick auf die jüngsten Erfahrungen in Bezug auf kritische
Abhängigkeiten von Russland im Energiesektor, so Rühlig.
„Umstritten bleiben jedoch das Ausmaß, die Geschwindigkeit
und die Methode der Loslösung“, sagte Rühlig und fügte hinzu, dass es sowohl in
den wirtschaftlichen als auch in den politischen Kreisen Deutschlands
unterschiedliche Positionen gäbe.
Dem deutschen Experten zufolge würde sich dies vor allem im
starken deutschen Automobilsektor bemerkbar machen, für den China ein wichtiger
Import- und Exportmarkt ist.
„Da China ein wichtiger Akteur im Bereich der E-Mobilität
ist, wird China in den kommenden Jahren von einer Marktchance zu einem
Konkurrenten für die deutsche Autoindustrie“, so Rühlig.
„Die kritischen
Abhängigkeiten von China zu reduzieren ist schwieriger und wird mehr Zeit in
Anspruch nehmen als die Abkopplung von Russland, aber der Konsens, dass wir die
Abhängigkeiten reduzieren und einen kritischeren Ansatz wählen müssen, wächst
stetig.“
Frankreich: Ausländische Investitionen prüfen
In Frankreich wurde nach dem Amtsantritt des französischen Präsidenten
Emmanuel Macron im Jahr 2017 der Ruf nach mehr Restriktionen laut. Chinesische
Investitionen, mehr Vorsicht und die Schaffung einer Industriestrategie, die
nach und nach auf chinesische Zulieferungen verzichtet.
Obwohl China nie direkt erwähnt wurde, steht es im
Mittelpunkt der französischen Industriestrategie. Dies wurde nach der Krise bei
der Versorgung mit Masken während der Corona-Pandemie und bei den
Lieferengpässen von Halbleitern sehr deutlich.
„Die französische Regierung verfolgt gegenüber China einen
Ansatz der Risikominderung, insbesondere wenn es um Technologietransfers und
ausländische Direktinvestitionen geht“, erklärte Mathieu Duchâtel, Direktor des
Asienprogramms am Institut Montaigne, gegenüber EURACTIV Frankreich.
„Der französische Ansatz ist offiziell länderneutral, obwohl
er stark von den Realitäten der chinesischen Wirtschaftsmacht geprägt ist“,
fügte Duchâtel hinzu.
In diesem Sinne war Frankreich ein entscheidender Akteur bei
der Einigung auf die EU-Verordnung zur Schaffung eines Rahmens für die
Überprüfung ausländischer Direktinvestitionen im Jahr 2020.
Dasselbe gilt für das PACTE-Gesetz von 2019, das die
Bemühungen der Regierung zur Überprüfung ausländischer Direktinvestitionen
verstärkt und französische Unternehmen dazu anhält, ihre gesamte Lieferkette zu
überprüfen. EA 15
Integrationsbeauftragte Alabali-Radovan verteidigt das
geplante Chancen-Bleiberecht für langjährig Geduldete. Die Regierung wolle Wege
aus den „unerträglichen Kettenduldungen“ bieten. Flüchtlingsräte sind
skeptisch. Die Zahl der Begünstigten werde möglichst klein gehalten.
Die Integrationsbeauftragte der Bundesregierung, Reem
Alabali-Radovan (SPD), hat die Pläne der Ampel-Koalition für ein sogenanntes
Chancen-Bleiberecht für langjährig in Deutschland geduldete Ausländer
verteidigt. „Wir wollen ein modernes Einwanderungsland sein. Das heißt auch,
dass wir endlich Wege bieten aus der unerträglichen Kettenduldung für
diejenigen, die bereits seit über fünf Jahren hier in Deutschland leben“,
erklärte Alabali-Radovan am Dienstag in Berlin.
SPD, Grüne und FDP haben sich bei den Koalitionsverhandlungen
auf eine Stichtagsregelung beim Bleiberecht für Menschen geeinigt, die seit
Langem in Deutschland leben, dabei keinen gesicherten Aufenthaltstitel haben,
zugleich aber auch nicht abgeschoben werden können. Das sogenannte
Chancen-Bleiberecht sollen laut Koalitionsvertrag Menschen bekommen, die am 1.
Januar dieses Jahres seit fünf Jahren in Deutschland leben, nicht straffällig
geworden sind und sich zur freiheitlich-demokratischen Grundordnung bekennen.
Flüchtlingsrat skeptisch
Vorgesehen ist für sie eine einjährige Aufenthaltserlaubnis,
um in der Zeit die übrigen Voraussetzungen für ein Bleiberecht zu erfüllen.
Dazu gehört laut Koalitionsvertrag die Sicherung des Lebensunterhalts.
Bundesinnenministerin Nancy Faeser (SPD) hat einen Gesetzentwurf zur Umsetzung
der Regelung vor der Sommerpause angekündigt.
Flüchtlingsräte zeigten sich nach Vorlage des
Referentenentwurfs skeptisch. „Denn der Gesetzentwurf ist so restriktiv
formuliert, dass das eigentliche Ziel, mit diesem Instrument einer signifikanten
Anzahl von Menschen aus der Duldung in einen robusten Daueraufenthalt zu
bringen, als stark gefährdet erscheint“, kritisiert Martin Link,
Geschäftsführer beim Flüchtlingsrat Schleswig-Holstein.
Passpflicht wird zum Verhängnis
Vielen Geflüchteten gelinge es nicht, der Passpflicht zu
genügen. Das könne ihnen „zum Verhängnis werden“. Das lasse vermuten, „dass die
Zahl der von der künftigen Bleiberechtsregelung Begünstigten möglichst klein
gehalten“ sollen, befürchtet Link.
Alabali-Radovan zufolge könnten mehr als 100.000 Menschen
vom Chancen-Bleiberecht profitieren. „Sie sind inzwischen hier zu Hause, wollen
sich einbringen, ihren Lebensunterhalt selbst bestreiten“, sagte die
Staatsministerin, die sich am Dienstag mit den Integrationsministern der Länder
treffen wollte. Sie kündigte zudem für dieses Jahr auch einen Gesetzentwurf für
schnellere Einbürgerungen an. Der Koalitionsvertrag sieht eine Herabsenkung der
Hürden für die Erlangung der deutschen Staatsbürgerschaft vor. (epd/mig 15)
Kampf um grünes Label für Atomkraft, Erdgas: EU-Parlament forciert Kampfabstimmung
Die Abgeordneten des EU-Parlaments haben eine
parteiübergreifende Koalition gebildet, um zu verhindern, dass Kernenergie und
fossiles Gas als grüne Investitionen eingestuft werden. Von: Kira Taylor, Paul
Messad und Valentina Romano
Die parteiübergreifende Koalition hat einen Einspruch gegen
die Inklusion von Erdgas und Atomkraft in die EU-Taxonomie eingelegt. Am 14.
Juni kommt der Einspruch zur Abstimmung in den relevanten Ausschüssen des
EU-Parlaments, was als wichtiger Stimmungstest gesehen wird.
„Für uns ist es natürlich nicht akzeptabel, Gas und
Kernenergie als nachhaltig einzustufen und sogar zuzulassen, dass grüne
Finanzmittel für die Zukunft derartige Projekte fördern“, sagte Christophe
Hansen, ein Abgeordneter der Europäischen Volkspartei (EVP), auf einer
Pressekonferenz am 8. Juni, die er mit Kolleg:innen von Renew Europe, den
Grünen, den Sozialisten und Demokraten (S&D) und der Linken gab.
„Das heißt nicht, dass wir in den nächsten Jahren kein Gas
und keine Kernenergie brauchen werden, aber wir sind der Meinung, dass wir die
nachhaltige Finanzierung dafür nicht missbrauchen sollten“, so Hansen weiter.
Es ist äußerst selten, dass sich ein so breites Spektrum von
Fraktionen „mit der gleichen Stimme“ gegen etwas ausspricht, bemerkte Silvia
Modig von der Linken und fügte hinzu: „Ich hoffe, das zeigt Ihnen, wie ernst
das Parlament diese Forderung nimmt.“
Die Resolution wendet sich dagegen, Atomkraft und Gas als
grün zu bezeichnen, insbesondere nach dem Ausbruch des Krieges in der Ukraine
und dem Umgang der EU-Exekutive mit der Angelegenheit.
Dennoch ist es noch ungewiss, ob die Koalition die nötige
Zahl an Abgeordneten aufbringen kann.
Inzwischen haben die Sozialdemokraten der S&D mitgeteilt,
dass ihre gesamte Fraktion gegen das grüne Label für Atomkraft und Erdgas
stimmen wird. Aus Reihen der Grünen/EFA war dies bereits seit Monaten bekannt.
Das liberale Renew Europe, die EVP und die Linke sind nach
Angaben von Abgeordneten aus den jeweiligen Fraktionen in dieser Frage
allerdings gespalten.
Die Abstimmung in den Ausschüssen ist ein wichtiger
Stimmungstest vor der Plenarabstimmung.
„Wenn er durchgeht, dann ist das ein klares Signal“, sagte
Martin Hojsík, ein slowakischer Abgeordneter von Renew Europe, gegenüber
EURACTIV.
Auswirkungen des Krieges in der Ukraine
Während Fraktionen wie die S&D und die Grünen von Anfang
an gegen die Einbeziehung von Atomenergie und fossilem Gas waren, hat der Krieg
in der Ukraine mehr Parlamentarier:inen dazu gebracht, sich dagegen
auszusprechen.
„Gas als Übergangslösung ist tot“, sagte Hojsík gegenüber
EURACTIV und bezog sich dabei auf die Idee, dass fossiles Gas als Brücke weg
von der Kohle dienen könnte.
Die liberale Emma Wiesner kritisierte die bisherige Politik
der EU zur Verringerung der Abhängigkeit von russischem Gas nach der Annexion
der Krim. Denn der erhoffte Effekt sei nicht eingetreten, vielmehr habe sich
die Abhängigkeit der EU nach 2014 weiter erhöht.
„Wir können es uns nicht leisten, denselben Fehler zu
wiederholen, und deshalb müssen wir uns gegen dieses illegale Greenwashing
wehren“, sagte sie gegenüber Journalist:innen.
Die Möglichkeit, russisches Gas durch die Verleihung eines
grünen Labels weiter zu begünstigen, ist in der Ukraine nicht unbemerkt
geblieben.
„Gas und Atomkraft in der EU-Taxonomie sind ein klares
Geschenk an Putin, um seine Kriegsmaschinerie gegen die Ukrainer zu füttern“,
sagte Svitlana Romanko, eine Umweltanwältin aus der Ukraine und Koordinatorin
der Kampagne „Stand With Ukraine“, gegenüber EURACTIV.
„Die EU sabotiert ihre eigenen Bemühungen, die Abhängigkeit
von Russland zu verringern und den Krieg in der Ukraine zu beenden“, fuhr sie
fort.
Sie wies auf die Tatsache hin, dass die EU-Parlamentarier
bereits für ein Verbot aller russischen Energieimporte, einschließlich Gas und
Kernbrennstoff, gestimmt haben, und forderte die Parlamentarier:innen auf,
diesen Einwand zu unterstützen.
Auch die ukrainische Parlamentsabgeordnete Inna Sovsun
schrieb auf Twitter: „Gas als klimafreundlich zu bezeichnen, ist [eine] Abkehr
von der grünen Zukunft und ein Geschenk an Putin, seinen Krieg fortzusetzen.“
Ein delegierter Akt für Berlin und Paris?
Die Skepsis gegenüber der Einbeziehung von Atomkraft und
fossilem Gas findet auch in der Finanzwelt Widerhall.
Während einer öffentlichen Anhörung am Montag (30. Mai)
erklärte Nancy Saich, Chefexpertin für Klimawandel bei der Europäischen
Investitionsbank (EIB), dass viele Investor:innen, die nach grünen Anlagemöglichkeiten
suchen, nicht unbedingt ihr Geld in Atomkraft und Gas stecken wollen.
„Wir möchten unsere Ressourcen nutzen, um uns auf
kohlenstoffarme Lösungen zu konzentrieren, denn die Klimakrise ist nach wie vor
sehr dringlich“, fügte sie hinzu.
Seit der Aufnahme in die Liste wurde kritisiert, dass es
sich dabei um einen politischen Schachzug handele, der nicht auf
wissenschaftlichen Erkenntnissen oder den Vorstellungen des Marktes beruhe.
„Bei dieser Abstimmung geht es letztlich darum, ob wir die
Taxonomie zu einem weniger wissenschaftlich und weniger marktorientierten
Instrument machen und stattdessen zu einem politischen Instrument“, sagte
Hojsík.
Es wird kritisiert, dass der delegierte Rechtsakt „zugunsten
Deutschlands und Frankreichs manipuliert worden“ sei, so Tang.
„Dies ist privates Geld, das für den Übergang benötigt wird
und an die größten Länder geht, die durchaus in der Lage sind, die
Transformation zu finanzieren, weshalb mehr und mehr Delegationen in der
S&D erkennen, dass dieses Vorgehen nicht zum Vorteil [ihrer Länder] ist“,
fügte er hinzu.
Expert:innen zufolge kann die Kernenergie jedoch einen
wesentlichen Beitrag zum Erreichen der Klimaziele der EU leisten.
So sprach sich der französische Abgeordnete von Renew
Europe, Gilles Boyer, für die Kernenergie aus, da diese notwendig sei, um die
Ziele der EU in Bezug auf die Energieunabhängigkeit und den Ausstieg aus
fossilen Brennstoffen zu erreichen.
„Können wir uns wirklich vorstellen, dass wir in der Lage
sein werden, unsere Ziele zu erreichen, ohne zusätzliche Mittel in die
Kernenergie zu investieren“, sagte er.
Im Gespräch mit EURACTIV erklärte er, dass die EU-Verträge
eindeutig besagen, dass jedes EU-Land seinen eigenen Energiemix wählen kann.
Einige EU-Länder haben sich für die Kernenergie entschieden, weil sie kaum
Kohlenstoffemissionen verursacht und die Versorgungssicherheit gewährleistet,
fügte er hinzu.
Er verwies auf eine Bewertung des Forschungszentrums der
Europäischen Kommission, in der untersucht wurde, ob die Kernenergie in die Taxonomie
aufgenommen werden könnte, wonach die Auswirkungen des gesamten Lebenszyklus
der Kernenergie auf Mensch und Umwelt unter den Grenzwerten für schädliche
Auswirkungen liegen.
„Die Diskussion über Gas und Kernenergie, die schon seit
einiger Zeit geführt wird, ist seit dem Beginn des Krieges in der Ukraine wohl
zu einer Mainstream-Debatte geworden“, so Boyer gegenüber EURACTIV.
„Ich denke, dass einige Leute, die vielleicht die Vorteile
einer zuverlässigen Versorgung mit emissionsfreier Kernenergie nicht in
Betracht gezogen hatten, ihre Meinung überdacht haben“, fügte er hinzu.
In Frankreich könnte die Aufnahme der Kernenergie in die
Taxonomie der alternden französischen Atomkraftwerkflotte zugutekommen. Das
Land verfügt über 56 Reaktoren, von denen viele bald 40 Jahre alt werden oder
sogar bereits sind.
Im Oktober 2022 schätzte der französische Energiekonzern EDF
den Investitionsbedarf für die Modernisierung seiner Kernkraftwerke auf 49,4
Milliarden Euro. Wenn die Kernenergie nicht in die Taxonomie aufgenommen wird,
könnte das Überleben von EDF in Gefahr sein und die Energiesicherheit
Frankreichs gefährden, so das Unternehmen.
Deutschland hat unterdessen erklärt, dass es die Aufnahme
von fossilem Gas und Kernenergie in die Taxonomie ablehnen wird. Allerdings
hatte sich die SPD zuvor für die Inklusion von Erdgas eingesetzt, wobei ihr
nachgesagt wurde, die Inklusion von Atomkraft in Kauf zu nehmen. EA 15
„Alarmierender Trend“. Friedensforscher warnen vor atomaren Wettrüsten
Ein Ende des nuklearen Wettrüstens ist nicht in Sicht - im
Gegenteil. Friedensforschern zufolge sind die Atommächte weiter dabei, ihre
Arsenale zu modernisieren oder auszubauen. Damit steige auch das Risiko für den
Einsatz von Atomwaffen.
Friedensforscher warnen vor einem weiteren atomaren
Wettrüsten. Zwar habe sich die Zahl nuklearer Sprengköpfe weltweit weiter
verringert, erklärte das Friedensforschungsinstitut Sipri am Montag in
Stockholm. Allerdings sei damit zu rechnen, dass die Bestände in den nächsten
zehn Jahren wieder steigen. Zugleich seien die neun Atommächte kontinuierlich
dabei, ihre Arsenale zu modernisieren und auszubauen. Sipri-Forscher Wilfred
Wan sprach von einem „alarmierenden Trend“.
Laut einem am Montag veröffentlichten Bericht besaßen die
USA, Russland, Großbritannien, Frankreich, China, Indien, Pakistan, Israel und
Nordkorea zu Beginn dieses Jahres insgesamt 12.705 atomare Sprengköpfe und
damit 375 weniger als Anfang 2021. Die Anzahl der operativ einsetzbaren
Nuklearsprengköpfe schätzen die Friedensforscher aktuell auf 3.732. Davon
würden etwa 2.000 Sprengköpfe auf hoher Alarmstufe bereitgehalten. Fast alle
seien im Besitz Russlands oder der USA. Sipri-Forscher Wan sagte, die meisten
Atommächte schärften „ihre nukleare Rhetorik und verdeutlichen die Rolle, die
diese Waffen innerhalb ihrer militärischen Strategien spielen“.
Gemischte Signale
Anfang 2020 gab es weltweit noch 13.400 nukleare
Sprengköpfe. Der Rückgang wird vor allem der Entsorgung ausrangierter
Sprengköpfe durch Russland und die USA zugeschrieben. Zusammen besitzen beide
Länder mehr als 90 Prozent aller Nuklearwaffen. Die Verringerung war im
bilateralen Abrüstungsabkommen „New Start“ im Jahr 2010 vereinbart worden. Kurz
vor dessen Auslaufen im Februar 2021 wurde es um fünf Jahre verlängert. Schon
damals bemängelte Sipri, dass es kaum Aussichten auf eine zusätzliche
bilaterale nukleare Rüstungskontrolle gebe.
Nun sprechen die Friedensforscher von „gemischten Signalen“
in der Nukleardiplomatie. Im Januar 2021 trat der UN-Vertrag zum Verbot von
Atomwaffen in Kraft, der bis Mai von 86 Staaten unterzeichnet und von 61
Ländern ratifiziert wurde. Atommächte wie die USA, Russland, China, Frankreich
und Großbritannien, die zugleich die fünf permanenten Mitglieder des
UN-Sicherheitsrates sind, lehnen das Abkommen jedoch ab. Kritiker warnen schon
länger, dass etwa die USA auf sogenannte „Mini-Nukes“ mit geringerer
Sprengkraft setzen, die gezielter eingesetzt werden können, aber ähnlich
zerstörerisch sind.
Gespräch ins Stocken geraten
Wegen des Ukraine-Krieges seien die bilateralen Gespräche
zwischen Russland und den USA ins Stocken geraten, erklärten die
Friedensforscher. Russland habe sogar offen mit dem möglichen Einsatz von
Atomwaffen gedroht. Auch keiner der anderen Nuklearwaffen-Staaten führe
Rüstungskontrollverhandlungen. „Das Risiko eines Einsatzes atomarer Waffen
scheint heute höher als je zuvor seit dem Höhepunkt des Kalten Krieges“, sagte
Institutsdirektor Dan Smith. Die sieben anderen Nuklearmächte verfügen Sipri
zufolge zwar über deutlich kleinere Arsenale. Doch auch sie seien weiter dabei,
diese zu modernisieren oder aufzustocken.
Nach Sipri-Angaben erweitert zum Beispiel China sein Arsenal
– Satellitenbilder zeigten den Bau von mehr als 300 neuen Raketensilos.
Großbritannien hatte 2021 angekündigt, die Obergrenze für seinen gesamten
Vorrat an Sprengköpfen zu erhöhen. Während das Land China und Russland wegen
mangelnder Transparenz kritisierte, kündigte es seinerseits an, keine Zahlen
mehr über die eigenen Bestände offenzulegen. Frankreich startete derweil im
Februar 2021 ein Programm zur Entwicklung strategischer Atom-U-Boote der
dritten Generation mit ballistischen Raketen. (epd/mig 15)
Ukraine-Krieg hat enorme Auswirkungen auf Afrika
Der Krieg in der Ukraine betrifft nicht nur Russland und
Europa, auch der afrikanische Kontinent ist davon direkt betroffen. Das hat vor
allem mit dem ausbleibenden Getreideexport aus der Ukraine zu tun, wie im
Interview mit Radio Vatikan die deutsche Kommunikationsmanagerin der NGO Human
Rights Watch, Birgit Schwarz*, sagt.
RV: Wir haben einen Krieg in Europa, aber das hat ja auch
Konsequenzen für den afrikanischen Kontinent. Wir sprechen bereits von
Hungersproblemen, von Spannungen, sogar von Flüchtlingsströmen. Davon spricht
die UNO. Wie sieht es aus ihrer Sicht aus?
Schwarz: Es stimmt, der Krieg in der Ukraine hat enorme
Auswirkungen auf Afrika. Und zwar deswegen, weil die russische Invasion in der
Ukraine die Handelsströme unterbrochen hat und weil die russische Armee die
Häfen im Schwarzen Meer blockiert. Und das bedeutet, dass die Weizen-Exporte
das Land nicht verlassen können. Es stimmt auch, dass die afrikanischen Länder
zu 40 Prozent Weizen aus der Ukraine und aus Russland importieren. Diese
Importe fallen jetzt weg und das hat nicht nur zu einer
Nahrungsmittel-Verknappung geführt, sondern auch zu enormen Preissteigerungen.
In Afrika leben aber viele unter der Armutsgrenze und diese
Preissteigerungen können die meisten Menschen nicht mehr auffangen. Hinzu
kommt, dass es auch keine sozialen Auffangsysteme gibt, so wie in Europa, dass
also keine Mittel zur Verfügung stehen, um diese Preissteigerungen aufzufangen
und Menschen zu helfen, trotzdem noch Brot und Öl kaufen zu können.
Und da sind jetzt auch die Geberländer gefragt, dass sie
afrikanische Länder unterstützen, um diese Preissteigerungen finanziell
aufzufangen, und dass auch keine Maßnahmen ergriffen werden, um die
afrikanischen Länder zu zwingen, jetzt ihre Schuldenberge abzubauen. Das geht
im Moment nicht. Die Länder sind ohnehin noch gebeutelt von der Covid-Krise.
RV: Wie sieht es diesbezüglich aus Sicht der Menschenrechte
in Afrika aus?. Könnte der Krieg in der Ukraine auch hierzu Konsequenzen haben,
also dass es noch Verschlechterungen geben wird? Oder sind wir an sich in einer
eher schlechten Phase?
Schwarz: Na ja, die Covid-Krise hat ja ohnehin schon
negative Auswirkungen auf Freiheitsrechte gehabt. Und diese Hungerkrise könnte
dazu führen, dass es weitere Migrationsströme gibt. Die UN spricht davon, wenn
die Blockade nicht aufgehoben wird, dass es dann zu 1,4 Milliarden Flüchtlingen
kommen könnte. Was in den Ländern selber passieren wird, müssen wir noch
abwarten. Also im Tschad ist inzwischen schon der Notstand ausgerufen. In
Südafrika gibt es Bestrebungen, einen Generalstreik auszurufen. Also es könnte
dort zu Unruhen kommen. Wir wollen da auch nicht spekulieren, aber auf alle
Fälle ist es so, dass natürlich durch die Covid-Krise schon alleine
Freiheitsrechte eingeschränkt worden sind, und zwar erheblich teilweise.
RV: Gibt es noch etwas, was für Sie wichtig ist mitzuteilen,
also was Sie unbedingt uns sagen wollen?
Schwarz: Es gibt natürlich auch noch enorm viele andere
Krisen auf der Welt, die völlig vergessen werden. Denken wir an Äthiopien, wenn
wir jetzt über Afrika reden. Der anhaltende Bürgerkrieg in der Region, wo auch
erheblich Menschenrechte verletzt werden, wo es zu Vergewaltigungen,
Vertreibungen und Exekutionen kommt. Das hat Human Rights Watch alles
dokumentiert, doch ist das völlig vergessen in der westlichen Welt. Vergessen
ist auch die ständige Krise in Somalia oder auch im Sudan, jetzt, wo wir ja im
Prinzip wieder weitere Bestrebungen hin zu einem Zurück zu einem Militärregime
haben.
„Natürlich muss auch Europa sich einigen auf andere
Verteilungsmechanismus“
Vergessen ist auch die vom Westen verursachte Krise in
Afghanistan, wo Frauen überhaupt keinerlei Selbstbestimmungsrecht mehr haben.
Und das sind alles Krisen, die wir über dem Ukrainekonflikt auch weiterhin im
Auge behalten müssen als westliche Länder. Und was man vielleicht auch noch
sagen muss, ist: Es ist wahr, wir haben ukrainische Flüchtlinge mit offenen
Armen in Europa aufgenommen. Aber jene Migrantenströmen und Flüchtlinge aus den
Ländern in Afrika, die teilweise vor Verfolgung fliehen, teilweise aber eben natürlich
auch vor schlimmen Hungersnöten fliehen, werden in Europa blockiert. Sie werden
überhaupt nicht reingelassen, zurückgeschickt nach Libyen, wo sie Folter und
Missbrauch ausgesetzt sind und teilweise sogar von Menschenhändlern gehandelt
werden. Dass ukrainische Flüchtlinge hier integriert und aufgenommen werden,
dass man dafür bestimmte Mechanismen in Kraft gesetzt hat, die das möglich
machen, zeigt ja, dass es auch für andere Flüchtlinge möglich wäre. Und ich
denke, wir müssen da auch wirklich unsere Politik ändern. Natürlich muss auch
Europa sich einigen auf andere Verteilungsmechanismus, das ist auch klar.
Das Interview führte Mario Galgano.
*Birgit Schwarz ist für die Kommunikation bei Human Rights
Watch tätig. Sie ist zuständig für die Medienstrategie in weiten Teilen
Afrikas, aber auch für Italien, Polen und Griechenland. (vn13)
EU-Innenminister-Treffen. Faeser: „Solidaritätserklärung“ zur Aufnahme von Flüchtlingen
Im jahrelangen Ringen um eine gemeinsame Migrationspolitik
gibt es offenbar Fortschritte. EU-Innenminister einigten sich auf einen
Verteilmechanismus, um Mittelmeer-Länder zu entlasten. Das Vorhaben erntet auch
Kritik.
Die meisten EU-Staaten tragen nach Angaben von
Bundesinnenministerin Nancy Faeser (SPD) grundsätzlich eine neue
„Solidaritätserklärung“ zur Aufnahme von Flüchtlingen mit. Dadurch könnten die
Anrainerstaaten des Mittelmeeres künftig unterstützt werden, sagte Faeser nach
einem Treffen mit ihrem Amtskollegen am Freitag in Luxemburg. Sie gehe davon
aus, dass circa zwölf der 27 EU-Länder in diesem Rahmen Flüchtlinge aufnähmen.
Der Text müsse noch im Detail ausgehandelt und beschlossen werden. Der Deal
soll bis Monatsende stehen.
Die Länder, die die Erklärung mittragen, aber keine Menschen
aufnehmen wollten, sollten sich finanziell beteiligen, sagte Faeser. Offen ist
ihr zufolge nicht nur die Zahl der Aufnahmeländer, sondern auch die Zahl der
Aufzunehmenden in diesem Rahmen sowie die Höhe der alternativen finanziellen
Beteiligung. Diese Fragen solle Frankreich, das aktuell den EU-Ratsvorsitz
innehat, in den kommenden zehn Tagen klären, sagte die Ministerin. Zugleich
werde auch entschieden, wie viel Menschen Deutschland in diesem Rahmen
aufnehme.
Auf Ablehnung stößt das Vorhaben unter anderem in
Österreich. Innenminister Gerhard Karner sprach sich für mehr Überwachung der
EU-Außengrenzen aus, sie müsse stärker und robuster werden, so Karner. Ein
offenes Europa sei ein falsches Signal an die Schlepper.
Linke: Das ist Abwehr unerwünschter Schutzsuchender
Die Linkspartei bezeichnet die Einigung als im „Kern ein
unverantwortliches ‚Weiter so‘“ in der EU-Asylpolitik. „Freiwilligen
Umverteilungen in geringer Zahl steht die Vereinbarung zum verstärkten Schutz der
EU-Außengrenzen gegenüber“, erklärt Linkspolitikerin Clara Bünger.
Menschenrechte hätten in der EU keine wirksamen Fürsprecher mehr, kritisiert
die Sprecherin für Flüchtlingspolitik ihrer Fraktion.
Die EU-Staaten streiten seit Jahren um die Aufnahme und
Verteilung von Flüchtlingen und Migranten. Eine für alle Staaten verbindliche
Neuregelung des bisherigen Dublin-Systems, bei dem in der Regel der
Ersteinreise-Staat sich um die Ankömmlinge kümmern muss, ist bisher
gescheitert. (epd/mig 13)
Linke erschüttern Macrons Hoffnungen auf absolute Mehrheit
In der ersten Runde der französischen Parlamentswahlen am
Sonntag (12. Juni) liegen die Präsidentenbewegung Ensemble und das Linksbündnis
NUPES mit 25,75 Prozent beziehungsweise 25,66 Prozent der Stimmen gleich auf.
Von: Davide Basso und Théo Bourgery
Es ist keinesfalls sicher, dass Macrons Partei im zweiten
Wahlgang am kommenden Sonntag (19. Juni) die absolute Mehrheit erringen wird.
Die rechtsextreme Partei Rassemblement National (RN) liegt
mit 18,68 Prozent an dritter Stelle, gefolgt von Les Républicains (LR) mit
10,42 Prozent.
Der Wahlkampf verlief seit mehreren Wochen schleppend, wurde
allerdings vor kurzem von einer Kontroverse über Polizeigewalt angeheizt.
In einer Fernsehansprache am Sonntagabend rief
Premierministerin Elisabeth Borne, selbst Kandidatin in der Region Calvados, zu
einer „starken und klaren Mehrheit“ auf, um „auf die Notlagen zu reagieren, die
das tägliche Leben der Franzosen und Französinnen belasten.“
Jean-Luc Mélenchon, Vorsitzender der NUPES-Koalition,
erklärte hingegen, dass „die Partei des Präsidenten besiegt wurde.“ Er rief die
Wähler:innen dazu auf, sich im zweiten Wahlgang zahlreich an der Wahl zu
beteiligen, um eine mögliche Regierungsmehrheit zu blockieren.
Schließlich wird diese Wahl durch eine Rekordhöhe beim
Nichtwähleranteil (52,49 Prozent) getrübt, die im Vergleich zu den
Parlamentswahlen 2017 um weitere 2 Prozent gestiegen ist und deutlich über der
Quote von 2012 (42,78 Prozent) liegt.
Keine klare Mehrheit
Noch ist nicht sicher, ob Macrons Partei nach der zweiten
Runde am kommenden Sonntag (19. Juni) eine absolute Mehrheit erreichen wird.
Nach Angaben des Meinungsforschungsinstituts IPSOS France könnte Ensemble
zwischen 255 und 295 Sitze erringen – die absolute Mehrheit in der
Nationalversammlung liegt jedoch bei 289 Sitzen.
Die NUPES dagegen dürfte zwischen 150 und 210 Sitze
erringen. Damit wäre das Linksbündnis letztlich die führende Oppositionskraft
in der Nationalversammlung.
Allerdings ist der Vorschlag Mélenchons, im Falle eines
hohen Ergebnisses im zweiten Wahlgang Premierminister zu werden, mittlerweile
so gut wie auszuschließen.
Trotz des hohen Wahlergebnisses bleibt die NUPES hinter der
Summe der Ergebnisse der Koalitionsparteien bei den Präsidentschaftswahlen im
April zurück (30,61 Prozent).
Gleiches gilt für Macrons Partei, die im ersten Wahlgang der
diesjährigen Präsidentschaftswahlen 27,85 Prozent erreichte, im ersten Wahlgang
der Parlamentswahlen 2017 hingegen 28,21 Prozent der Stimmen erhielt.
Die rechtsextreme Rassemblement National hingegen
verbesserte ihr Resultat gegenüber 2017.
Rechte erstarkt, Konservative resilient
Die drittplatzierte Rassemblement National (RN) schneidet
mit 18,73 Prozent der Stimmen besser ab als 2017, hat jedoch Mühe, ein
ähnliches Niveau wie bei den diesjährigen Präsidentschaftswahlen zu erreichen,
als die Parteivorsitzende Marine Le Pen 23,15 Prozent der Stimmen erringen
konnte.
Nächste Woche könnten zwischen 15 und 45 rechtsextreme
Abgeordnete ins Parlament gewählt werden, was ihnen die Möglichkeit geben
würde, eine Fraktion zu bilden. Seit 1986 hatte keine rechtsextreme Partei mehr
so gut abgeschnitten.
Mit 10,42 Prozent der Stimmen zeigt sich die konservative
Partei Les Républicains (LR) trotz ihrer historischen Niederlage von 4,8
Prozent bei den Präsidentschaftswahlen in den Umfragen robust. Sie verliert
ihre Position als wichtigste Oppositionspartei, bestätigt aber die
Zuverlässigkeit ihrer lokalen und regionalen Wählerbasis.
Die konservativen Abgeordneten könnten jedoch eine
entscheidende Rolle spielen, wenn Macron die absolute Mehrheit verfehlt, da sie
möglicherweise eine Koalition mit der Partei des Präsidenten eingehen könnten.
EA 13
UNHCR. Zahl der toten und vermissten Bootsflüchtlinge stark gestiegen
Die Zahl der toten Bootsflüchtlinge hat sich UN-Angaben
zufolge binnen drei Jahren mehr als verdoppelt. Im laufenden Jahr sind allein
im Mittelmeer bereits mehr als 800 Menschen ums Leben gekommen. Eine staatliche
Seenotrettung gibt es dennoch nicht.
Die Zahl der Bootsflüchtlinge, die im Mittelmeer und im
Nordwestatlantik ums Leben gekommen sind, ist nach UN-Angaben in den
vergangenen Jahren stark gestiegen. Im vergangenen Jahr seien im Mittelmeer und
im Nordwestatlantik 3.231 Tote oder Vermisste registriert worden, teilte das
Flüchtlingshilfswerk UNHCR am Freitag in Genf mit. Im Jahr 2020 seien es noch
1.881 Tote und Vermisste gewesen, im Jahr davor 1.510.
Seit Beginn des laufenden Jahres sind laut der
Internationalen Organisation für Migration (IOM) bislang 817 Menschen bei der
Überfahrt ums Leben gekommen oder werden vermisst. Die Dunkelziffer dürfte weit
höher liegen. Das Mittelmeer zählt zu den gefährlichsten Fluchtrouten der Welt.
Keine staatliche Seenotrettung
Dennoch gibt es im Mittelmeer keine staatlich organisierte
Seenotrettungsmission. Lediglich die Schiffe privater Organisationen halten
Ausschau nach in Not geratenen Flüchtlingen und Migranten. Immer wieder dauert
es viele Tage, bis die italienischen Behörden den Rettungsschiffen einen Hafen
zuweisen. Malta gibt seit Jahren keine Erlaubnisse mehr.
Derweil sind mehr als 400 von zwei privaten Rettungsschiffen
im Mittelmeer gerettete Flüchtlinge in Italien an Land gegangen. „Wir freuen
uns, dass sie nun an Land sind“, teilte die Organisation Sea-Watch am Samstag
auf Twitter mit. Zugleich kritisierte die Betreiberorganisation der „Sea-Watch
3“, dass es drei Tage gedauert habe, bis alle Menschen das Schiff in der
sizilianischen Stadt Pozzallo verlassen konnten. Insgesamt mussten die Menschen
bis zu neun Tage auf den Rettungsschiffen ausharren.
UN: Mehr Tote auf Landrouten
Die Besatzung der „Sea-Watch 3“ hatte die Menschen in sechs
Einsätzen vom 2. bis 6. Juni an Bord genommen. Am Donnerstag hatten die
Seenotretter die Erlaubnis bekommen, Pozzallo anzulaufen. Auch die 92
Geflüchteten an Bord der „Mare Jonio“ der italienischen Organisation
Mediterranea Saving Humans konnten in der sizilianischen Stadt an Land gehen.
Wie die UN weiter mitteilt, seien möglicherweise weitaus
mehr Menschen auf den Landrouten durch die Sahara und in abgelegenen
Grenzgebieten gestorben oder würden vermisst. So seien die Flüchtlinge und
Migranten in Eritrea, Somalia, Dschibuti, Äthiopien, Sudan und Libyen vielen
Gefahren ausgesetzt. Die meisten Betroffenen stammen aus afrikanischen Ländern.
Sie wollen Armut und Gewalt in ihren Heimatregionen entkommen und suchen ein
besseres Leben in Europa. (epd/mig 13)
Neue Studie zu den Trends der urbanen Mobilität in europäischen Großstädten
Deutsche halten am stärksten an ihrem Verbrenner fest
Die Studie BEST XPERIENCE Mobility, für die in 50
Großstädten fünf europäischer Länder 10.744 Personen befragt wurden, zeigt eine
relative Beharrlichkeit der Deutschen in Punkto Mobilitätsverhalten. Der
Umstieg auf das E-Auto fällt den Deutschen schwerer als Kunden anderer Länder
und auch ihren Automobilherstellern bleiben sie vergleichsweise treu. 80
Prozent erwägen selbst nach negativen Erfahrungen, ihre gewohnte Automarke
erneut zu kaufen. Doch künftig droht den Unternehmen in Sachen Kundenbindung
der Sprit auszugehen. Jüngere Kunden empfehlen ihre Automarke seltener weiter.
die Studie „Best-Xperience“ der Customer-Experience-Experten
Buljan&Partners und Motorpress Iberica in Kooperation mit der PAWLIK Group
erhebt die Präferenzen von Automobilkunden und Nutzern weiterer
Mobilitätsservices in Deutschland, dem Vereinigten Königreich, Spanien, Italien
und Frankreich. Die Ergebnisse zeigen teilweise erhebliche Diskrepanzen
zwischen den Erwartungen und Angeboten an Mobilität. „Wir steuern auf einen
epochalen Umbruch in der Mobilität zu und müssen uns mehr damit befassen,
welche Wege die Kunden mitgehen“, so Joachim Pawlik, CEO der PAWLIK Group.
Silvana Buljan, Initiatorin der Studie, erklärt: „Unsere Studie schließt als
erste in Europa die Informationslücke der sich ändernden Kundenwünsche und
deckt regionale Unterschiede auf.“
Die Studie gibt detailliert Auskunft über Trends, Vorlieben
von Kunden und ihre Einstellung gegenüber Mobilitätsdienstleistern. Henrik
Meyer-Hoeven, Geschäftsführer International der PAWLIK Group, hat sich
insbesondere mit Besonderheiten Deutschlands im internationalen Vergleich
auseinandergesetzt:
Die Deutschen sind im Ländervergleich am wenigsten von
Elektromobilität überzeugt
Zum Trendthema Elektromobilität wurden Autohalter befragt,
ob sie in den nächsten drei Jahren ein elektrisches oder hybrides Fahrzeug
erwerben werden. Im Ländervergleich ist Deutschland mit 24 Prozent
Schlusslicht. „Die Deutschen halten am stärksten an ihrem Verbrenner fest“,
sagt Henrik Meyer-Hoeven. In Italien planen fast doppelt so viele (47 Prozent)
den Kauf eines E-Cars. Frauen haben weniger Interesse an Elektromobilität als
Männer.
Im Alter um 40 ist das Interesse an E-Cars am größten
Die meisten Interessenten finden Anbieter in Deutschland in
der Altersklasse von 35 -44 Jahren. Hier hat immerhin jeder Dritte Interesse an
einem Kauf (34 Prozent).
Alternative Mobilität entwickelt sich langsam – auch hier
bildet Deutschland das Schlusslicht
Alternative Mobilitätsangebote rücken stärker in den Fokus.
Aufgrund der enorm gewachsenen Spritpreise wird das Auto zurzeit oftmals stehen
gelassen. Trotzdem fällt bislang nur in Spanien der Net Promoter Score (NPS)
für alternative Mobilität positiv aus. Das bedeutet: In allen anderen Ländern
würden Kunden eher nicht empfehlen, auf Alternativen umzusteigen. Die Aufgabe
des eigenen Autos zugunsten von alternativer Mobilität ist in Deutschland nur
für 13 Prozent der Befragten eine Option. Die Wahrscheinlichkeit, eine Sharing-Dienstleistung
als Haupttransportmittel zu verwenden liegt bei zehn Prozent (Spanien 14 %, UK
16 %, Frankreich 16 %. Italien 18 %)
In Spanien sind Öffentliche Verkehrsmittel der beliebteste
Mobilitätsservice. Am schlechtesten werden sie in Italien bewertet. Deutschland
liegt im Mittelfeld. Bevor wir hierzulande Wow-Erlebnisse für Kunden schaffen,
müssen die Grundbedürfnisse abgedeckt und Sicherheit und Hygiene verbessert
werden. In allen Ländern sind Verlässlichkeit und Nähe zum Start- und Zielort
zudem besonders bedeutsam.
Sharinglösungen können von negativen Kundenerlebnissen in
öffentlichen Verkehrsmitteln profitieren
Aufgrund des häufig schlechten Kundenerlebnisses mit
öffentlichen Verkehrsmitteln suchen Nutzer zunehmend Alternativen in
Sharing-Lösungen. Die klassische Mitfahrzentrale wird derzeit noch am
häufigsten weiterempfohlen. Für neuere innerstädtische Dienstleistungen ist man
weniger offen, da die Handhabung vielen nicht klar genug ist. Die Einfachheit
des Vertragsabschlusses sowie die räumliche Nähe sind für Kunden unerlässlich –
und hier liegt auch das größtes Verbesserungspotenzial. Silvana Buljan
empfiehlt Mobilitätsdienstleistern: „Achten Sie auf Einfachheit, Nähe und
Verfügbarkeit – die Grundlegenden Ansprüche der Kunden.“ In der Menge der Lösungen
sei es noch keinem Anbieter gelungen, dem Privatfahrzeug im Stadtverkehr
ernsthafte Konkurrenz zu bieten.
Autohersteller sollten sich nicht auf der Kundentreue
ausruhen
Die Studienmacher betonen, dass Kunden in Deutschland ihrer
Automarke zwar noch stark vertrauen: 64 Prozent der Deutschen sind zufrieden
mit dem Kundenerlebnis der Automobilindustrie. 35 Prozent sagen sogar, dass
Automobilunternehmen ihre Erwartungen im Service und in der Betreuung
übertreffen. 80 Prozent der deutschen Kunden erwägen laut der Studie, ihrer
Marke auch nach einer schlechten Erfahrung treu zu bleiben. Im Gegensatz zu
Italien laufen enttäuschte Kunden hierzulande nicht sofort zur Konkurrenz über.
Dennoch sollten sich die Unternehmen nicht darauf ausruhen. Jüngere Kunden sind
wechselbereiter als Ältere und auch die Weiterempfehlungsrate sinkt deutlich.
Über 35-Jährige empfehlen ihre Automarke dreimal häufiger weiter als
18-34-Jährige.
Über BEST XPERIENCE Mobility
Für „Best Xperience Mobility“ wurden Ende 2021 insgesamt
10.744 Personen in 50 Städten fünf europäischer Länder zu Automotive und
alternativen Mobilitätsdienstleistungen befragt. Käufer der Studie können in
beiden Bereichen zahlreiche Filterfunktionen nutzen, um ihre Position im Markt
auf einen Blick zu erkennen. Zur Auswahl stehen Dienstleistung/Marke, Land,
Altersgruppe, NPS-Score, und Geschlecht. Im Bereich Automotive können
Durchschnittswerte mit den Ergebnissen einer Automarke verglichen werden, bei
Mobility können Kunden die Durchschnittswerte mit den Ergebnissen für eine
bestimmte Dienstleistung vergleichen. Die Studie wurde von Buljan &
Partners initiiert und gemeinsam mit Motorpress Iberica durchgeführt. PAWLIK
ist Partner der Studie. Dip 13
Ukraine. Schritt für Schritt in die EU
Gegen einen EU-Beitritt der Ukraine herrscht Skepsis. Alyona
Getmanchuk und Leonid Litra schlagen deshalb eine Integration in Etappen vor.
Das Interview führte Alexander Isele.
Von der Tagung des Europäischen Rates am 23. und 24. Juni in
Brüssel fordern Sie ein deutliches Signal von der EU: der Ukraine den
Kandidatenstatus zu gewähren. Warum ist das Ihrer Meinung nach jetzt so
wichtig? Gibt es nicht andere Dinge, die angesichts des andauernden Krieges
wichtiger sind, als über eine Mitgliedschaft zu debattieren, die vielleicht erst
in vielen Jahren vollendet sein wird?
Getmanchuk: Während die Ukrainer heute heldenhaft für das
Überleben ihres Staates kämpfen, sollten wir uns zeitgleich um die Zukunft der
Ukraine kümmern. Diese ist aus der Sicht ihrer Bürger eng mit einem zukünftigen
EU-Beitritt verbunden. Die Idee wird von 91 Prozent der ukrainischen
Bevölkerung unterstützt, darunter 82 Prozent aus dem Osten der Ukraine, wo
derzeit die schwersten Kämpfe stattfinden. Aber, um es deutlich auszudrücken,
wir sprechen nicht über die sofortige Mitgliedschaft der Ukraine in der EU,
sondern darüber, der Ukraine zunächst den Status eines EU-Beitrittskandidaten
zu verleihen.
Um Putins Krieg gegen die Ukraine zu beenden, brauchen wir
drei wichtige Maßnahmen. Erstens brauchen wir in großem Umfang
Waffenlieferungen, insbesondere schwere Waffen. Bis vor kurzem gab es von den
westlichen Ländern kein grünes Licht für schwere Waffen, und Zusagen wurden
leider nicht immer in die Tat umgesetzt. Zweitens brauchen wir groß angelegte
Sanktionen, die Putins Regime und seine Haupteinnahmequellen schmerzlich
treffen. Selbst nach mehr als drei Monaten Krieg gibt es immer noch kein
Embargo für russisches Öl und Gas. Und schließlich muss der Ukraine der Status
eines vollwertigen Beitrittskandidaten zur Europäischen Union gewährt werden,
nicht der eines potenziellen. Das ist etwas, was nur die EU der Ukraine bieten
kann – nicht die USA oder das Vereinigte Königreich. Dies wäre ein sehr
deutliches geostrategisches und sicherheitspolitisches Signal an Putin: Die Ukraine
wird niemals ein Teil Russlands werden, denn sie wird in Zukunft ein Teil der
Europäischen Union sein. Dies würde seinen Kampf und seine Strategie sinnlos
machen, denn jetzt hofft er immer noch, die Ukraine irgendwann in Russland
einzugliedern. Ein klares politisches Bekenntnis der Europäischen Union könnte
ihn – früher oder später – dazu zwingen, seine Politik neu zu kalkulieren und
seine Agenda zu überdenken.
Litra: Der Kandidatenstatus könnte eine Reformdynamik in der
Ukraine auslösen – vielleicht die stärkste in der Geschichte der Ukraine. Durch
den Kandidatenstatus wäre es für alle reformorientierten Kräfte, sowohl in der
Regierung, im Parlament als auch in der Zivilgesellschaft, viel einfacher,
Reformen voranzutreiben. Ohne den Kandidatenstatus, oder durch die Gewährung
eines sogenannten potenziellen Status, würde dies die Reformagenda untergraben
und Putin sicherlich ermutigen.
Getmanchuk: Nicht nur in der ukrainischen Gesellschaft gibt
es eine noch nie dagewesene Unterstützung für eine künftige EU-Mitgliedschaft.
Ein Kandidatenstatus wäre das bisher stärkste Signal europäischer Solidarität
und auch ein enormer moralischer Impuls für uns Ukrainerinnen und Ukrainer im
Kampf um unser Land. Wie wir in Kiew sagen, ist es besser, unter russischem
Raketenbeschuss zu stehen, als unter russischer Besatzung. Diese Idee wird aber
auch von den europäischen Gesellschaften stark unterstützt. In Deutschland
beispielsweise befürworten laut der letzten Eurobarometer-Umfrage 61 Prozent
der Bevölkerung eine EU-Mitgliedschaft der Ukraine, wenn Kiew so weit ist.
Viele Politiker in der EU sagen, dass es zwar möglich sei,
der Ukraine den Kandidatenstatus zu gewähren, dass es aber keine Chance auf
eine schnelle Mitgliedschaft gebe. Sind Sie dennoch optimistisch?
Getmanchuk: Wir sind nicht naiv. Ein Beitritt ist
langwierig. Wir sind uns darüber im Klaren, dass die Ukraine noch nicht für
eine Vollmitgliedschaft qualifiziert ist. Aber wir sind der Meinung, dass sie
es sehr wohl für den Kandidatenstatus ist – sowohl unter dem Gesichtspunkt der
Erfüllung der Kopenhagener Kriterien als auch in der praktischen Integration
der Ukraine in vielen Bereichen der EU.
Litra: Wir haben den Kandidatenstatus verdient, weil wir
mehr als die Hälfte des Assoziierungsabkommens zwischen der EU und der Ukraine
bereits umgesetzt haben. Es herrscht jedoch eine Menge Skepsis. Deshalb wollen
wir eine Vision vermitteln, die die Bestrebungen der Ukraine am Leben erhält,
aber gleichzeitig den in der EU vorherrschenden Ängsten Rechnung trägt. Wir
nehmen drei Befürchtungen wahr, und wir haben einen Vorschlag, wie man ihnen
begegnen kann. Der erste Einwand ist die Problematik mit den westlichen
Balkanländern. Es wird oft betont, dass die EU sich nicht auf einen weiteren
Erweiterungsprozess in Osteuropa einlassen kann, solange der ins Stocken
geratene Prozess auf dem Balkan nicht vorankommt. Der zweite Vorbehalt betrifft
die interne Reform der EU. Wir haben gehört, dass zunächst die Integration der
bestehenden EU-Mitgliedsstaaten vertieft werden muss, bevor mit einer
Erweiterung der Union begonnen werden kann. Der dritte Einwand ist die
Unwahrscheinlichkeit eines Schnellverfahrens einer Mitgliedschaft der Ukraine.
Lassen Sie uns mit dem westlichen Balkan beginnen.
Litra: Wir müssen das Balkan-Szenario vermeiden, die
„Vollmitgliedschaft oder gar nichts“-Situation. Es gibt Länder auf dem Balkan,
wie Nordmazedonien, die seit 2005 Kandidaten sind und nun 17 Jahre später kaum
näher an der Mitgliedschaft sind. Ein weiteres Beispiel ist die Türkei, die
1999 den Kandidatenstatus erhielt – übrigens zu einer Zeit, als dort die
Todesstrafe noch in Kraft war. Wir wollen diese Doppelmoral vermeiden. Deshalb
schlagen wir eine EU-Integration in Etappen vor.
Können Sie das näher erläutern?
Litra: Bislang war die EU-Mitgliedschaft ein geschlossener
Prozess. An einem Tag war man noch draußen, und am nächsten Tag dann volles
Mitglied. Wir schlagen deshalb eine schrittweise Integration vor. In einem
ersten Schritt begänne unsere Beitrittskandidatur im Juni mit einem vollen
Zugang zum EU-Binnenmarkt. Die wirtschaftliche Integration wird einige Jahre
dauern, wobei der Prozess teilweise bereits mit dem Assoziierungsabkommen
begonnen hat. Danach erhalten wir sukzessive Zugang zu den vier Freiheiten –
dem freien Warenverkehr, dem freien Personenverkehr, der
Dienstleistungsfreiheit und dem freien Kapitalverkehr. Das bedeutet, dass wir
zusammen mit allen aufstrebenden EU-Ländern etwas Ähnliches wie die Europäische
Wirtschaftsgemeinschaft schaffen müssen. Anstatt also jahrelang auf die
Vollmitgliedschaft zu warten, integrieren wir uns im Laufe der Zeit, indem wir
immer mehr Eigenschaften der EU übernehmen und die erforderlichen Standards
erfüllen. Am Ende dieses Prozesses sind wir dann ein Vollmitglied.
Diese Herangehensweise an die EU-Mitgliedschaft könnte auch
den ins Stocken geratenen Integrationsprozess auf dem Balkan wieder in Gang
bringen und das Thema auf konstruktive Weise angehen. Das ist eine Win-Win-Situation
für die EU, den Balkan – und auch für die Ukraine. Das bringt uns zu
Problemstellung Nummer zwei ...
... die Notwendigkeit, die EU zu reformieren.
Litra: Ja. Eine schrittweise Integration bis zur
Vollmitgliedschaft wird der EU genügend Zeit geben, sich mit den internen
Reformen zu befassen und gleichzeitig die praktische Integration der
Beitrittskandidaten nicht zu verzögern.
Welche Reaktionen haben Sie innerhalb der EU erhalten?
Getmanchuk: Wir haben viel Interesse an diesem Vorschlag
erhalten. Aber viele Entscheidungsträger, vor allem in Deutschland, brauchen
mehr Zeit für die Debatte. Aber das Problem ist, dass die Entscheidung über den
ersten Schritt – den Kandidatenstatus – jetzt getroffen werden muss, im Grunde
in den nächsten Wochen. Es geht nicht darum, die Mitgliedschaft im
Schnellverfahren zu erhalten, wie es manche in der EU befürchten. Es ist nur
so, wir wissen nicht, wie die Situation in einem halben oder einem Jahr
aussehen wird.
Was hat die EU zu verlieren? Die Ukraine wäre nur ein
Beitrittskandidat, das heißt, wenn das Land seine Hausaufgaben nicht macht,
wird nichts weiter passieren. Wenn sie jedoch ihre Verpflichtungen erfüllt und
sich der europäischen Gesetzgebung erfolgreich anpasst, kann sie Fortschritte
machen. Wir glauben an einen leistungsorientierten Beitrittsprozess.
Ich möchte betonen, dass der Kandidatenstatus nicht nur ein
politisches Symbol ist – auch wenn das für eine Nation, die einem so brutalen
militärischen Angriff ausgesetzt ist, natürlich äußerst wichtig ist. Beim
EU-Beitrittskandidatenstatus geht es auch um ganz praktische Fragen, wie die
Festigung der Reformagenda der Ukraine und den Wiederaufbau des Landes nach dem
Krieg. An dieser Stelle sei daran erinnert, dass die ausschlaggebendsten
Reformen im Bereich der Korruptionsbekämpfung und der Rechtsstaatlichkeit dank
des europäischen Integrationsprozesses der Ukraine durchgeführt wurden. So
wurden beispielsweise unsere unabhängigen Antikorruptionsinstitutionen im
Rahmen der Visaliberalisierung der Ukraine mit der EU eingerichtet.
Litra: Die EU wurde als ein Projekt des Friedens, der
gemeinsamen wirtschaftlichen Entwicklung und der Undenkbarkeit von Konflikten
geboren. Die Mitgliedschaft der Ukraine würden auch bedeuten, dass der
gegenwärtige Konflikt in Zukunft unmöglich sein wird. Wir haben ein
historisches Fenster, das sich sehr bald schließen könnte. Wir müssen jetzt
handeln. IPG 11
“Wir erleben, dass Getreide ein Kriegsmittel ist”
Vor dem Hintergrund des Ukrainekriegs sei Getreide zum
Kriegsmittel geworden, sagt Swantje Nilsson, Abteilungsleiterin im
Agrarministerium, im Interview mit EURACTIV Deutschland. Nun Rückschritte beim
Umwelt- und Klimaschutz zu machen, wäre laut Nilsson aber “fatal.” Von: Julia
Dahm
Weil die Ukraine, einer der wichtigsten globalen
Weizenlieferanten, ihr Getreide wegen der Blockade ihrer Schwarzmeerhäfen durch
Russland kaum exportieren kann, haben internationale Organisationen zuletzt
immer wieder vor Nahrungsmittelknappheit in besonders importabhängigen Teilen
der Welt gewarnt.
Die Frage der globalen Ernährungssicherung habe vor diesem
Hintergrund “eine geopolitische Komponente” bekommen, die sich unter anderem
darin zeige, dass das Thema nun immer wieder in hochrangigen Gesprächen
vorkomme, so Nilsson, die im Bundeslandwirtschaftsministerium die Abteilung für
EU-Angelegenheiten, internationale Zusammenarbeit und Fischerei leitet.
Erst am Mittwoch (8. Juni) rief beispielsweise
Kommissionschefin Ursula von der Leyen vor dem Plenum des EU-Parlaments in
Straßburg die Weltgemeinschaft dazu auf, in der Frage der weltweiten
Lebensmittelversorgung Solidarität zu zeigen und Handelsflüsse am Laufen zu
halten.
Derweil sprach Bundeskanzler Scholz in einem Telefonat mit
dem ukrainischen Präsidenten Wolodymyr Selenskyj über den Export des ukrainischen
Getreides und waren sich laut Regierungssprecher Steffen Hebestreit einig, dass
alles getan werden müsse, um die Ausfuhr übers Schwarze Meer zu ermöglichen.
Russland, nicht westliche Sanktionen, heizt Krise an
“Wir erleben, dass Getreide wirklich gerade ein Kriegsmittel
ist”, so Nilsson. Wichtig sei es deshalb, bei der Frage der globalen
Ernährungssicherung mit allen Akteuren, auch der Zivilgesellschaft, zusammenzuarbeiten.
Als besonders heikel hat sich zuletzt die Frage erwiesen,
wie die EU russische Propaganda in Bezug auf die Lebensmittelknappheit vor
allem in afrikanischen Staaten entgegentreten kann.
Obwohl Russland selbst die Häfen in der Ukraine blockiert
und Lebensmittelexporte von den Sanktionen gegen Russland ausgenommen sind,
behauptet der Kreml, die globale Ernährungskrise sei auf westliche Sanktionen
zurückzuführen.
“Der völkerrechtswidrige Angriffskrieg auf die Ukraine
verschärft den Hunger in der Welt, nicht die westlichen Sanktionen. Wir
unterstützen, um die Not zu lindern”, betonte Nilsson, die darauf hinwies, dass
Deutschland zweitgrößter Geber des Welternährungsprogramms sei und zusätzlich
430 Millionen Euro für die Welternährung bereitgestellt habe.
Während der Schwerpunkt nun also zunächst darauf liege,
humanitäre Hilfe bei der Nahrungsmittelversorgung zu leisten, könne dies aber
nur ein erster Schritt sein. Auch langfristig müsse weltweit das Recht auf
Nahrung gesichert werden, betonte die Beamtin.
Bisher stark importabhängige Weltregionen müssten in dem
Zuge dabei unterstützt werden, selbst eine nachhaltige und resiliente
Lebensmittelproduktion für die Eigenversorgung aufzubauen, erklärte sie.
Kein Rollback bei Umwelt- und Klimaschutz
Auch, was die Produktion innerhalb Europas angeht, drängte
Nilsson darauf, die Wende hin zu nachhaltigen Ernährungssystemen nun nicht
hintanzustellen.
Während die Solidarität mit der Ukraine “oberstes Gebot”
sei, dürfe man “beim Klimaschutz jetzt keinen Pausenknopf drücken, denn
Klimakrise und Artensterben pausieren auch nicht”, betonte die Beamtin, die
dazu aufrief, verschiedene Krisen nicht gegeneinander auszuspielen.
Den Ansatz der EU-Kommission, den Mitgliedstaaten mehr
Flexibilität beim Schutz von Brachflächen in der Landwirtschaft einzuräumen,
sowie die Vorstöße einiger Mitgliedstaaten, Umwelt- und Klimaauflagen innerhalb
der neuen Gemeinsamen Agrarpolitik im Namen der Produktionssteigerung zu
lockern, sieht man im Bundesagrarministerium mit Sorge.
“Es ist kein Geheimnis, dass wir uns bei der GAP-Reform
einen ambitionierten Neustart vorgestellt haben”, so Nilsson, die kurz nach
Amtsantritt des grünen Bundesagrarminsiters Cem Özdemir die Abteilungsleitung
übernommen hatte. “Von daher wäre ein Rollback beim Klima- und Artenschutz
wirklich fatal.”
Dazu gehört aus Sicht der Beamtin auch, dass die Kommission
nun rasch ihren Vorschlag für die Überarbeitung der EU-Pestizidverordnung
vorlegen müsse, den sie im März angesichts des Ukrainekriegs verschoben hatte.
Weniger Tiere besser füttern
Die Folgen des Ukrainekriegs seien für die internationalen
Getreidemärkte “ein Weckruf, zu schauen: Wie ist es denn wirklich sinnvoll,
dass wir unsere Ernährung gestalten”, so Nilsson.
So müssten einerseits Flächenkonkurrenzen zwischen Tank,
Teller und Trog, die zulasten der Lebensmittelerzeugung gingen, aufgelöst und
Lebensmittelverluste entlang der Wertschöpfungskette vermieden werden. “Wenn
wir weniger Tiere besser füttern, können mehr Menschen satt werden”, betonte
sie.
Die Lebensmittelverschwendung zu reduzieren, ist auch als
Ziel in der EU-Flaggschiffstrategie für den Ernährungsbereich, der
Farm-to-Fork-Strategie verankert.
Solche Schritte sind aus Sicht der Beamtin Ausdruck davon,
dass sich die europäische Agrarpolitik langsam in Richtung eines
ganzheitlicheren Ansatzes bewegt, der nicht nur die Produktion, sondern die
gesamte Wertschöpfungskette bis hin zum Verbraucher in den Blick nimmt.
„Bei der Transformation der landwirtschaftlichen Produktion
stehen wir alle gemeinsam in der Verantwortung”, schloss Nilsson. EA 10
Eklat im Parlament: Reform des EU-Emissionshandelssystems gekippt
Abgeordnete des linken und rechten Flügels des Europäischen
Parlaments haben am Mittwoch (8. Juni) gegen die vorgeschlagene Reform des
EU-Emissionshandelssystems (ETS) gestimmt. Von: Frédéric Simon
Parteien der extremen Rechten, die Grünen und die
Sozialdemokraten, bildeten am Mittwoch eine ungewöhnliche Allianz und lehnten
die vorgeschlagene Überarbeitung ab.
Der Vorschlag wurde mit einer klaren Mehrheit von 340
Gegenstimmen und 265 Ja-Stimmen bei 34 Enthaltungen abgewiesen.
Die Reform, die ursprünglich im Juli letzten Jahres vorgelegt
wurde, wird nun an den Umweltausschuss des Europäischen Parlaments
zurückverwiesen, der versuchen wird, einen neuen Kompromiss auszuarbeiten.
EU-Diplomaten erklärten jedoch, dass sich dadurch die
Verhandlungen mit den EU-Ländern zur Fertigstellung der Reform verzögern
könnten, da die Mitgliedsstaaten „wahrscheinlich abwarten müssen, bis das
Europäische Parlament seinen Streit beigelegt hat.“
„Die Sozialdemokrat:innen und die Grünen sind ihrer
Verantwortung für den Klimaschutz nicht gerecht geworden“, sagte der deutsche
Europaabgeordnete Peter Liese von der Europäischen Volkspartei (EVP), der
federführend an der vorgeschlagenen Reform mitgewirkt hat.
Laut Liese haben linke Parteien versucht, die Reform zu weit
zu treiben, indem sie eine 67-prozentige Senkung der Emissionen im Rahmen des
ETS forderten, während die EU-Kommission in ihrem Vorschlag vom letzten Jahr
ursprünglich 61 Prozent vorsah.
„Für die Grünen und die Sozialdemokrat:innen ging dies
einfach nicht weit genug. Sie wollten eine 67-prozentige Reduktion und eine
höhere einmalige Reduktion und das in einer Zeit, in der wir durch den
Ukrainekrieg und die Notwendigkeit, vom russischen Gas unabhängiger zu werden,
herausgefordert sind“, sagte Liese.
„Ich finde das wirklich unanständig und hoffe, dass wir den
Fehler korrigieren können.“
Die Grünen ihrerseits warfen Lieses EVP vor, dem Druck der
fossilen Energiewirtschaft nachzugeben und die Reform zu verwässern.
„Peter Liese ist mit seiner fossilen Allianz gescheitert“,
sagte Michael Bloss, ein deutscher Europaabgeordneter, der die Grünen bei der
ETS-Reform vertritt. „Konservative, Liberale und Rechte wurden in ihre
Schranken verwiesen“, fügte er in einer E-Mail hinzu.
„Für das 1,5-Grad-Klimaziel bedeutet dies eine große
Hoffnung“, erklärte Bloss und merkte an, dass „die Verhandlungen wieder von
vorne beginnen müssen.“
Martin Hojsík, ein slowakischer Abgeordneter der
zentristischen Fraktion Renew Europe, stellte sich auf Twitter auf die Seite
der Grünen und sagte, die EVP habe die Unterstützung der linken Parteien
verloren.
Der Vorsitzende des Umweltausschusses des Parlaments, Pascal
Canfin, unterstützte die Ansicht der EVP, dass der Krieg in der Ukraine die
Energiepreise in die Höhe getrieben habe, was den Druck auf die europäischen
Unternehmen und Verbraucher:innen erhöhe.
„Aber man kann zwei verschiedene Schlussfolgerungen ziehen:
Auf der einen Seite muss man davon absehen, den Unternehmen zusätzliche Lasten
aufzubürden, auf der anderen Seite müssen wir die grüne Wende vorantreiben.“
„Eigentlich ist beides richtig“, sagte er in einem Kommentar
unmittelbar nach der Abstimmung.
Der französische Abgeordnete der Mitte erklärte, er werde
„alles in meiner Macht Stehende tun“, um das Problem zu lösen und „den
bestmöglichen Kompromiss“ für die ETS-Reform auszuhandeln.
„Ich glaube, ich muss jetzt gehen, denn wir werden jetzt
sofort mit den Verhandlungen über diesen Kompromiss beginnen“, sagte er, bevor
er den Raum verließ.
Die ersten Anzeichen für einen neuen Kompromiss sind jedoch
nicht sehr positiv. „Wer es kaputt macht, muss es reparieren“, so ein
hochrangiger Vertreter der EVP. „Wir hoffen, dass die Sozialdemokrat:innen
einen Vorschlag präsentieren werden, um das Dossier unter Dach und Fach zu
bringen.“
Canfin hat dem Umweltausschuss jetzt eine knappe Zeitfrist
von 15 Tagen verschrieben, in denen ein Kompromiss gefunden werden soll. „Wir
geben uns 15 Tage Zeit, um eine Einigung zu erzielen und am 23. Juni über diese
wichtige Klimareform abzustimmen,“ sagte er auf Twitter.
Dies wird voraussichtlich in Form einer Mini-Plenarsitzung
geschehen. EA 9
Allen Kriegen zum Trotz. Feiern für ein transkulturelles Miteinander
Es gibt viele Anlässe zum Feiern. In Zeiten des Krieges
stellt sich aber die Frage, ob man feiern soll - sogar darf. Oder sollte man
gerade deswegen feiern? Von Natalie Drewitz
Menschen aus Syrien, diversen afrikanischen Ländern, aus
Afghanistan, aus der Ukraine und aus vielen anderen Ländern eint ein Schicksal:
die Flüchtlingsbewegung nach Mittel- und Westeuropa. Die Bundesrepublik
Deutschland stand und steht weiterhin vor der herausfordernden Aufgabe,
Geflüchteten Zuflucht zu geben und Perspektiven aufzuzeigen, sie mit Toleranz
und Unterstützung für eine aktive Teilhabe in der Gesellschaft zu integrieren.
Doch wie gelingt das? Bevor wir dieser Frage nachgehen, möchte ich einen
grundlegenden Gedanken in Worte fassen:
Eigenes Seelenheil
Mit Resignation, Verzicht und Vorwürfen für die eigene
Person werden wir nicht weiterkommen. Die Sommersaison steht unmittelbar bevor
und mit ihr die wohl beliebteste Zeit, Urlaub, Auszeit und Partys zu
zelebrieren. Die Eventplanerin Amelie Borges wurde vom RND interviewt und
beschreibt die aktuelle Gefühlslage und Zerrissenheit in Bezug auf
ausgelassener Freizeit folgendermaßen: „[…] Viele sprechen auch den Krieg in
der Ukraine an. Da ist dann auch manchmal die Rede davon, ein schlechtes
Gewissen zu haben“ An vielen (medialen) Stellen wird gedankengleich die Frage
thematisiert: „Dürfen wir es uns überhaupt gutgehen lassen in Anbetracht der
ukrainischen Lage?“ – Ja! Es geht für das eigene Seelenheil zu weit, wenn man
sich Vorwürfe macht ob der aktuellen eigenen (Urlaubs-)Lage gespiegelt an dem
Kriegsleid in der Ukraine. Man benötigt die eigene Auszeit, einen
Tapetenwechsel, um den Kopf freizukriegen. Demzufolge ist das aktive
Seelenmedizin. Indem man sich jedoch in seiner sicheren Lage Vorwürfe macht,
dass es einem selbst so gut geht, verwehrt man seiner Seele die wichtige und
vielleicht sogar äußerst unterschätzte Hängematte, die Auszeit, die mentale
Sendepause.
Erinnerung an die 1990er Jahre
Ich habe diesbezüglich einen Flashback in meine
Grundschulzeit, als der Krieg in Jugoslawien wütete. Man hatte beschlossen,
dass in diesem bestimmten Jahr die Faschingsfeierlichkeiten als Zeichen der
Anteilnahme für die Kriegsopfer in Jugoslawien ausfielen. Was bedeutete dies
für uns Kinder? Das war die mit Abstand größte Enttäuschung für alle – egal
welcher Herkunft –, die hätte eintreffen können. Meine Grundschule war eine
einfache, staatliche Schule in Berlin-Neukölln. Viele andere Kinder hatten
einen Migrationshintergrund in meiner Klasse, viele von ihnen waren nicht in
Deutschland geboren. Fasching also war DAS Fest, das nichts mit Religion zu tun
hatte, es war DAS Fest, das uns Kinder einte, denn alle hatten Spaß am Verkleiden
und Feiern. Es war einfach DAS Fest! Und es wurde jedes Jahr wirklich sehr
schön in der Grundschule gefeiert. An diesem Tag hatten wir keinen Unterricht,
jedoch Präsenzpflicht, aber das musste uns keiner zweimal sagen. Es gab
leckeres Essen aus aller Herrenländer – also Mitgebrachtes von jedem Kind –,
Musik, Spiele, Fotos, Begutachtungen eines jeden Kostüms. Selbst die Lehrkräfte
waren verkleidet und hatten ihren Spaß. Alle Kulturen kamen zusammen und es gab
Falafel von Ahmed und danach Zitronenkuchen von Daniela oder andersherum –
wieso nicht? Wir fieberten alle jedes Jahr auf diesen einen Tag im Februar hin.
Nun, also in diesem besagten Jahr nichts davon, Fasching sollte tatsächlich
ausfallen …
Kindermund tut Wahrheit kund
Meine beste Schulfreundin zu der Zeit war Jugoslawin und was
sie mir sagte, fand ich damals schon weise und es hatte mich nachdenklich
gemacht: „Weißt du, Natalie, meine Familie und ich sind hier und in Sicherheit.
Dieses Gefühl ist unbeschreiblich. Unseren Landsleuten in Jugoslawien geht es
zurzeit sehr schlecht und das macht uns alle sehr traurig. Aber, weißt du, wir
können den Krieg nicht stoppen, indem wir hier auf ein friedliches Fest
verzichten, und weißt du, was das Schlimmste an dieser Idee ist? Ich wurde
dadurch überhaupt erst wieder an alles Schlimme erinnert und es ist wieder so
präsent in unserer Familie. Ich habe mit anderen gesprochen, die fühlen
genauso. Sie sind trauriger als vorher. Mit einem Fest hier vor Ort würde man
vieles, sehr vieles für die Menschen und ihre Lebensfreude tun, die hier sind,
greifbar. Jetzt sind wir einfach alle überall traurig und denken nur an den
Krieg.“
Allen Kriegen zum Trotz
Als kleine Untermauerung sei hier an der Stelle gesagt, dass
zwar für das besagte Jahr die harte Kante tatsächlich durchgezogen wurde und es
damals keinen Fasching, dafür allerdings sehr viel Krieg, Leid und Zerstörung
in den Herzen und Gedanken aller Grundschulkinder gab, diese Idee aber in allen
darauffolgenden Jahren trotz Anhalten des Jugoslawienkrieges nicht mehr verfolgt
wurde, sodass seitdem vor Ort wieder an kleiner, konzentrierter (sicherer)
Stelle gefeiert wurde, allen Kriegen zum Trotz!
Eine resignierende Haltung gespickt mit Vorwürfen hat mich
so sehr an diese Episode aus der Grundschulzeit erinnert. Wir sollten nicht
zulassen, dass diese Richtung eingeschlagen wird, denn sie ist tatsächlich
sinnlos. Wenn es einem (mental) gut geht, ist man überhaupt erst in der Lage,
anderen zu helfen. Freude und Wohlsein sind die größte Quelle für Kreativität,
Positivität und Aktionismus – die Umkehrung ist eine negative Gedankenschleife,
die einen herunterziehen kann und sonst nichts bewirkt außer Trübsal. Hey,
womöglich fällt dem einen oder der anderen eine Option ein, wie man
Geflüchteten helfen kann, gerade während er oder sie es sich gutgehen lässt, um
(mentale) Kraft zu schöpfen. Im professionellen Umfeld kann die
„kultur-identische Bürgschaft“ durch eine begleitete, gestützte Integration ins
Aufnahmeland für den Einstieg in die berufliche Laufbahn eine Hilfestellung sein.
Aktualität
Von Natalie Drewitz „Die kultur-identische Bürgschaft –
interkulturelle Kompetenz für ein transkulturelles Miteinander: Resultate einer
empirischen Akkulturationsbeobachtung von unbegleiteten minderjährigen
Flüchtlingen“ erschienen im RAM-Verlag, Taschenbuch: 300 Seiten, ISBN-10:
3942303906.
Der Krieg in der Ukraine und die daraus folgende
Destabilisierung der Region führt(e) zu weiteren Migrationsbewegungen. Auch
andere Teile der Welt sind nach wie vor von Hunger und Konflikten betroffen,
die Menschen dazu zwingen, ihre Heimat zu verlassen und woanders neu anzufangen
– der bevorstehende Klimawandel wird ebenfalls seinen Beitrag dazu leisten.
Insgesamt wird die Welt weiterhin zusammenwachsen und Bevölkerungsgruppen
werden aus diversen Gründen zu Migrationsbewegungen gezwungen sein.
Aktion
Interkulturelle Kompetenz ist ausschlaggebend, um diese
gesellschaftlichen Umwälzungsprozesse in positive Bahnen zu lenken. Es bedarf
einer Minimierung von Fehlern und Hemmschwellen im Umgang mit anderen Kulturen,
eines Hinübergleitens von einer der „ethnozentrischen“ in die „ethnorelativen
Phasen“ (Bennett, 2014), um ein transkulturelles Miteinander zu etablieren –
und dies ist gar nicht so schwierig, wie man vielleicht annehmen würde … Welche
Umgebung eignet sich besser, als ein Fest oder der ausländische Urlaubsort, um
mit anderen Menschen unterschiedlicher Kulturen in Kontakt zu kommen? Dabei ist
sowohl die Tatsache interessant, dass kulturelle Unterschiede auffallen mögen,
als auch die Überraschung wundersam aufschlussreich, dass man sich ähnlicher
ist als zuvor angenommen. Worauf warten wir also? Lassen Sie uns miteinander
feiern, für ein transkulturelles Miteinander! MiG 9
Die fünf Prioritäten der kommenden tschechischen Ratspräsidentschaft
Ukraine, Energiesicherheit, Verteidigung und
Cybersicherheit, wirtschaftliche und demokratische Resilienz – so lauten die
fünf Themen, die ganz oben auf der politischen Agenda der kommenden
tschechischen Ratspräsidentschaft stehen, wie aus einem Entwurf eines internen
Dokuments hervorgeht, das EURACTIV vorliegt. Von: Luca Bertuzzi
Tschechien wird die rotierende EU-Ratspräsidentschaft vom 1.
Juli bis zum Ende des Jahres übernehmen. Während dieses sechsmonatigen
Zeitraums wird Prag die diplomatische Arbeit leiten, eine entscheidende Rolle
bei der Gestaltung der EU-Agenda.
Tschechien hat sich mit der scheidenden französischen und
der folgenden schwedischen Präsidentschaft auf ein Programm für eine
Dreierpräsidentschaft geeinigt. Die im Februar beginnende russische Aggression
gegen die Ukraine zwang Prag jedoch dazu, seine politischen Prioritäten
anzupassen.
„Das übergeordnete Ziel der tschechischen Präsidentschaft
ist es, so viel wie möglich zur Schaffung der Bedingungen für die Sicherheit
und den Wohlstand der EU im Kontext der europäischen Werte Freiheit, soziale
Gerechtigkeit, Demokratie und Rechtsstaatlichkeit sowie Umweltverantwortung
beizutragen“, heißt es in dem Entwurf des Dokuments, das am 15. Juni
veröffentlicht werden soll.
Krieg in der Ukraine
Es überrascht nicht, dass die Krise in der Ukraine ganz oben
auf der tschechischen politischen Agenda steht. Dazu gehört, Russland mit allen
EU-Instrumenten zu treffen, vor allem mit Wirtschaftssanktionen, und die
Ukraine politisch und militärisch zu unterstützen.
Prag ist entschlossen, mit der Europäischen Kommission
zusammenzuarbeiten, um EU-Mittel zugunsten der Mitgliedstaaten umzuverteilen,
die ihre Türen für Flüchtlinge geöffnet haben. Sie sollen dabei unterstützt
werden, die notwendigen Strukturen zur Bewältigung der humanitären Krise
einzurichten.
Darüber hinaus wird sich die tschechische Präsidentschaft
„dafür einsetzen, dass ein Konsens über die Gewährung des Kandidatenstatus für
die Ukraine erzielt wird“, heißt es in dem Entwurf weiter.
Nach dem Ende des Konfliktes wird die entscheidende Aufgabe
der Wiederaufbau der Ukraine sein.
EU-Länder, die in den letzten Monaten viele ukrainische
Flüchtlinge aufgenommen haben, warnen, dass der derzeitige Finanzierungsansatz
der EU, der vorsieht, die Regeln für die Ausgaben der Strukturfonds zu lockern,
auf Dauer nicht ausreiche.
Energiesicherheit
„Die EU darf nicht von Ländern abhängig sein, die ihre Sicherheit
direkt bedrohen, und muss daher ihre Abhängigkeit von russischem Gas, Öl und
Kohle beenden. Die tschechische Präsidentschaft wird den Schwerpunkt auf die
Fragen der Energiesicherheit in der EU legen, die derzeit dringender sind als
die Energiewende“, heißt es in dem Text.
Die Beschleunigung der Umsetzung des REPowerEU-Programms
wird als ein Weg zur Diversifizierung der Energiequellen gesehen, indem Fragen
im Zusammenhang mit der Logistik, Energieeinsparungen sowie emissionsarmen und
erneuerbaren Energiequellen behandelt werden.
Darüber hinaus hat die tschechische Präsidentschaft ihre
Bereitschaft bekundet, an der Umsetzung der Regulierung der Gasreserven zu
arbeiten, um beispielsweise die Gasspeicher vor dem Winter aufzufüllen und
freiwillige gemeinsame Beschaffungen zu fördern. Dadurch soll das
Verhandlungsgewicht der EU gestärkt werden, wie es bei den Corona-Impfstoffen
der Fall war.
„Gleichzeitig wird die tschechische Ratspräsidentschaft an
der Umsetzung eines angemessenen Instrumentenmixes arbeiten, um die negativen
sozialen und wirtschaftlichen Auswirkungen der hohen Energiepreise zu
verringern“, heißt es in dem Dokument.
Verteidigung und (Cyber-)Sicherheit
Prag setzt sich dafür ein, die europäischen Verteidigungs-
und Sicherheitsfähigkeiten zu verbessern, mit außereuropäischen Partnern im
Rahmen der NATO zusammenzuarbeiten und die Umsetzung des Strategischen
Kompasses, der Militärstrategie der EU für 2030, zu unterstützen.
In diesem Zusammenhang wird sie an der raschen Entwicklung
der sogenannten Hybrid Toolbox arbeiten, einer Reihe von freiwilligen
Instrumenten zur Bekämpfung hybrider Bedrohungen wie Desinformation,
ausländische Einmischung und Störungen im Cyberraum.
„Die tschechische Ratspräsidentschaft wird ihr Augenmerk auf
die Zusammenarbeit und Investitionen zur Verringerung der technologischen
Abhängigkeit richten, insbesondere im Hinblick auf neue und disruptive
Technologien, sowie auf die Gewährleistung der Widerstandsfähigkeit der für
diese Technologien erforderlichen kritischen Wertschöpfungsketten“, heißt es in
dem Entwurf.
Ein weiteres Augenmerk wird auf den Umgang mit
Cyber-Bedrohungen gelegt, insbesondere im Hinblick auf die Cybersicherheit der
EU-Institutionen. Ein weiterer wesentlicher Punkt ist der geopolitische Kontext
rund um den Weltraum und neue Technologien, mit dem Vorschlag für ein
weltraumgestütztes Kommunikationssystem der EU.
Die tschechische EU-Ratspräsidentschaft will den Schwerpunkt
auf hybride Bedrohungen legen, indem sie die Diskussionen über Desinformation
und Einmischung vorantreiben möchte, so der stellvertretende
Verteidigungsminister.
Wirtschaftliche Resilienz
„Die russische Invasion hat die größte Störung der
Rohstoffmärkte in den letzten fünfzig Jahren verursacht. Die EU muss ihre
Abhängigkeit von feindlichen oder instabilen Regimen drastisch reduzieren“,
heißt es in dem Papier.
Für die tschechische Regierung besteht das Rezept zur
Stärkung der wirtschaftlichen Resilienz in der gezielten Unterstützung der
Wettbewerbsfähigkeit bei strategischen Technologien zur Förderung der
inländischen Kapazitäten und in engeren Handelsbeziehungen mit demokratischen
Ländern wie Neuseeland, Australien und Chile.
Diese Maßnahmen stehen im Einklang mit dem Chips Act, einem
Vorschlag zur Förderung der Halbleiterproduktion in der EU. Halbleiter werden
ausdrücklich als kritische Güter genannt, zusammen mit Lebensmitteln,
Medikamenten und Rohstoffen.
In diesem Zusammenhang verpflichten sich die Tschechen auch
zur Stärkung der transatlantischen Zusammenarbeit bei der Widerstandsfähigkeit
der Lieferketten im Rahmen des EU-US-Handels- und Technologierates.
Zu den weiteren wirtschaftlichen Prioritäten gehört die
Stärkung des Binnenmarktes, wobei insbesondere die Bedeutung der europäischen
digitalen Identitäten und eines fairen Datenmarktes hervorgehoben wird, was das
Ziel des Data Act darstellt.
Die EU-Kommission soll ein „Chips-Paket“ vorlegen, um
Kapazitäten auszubauen, Regeln für staatliche Beihilfen zu lockern, Forschung
zu finanzieren und internationale Partnerschaften zu schaffen.
Demokratische Werte
Im Hinblick auf die Aufrechterhaltung und Weiterentwicklung
der demokratischen Werte und der Rechtsstaatlichkeit in der EU wird sich die
tschechische Ratspräsidentschaft auf die transparente Finanzierung der
politischen Parteien, die Unabhängigkeit der Massenmedien und den offenen
Dialog mit den Bürgern konzentrieren und sich dabei insbesondere auf die
Konferenz zur Zukunft Europas beziehen.
„Die Präsidentschaft wird sich dafür einsetzen, dass die
Grundrechte und -freiheiten im digitalen Umfeld geachtet werden, und auf
globale Standards drängen, die auf dem so genannten menschenzentrierten Ansatz
aufbauen“, heißt es in dem Entwurf weiter.
In dem Dokument wird hervorgehoben, dass die EU bei neuen
Technologien wie der künstlichen Intelligenz einen Vorsprung hat und die
Gelegenheit nutzen sollte, globale Standards zu schaffen.
Außerdem wird die Notwendigkeit betont, Transparenzmaßnahmen
festzulegen und den Missbrauch von Kryptowährungen zu verhindern.
Die Europäische Kommission meint, ihr vorgeschlagenes Gesetz
über künstliche Intelligenz sollte zum weltweiten Standard werden, wenn es
seine volle Wirkung entfalten soll. Der bevorstehende KI-Vertrag, der vom
Europarat ausgearbeitet wird, könnte der EU helfen, genau das zu erreichen. EA
8
Bleiberechtsreform. Faeser: Erstes Migrationspaket kommt vor Sommerpause ins Kabinett
Neues Bleiberecht für gut Integrierte, Verbesserungen bei der
Fachkräfteeinwanderung und ein schärferer Kurs bei Abschiebungen. Über die im
Koalitionsvertrag angekündigte Reform des Bleiberechts soll noch vor der
Sommerpause beraten werden.
Bundesinnenministerin Nancy Faeser (SPD) plant für gut
integrierte Geduldete ein „Chancen-Aufenthaltsrecht“. Sie kündigte am Dienstag
in Berlin an, dass sie ein erstes Migrationspaket, zu dem diese Reform gehört,
noch vor der Sommerpause ins Bundeskabinett bringen wolle. Nach der Sommerpause
könnte das Gesetzespaket somit im Bundestag beraten werden.
Das neue Bleiberecht ist für Migranten vorgesehen, die zwar
nur geduldet sind, aber seit fünf Jahren oder länger gut integriert in
Deutschland leben. Ferner soll eine erste Verbesserung bei der
Fachkräfteeinwanderung vom Kabinett auf den parlamentarischen Weg gebracht
werden.
Das Nachrichtenmagazin „Der Spiegel“ hatte zuerst über das
Regelwerk berichtet und geschrieben, dass davon mehr als 100.000 Menschen
profitieren könnten, die als Geduldete ohne sicheren Rechtsstatus sind. Demnach
sollen die Betroffenen einmalig auf Probe eine einjährige Aufenthaltserlaubnis
bekommen. Das Blatt schreibt unter Berufung auf den Gesetzentwurf, wenn sie in
dieser Zeit nachwiesen, dass sie etwa die deutsche Sprache beherrschten und
ihren Lebensunterhalt sichern könnten, bekämen sie ein langfristiges
Bleiberecht.
Schärferer Kurs bei Abschiebungen
Straftäter sollten von dieser Möglichkeit ausgeschlossen
bleiben, ebenso wie Männer und Frauen, die falsche Angaben über ihre Identität
gemacht und so bisher ihre Abschiebung verhindert hätten. SPD, Grüne und FDP
haben im Koalitionsvertrag eine Reform des Bleiberechts vereinbart, um für
langjährig Geduldete eine Perspektive zu schaffen.
Laut Nachrichtenmagazin plant Faeser außerdem einen
schärferen Kurs bei Abschiebungen von abgelehnten Asylbewerbern, die sich nicht
gesetzestreu verhalten. „Insbesondere die Ausreise von Straftätern und
Gefährdern muss konsequenter vollzogen werden“, zitiert das Blatt aus dem
Gesetzentwurf. Dafür sollten unter anderem die Regeln zur Abschiebungshaft
verschärft werden. (epd/mig 8)
„750.000 Menschen drohen zu verhungern“
Die UNO-Landwirtschaftsbehörde FAO und das
Welternährungsprogramm WFP schlagen Alarm: 750.000 Menschen weltweit droht der
Hungertod, darunter allein 400.000 Menschen in der äthiopischen Provinz Tigray.
Die Gründe für die akute Lebensmittelkrise sind vielfältig:
Sie haben mit dem Klimawandel, den Folgen der Corona-Pandemie, der
Überschuldung armer Staaten und mit Konflikten – darunter dem Ukraine-Krieg –
zu tun. Besonders kritisch ist die Lage in Äthiopien, Nigeria, Südsudan und dem
Jemen, aber die beiden UNO-Behörden machen deutlich, dass sich die Liste noch
beliebig verlängern ließe, etwa um Afghanistan, Somalia oder den Kongo.
Ein perfekter Sturm
„Hunger Hotspots“ heißt der Bericht, den FAO und WFP jetzt
gemeinsam veröffentlicht haben. Er malt das Bild einer „neuen Normalität“ in
vielen Ländern, die von Trockenheit, Überschwemmungen und Wirbelstürmen
gezeichnet ist. So würden Ernten vernichtet und Menschen in den Hunger
getrieben.
„Wir sind tief besorgt über die Wirkung, die die Kombination
mehrerer Krisen hat“, so FAO-Generaldirektor Qu Dongyu, ein Chinese. Er spricht
von einem „Rennen gegen die Zeit, um den Landwirten in den am meisten
betroffenen Ländern zu helfen“. WFP-Chef David Beasley, ein Amerikaner,
fürchtet einen „perfekten Sturm“. Es gebe ja Lösungen, aber man müsse schnell
handeln.
(sir 7)
Faeser: Rechtsextremismus bleibt größte Bedrohung für die
Demokratie
Der Verfassungsschutz schätzt den Rechtsextremismus
weiterhin als größte Bedrohung ein. Corona-Pandemie und Ukraine-Krieg leisten
zudem einer neuen Art von Staatsfeindlichkeit Vorschub. Über soziale Medien
werden vermehrt Jugendliche radikalisiert.
Der Rechtsextremismus bleibt laut Verfassungsschutzbericht
die größte extremistische Bedrohung für die Demokratie in Deutschland.
Bundesinnenministerin Nancy Faeser (SPD) sagte am Dienstag in Berlin bei der
Vorstellung des Berichts für das Jahr 2021, zwar sei die Gesamtzahl
rechtsextremistischer Straf- und Gewalttaten um knapp 9,6 Prozent
zurückgegangen – von 22.357 im Jahr 2020 auf 20.201 im vergangenen Jahr. „Das
sind aber immer noch sehr, sehr viele.“ Der Präsident des Bundesamts für
Verfassungsschutz, Thomas Haldenwang, wies auf das Problem
„selbstradikalisierter und einzeln agierender Täter“ hin, die immer jünger
würden. „Dass sich Minderjährige gewaltaffin äußern und Pläne für Gewalttaten
schmieden, ist keine Seltenheit mehr“, sagte er.
Der Verfassungsschutz ordnet für das vergangene Jahr 33.900
Personen dem Phänomenbereich Rechtsextremismus zu. Als gewaltbereit wurden
13.500 eingeschätzt. Ziel von Rechtsextremisten sei die „Anschlussfähigkeit an
bürgerlich-demokratische Kreise“, hieß es. Dazu instrumentalisierten sie etwa
Proteste gegen Corona-Maßnahmen oder die Flutkatastrophe im Sommer des
vergangenen Jahres in Nordrhein-Westfalen oder Rheinland-Pfalz.
Faeser: „Rechtsextremisten missbrauchen jede Krise“
„Und sie versuchen es jetzt wieder“, sagte Faeser und nannte
dabei Aktivitäten zum russischen Angriff auf die Ukraine oder zu den stark
steigenden Energiepreisen. Angesichts der Bedrohung des Friedens in Europa
müsse der inneren Frieden in Deutschland gestärkt werden, fügte die Ministerin
hinzu. „Denn wir wissen, Rechtsextremisten missbrauchen jede Krise für ihren
Versuch, Menschen gegeneinander auszuspielen und die Gesellschaft zu
destabilisieren.“
Haldenwang sagte, das Bedrohungspotenzial durch eine
wachsende Online-Vernetzung und Radikalisierung der rechtsextremistischen Szene
habe sich zudem verstetigt. So gebe es etwa eine „Amoktäter-Fanszene“, die
Nachahmer suche. So würden im Netz Fälle diskutiert, die sich in den
vergangenen Jahren ereignet hätten. Dabei werde darüber nachgegrübelt, wie
diese Taten getoppt werden könnten. Es gebe auch eine „Siege“-Szene, die den
englischen Begriff für Belagerung nutze und mit rassistischen und
antisemitischen Ideologien einen führerlosen Widerstand zum Sturz des Systems
propagiere. Dabei werde zu Anschlägen gegen Minderheiten und politische
Repräsentanten aufgerufen.
In dem 366-Seiten umfassenden Verfassungsschutzbericht heißt
es über die Täter von Halle und Hanau: Über sie lägen „diverse Bezüge zu
Verschwörungstheorien und Onlinesubkulturen vor, die nicht zwangsläufig dem
Rechtsextremismus zugeordnet werden.“ Es werde daher eine enorme
Herausforderung bleiben, solche potenziellen Täter im Vorfeld eines geplanten
Anschlags zu identifizieren. Der „Nationalsozialistische Untergrund (NSU)“
findet im Verfassungsschutzbericht keine Erwähnung.
Neue „Szene“
Faeser und Haldenwang wiesen zudem auf eine in den
vergangenen Jahren neu entstandene „Szene“ hin, die das Ziel habe, den Staat zu
delegitimieren. Diese Personen machten demokratische Entscheidungsprozesse und
Institutionen verächtlich und riefen auf zum Ignorieren behördlicher oder
gerichtlicher Anordnungen. Dadurch könne das Vertrauen in den Staat erschüttert
und dessen Funktionsfähigkeit beeinträchtigt werden. Haldenwang sagte, auch
hier müsse insbesondere der virtuelle Raum in den Blick genommen werden. Faeser
betonte, dass oftmals eine Zuordnung dieser Gruppe zum Bereich
Rechtsextremismus, Linksextremismus oder zu „Reichsbürgern“ und
„Selbstverwaltern“ schwierig sei. Im Bericht wird das Phänomen daher unter dem
Titel „verfassungsschutzrelevante Delegitimierung des Staates“ beschrieben.
Beim Linksextremismus geht der Verfassungsschutz von 34.700
Personen aus, wobei mehr als jeder vierte als gewaltorientiert eingeschätzt
wurde. Haldenwang sagte, seit Beginn des Krieges in der Ukraine hätten die
Gewaltorientierten auch Rüstungsunternehmen und die Bundeswehr im Fokus. Im
Hinblick auf den G7-Gipfel der sieben größten demokratischen Industriestaaten
im bayerischen Elmau in drei Wochen müsse ebenfalls mit bundesweiten Straftaten
gerechnet werden. (epd/mig 8)
Polens Vize-Premier Kaczy?ski scheidet wohl aus Regierung aus
Der einflussreiche Spitzenpolitiker der Regierungspartei
Recht und Gerechtigkeit (PiS), Jaros?aw Kaczy?ski, wird seinen Posten als
Vize-Ministerpräsident aufgeben, wie Regierungssprecher Micha? Dworczyk
mitteilte. Von: Aleksandra Krzysztoszek
Jaros?aw Kaczy?ski, der zwischen 2006 und 2007 als
Premierminister war übernahm 2020 das Amt des stellvertretenden
Premierministers im Kabinett von Mateusz Morawiecki. Ihm wurde eine Rolle als
Diplomat zwischen Premier Morawiecki und Justizminister Zbigniew Ziobro
nachgesagt.
Die Medien hatten Kaczy?skis Rückzug aus der Regierung zuvor
zumindest angedacht, Gerüchte häuften sich seit längerem.
„Es sieht so aus, als würde dieser Moment kommen“, sagte
Dworczyk gegenüber Radio Zet und fügte hinzu, dass die offizielle Ankündigung
wahrscheinlich in ein paar Tagen erfolgen würde.
Angeblich will sich Kaczy?ski auf die Arbeit für die
PiS-Partei konzentrieren.
Als Leiter des Regierungskomitees für nationale Sicherheit
und Verteidigung habe Kaczy?ski „in den letzten Monaten eine wichtige Rolle
gespielt“, sagte Dworczyk und bezog sich dabei auf die Migrationskrise an der
Grenze zu Belarus im vergangenen Jahr und den Krieg in der Ukraine. Er
bedauerte, dass der Rücktritt Kaczy?skis „eine Lücke in diesen Bereichen“ zur
Folge haben werde.
Letzte Woche hatte der ukrainische Präsident Wolodymyr
Selenskyj Kaczy?ski und Morawiecki mit dem Orden des Fürsten Jaroslaw des
Weisen für die diplomatische Führungsrolle Polens als Reaktion auf den
Einmarsch Russlands in die Ukraine und für die Aufnahme von fast vier Millionen
ukrainischen Flüchtlingen ausgezeichnet.
Im März besuchte Kaczy?ski Kyjiw gemeinsam mit Morawiecki,
dem tschechischen Premierminister Petr Fiala und dem damaligen slowenischen
Premierminister Janez Janša. Damals schlug Kaczy?ski der NATO vor, eine
„Friedensmission“ in der Ukraine zu starten, was jedoch von Selenskyj abgelehnt
und von der polnischen Opposition kritisiert wurde.
Am Montag begannen Kaczy?ski und Morawiecki eine Tournee
durch Polen, um die polnische Bevölkerung inmitten einer galoppierenden
Inflation und rekordhoher Benzinpreise davon zu überzeugen, dass nur die PiS
eine stabile Zukunft für sie gewährleisten kann.
„Keine vorherige Regierung hat so viel für Polen getan wie
wir“, sagte Kaczy?ski am Samstag auf dem Parteitag in der Warschauer Vorstadt
Marki. EA 7
Marken-Botschafter werben für Italien. ENIT mit internationaler Kampagne
Frankfurt am Main – Mit erfolgreichen italienischen
Persönlichkeiten wirbt das italienische Tourismusministerium zusammen mit ENIT,
der italienischen Zentrale für Tourismus, für das Belpaese. Unter den
Marken-Botschaftern sind Schwimmerin und Olympiasiegerin Federica Pellegrini,
Sternekoch Massimo Bottura oder auch Modeunternehmer Renzo Rosso.
Internationale Plakat- und PR-Aktionen sollen auf die zahlreichen Vorzüge des
Urlaubslandes aufmerksam machen und den Restart des Tourismus ankurbeln.
Zudem nutzte ENIT Events von internationaler Größe wie den
Eurovision Song Contest oder das Radrennen Giro d’Italia als Promotionbühne für
die Destination Italien. Daran knüpft auch das Projekt „Scopri l’Italia che non
sapevi“ (zu dt.: Entdecke Italien wie du es noch nicht kennst) an. Dabei
verfolgen die Regionen des Landes eine gemeinsame Strategie und vermarkten vor
allem kleine Dörfer, Slow Tourism wie Weinreisen oder Aktivtourismus wie
Wandern und Radfahren.
ENIT - CEO Roberta Garibaldi hob die Bedeutung der Kampagne
für Italien hervor: „Diese Maßnahmen zielen darauf ab, die Sichtbarkeit und
Positionierung italienischer Reiseziele in einem globalen Szenario zu stärken.“
Die Kampagne unterstütze zudem italienische Start-up-Unternehmen im Tourismus
sowie in Zusammenarbeit mit Coni, dem italienischen Olympiaverband, ukrainische
Sportler, die in Italien trainieren können.
Bewegte Bilder auf Monitoren sowie Plakate der Kampagne sind
zwischen dem 13. Juni und 31. Juli am Frankfurter Flughafen zu sehen.
Marken-Botschafter ist dabei der italienische Balletttänzer Roberto Bolle mit
dem Claim „Italian gesture“.
Über die Italienische Zentrale für Tourismus
Die Italienische Zentrale für Tourismus (ENIT) mit Hauptsitz
in Rom ist für die touristische Bewerbung der Reisedestination im Ausland
zuständig. Insgesamt verfügt ENIT über ein internationales Netzwerk von 26
Büros, eines davon in Frankfurt und eines in München. Von hier aus wird das
Destinationsmarketing Italiens für den deutschen Markt koordiniert.
Weitere Informationen zu ENIT sowie zu Italien als
Urlaubsziel unter www.enit.de und www.italia.it.
Zur akustischen Reise nach Italien lädt das neue Visit Italy
Web Radio von ENIT ein. Neben Reportagen, Kolumnen, Interviews und
Branchen-Talk gibt es hier vor allem jede Menge italienische Musik. Zu hören
ist das Webradio unter anderem über App, auf der Tourismuswebsite. Enit 9