DE.IT.PRESS
Notiziario Religioso della comunità italiana in Germania - redazione: T. Bassanelli
- Webmaster: A. Caponegro IMPRESSUM
Notiziario religioso 16-31 gennaio 2023
Papa Francesco: "Saper farsi da parte costa, ma è molto
importante"
All'Angelus Papa Francesco annuncia per il 30 settembre una veglia
ecumenica di preghiera per la XVI Assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi -
Di Marco Mancini
CITTÀ DEL VATICANO. Introducendo l’Angelus domenicale, stamane Papa
Francesco ha messo in luce “lo spirito di servizio” di Giovanni Battista che
“compiuta la sua missione, sa farsi da parte, si ritira dalla scena per fare
posto a Gesù e ora si mette a sua volta in umile ascolto. Da profeta diviene
discepolo”.
Giovanni – ha spiegato il Pontefice – “non lega nessuno a sé. E questo è
difficile ma è il segno del vero educatore: non legare le persone a sé.
Giovanni fa così: mette i suoi discepoli sulle orme di Gesù. Non è interessato
ad avere un seguito per sé, a ottenere prestigio e successo, ma dà testimonianza
e poi fa un passo indietro, perché molti abbiano la gioia di incontrare Gesù.
Apre la porta e se ne va… Con questo suo spirito di servizio, con la sua
capacità di fare posto, Giovanni il Battista ci insegna una cosa importante: la
libertà dagli attaccamenti. Il servizio comporta la gratuità, il prendersi cura
degli altri senza vantaggi per sé, senza secondi fini”.
Papa Francesco suggerisce di “coltivare la virtù di farci da parte al
momento opportuno, testimoniando che il punto di riferimento della vita è Gesù.
Imparare a congedarsi. Liberarsi dagli attaccamenti del proprio io e saper
farsi da parte costa, ma è molto importante: è il passo decisivo per crescere
nello spirito di servizio”.
Dopo aver recitato l’Angelus il Papa ha ricordato la Settimana di preghiera
per l’unità dei cristiani dal 18 al 25 gennaio. “Ringraziamo il Signore che
guida il suo popolo verso la piena comunione. Il cammino ecumenico è legato a
quello sinodale della Chiesa. Il 30 settembre si terrà una veglia ecumenica di
preghiera per la XVI Assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi”.
“Non dimentichiamo – ha concluso Francesco - il martoriato popolo ucraino
che soffre tanto, restiamo vicini a loro con la nostra preghiera e il nostro
aiuto”.
Aci 15
Giordania: Vescovi Hlc ad Amman per incontrare i cristiani locali
Al via oggi ad Amman, in Giordania, l’incontro del
Coordinamento delle Conferenze episcopali a sostegno della Chiesa della Terra
Santa (Holy Land Coordination, Hlc). Tema di quest’anno: “il ruolo e
l’importanza della comunità cristiana in Giordania”. Saranno presenti vescovi
delegati delle Conferenze episcopali di Italia, Germania, Islanda, Inghilterra,
Irlanda, Francia, Stati Uniti, Scozia, Canada, Spagna, Slovacchia. Il Sir ha
incontrato il vescovo di Rimini, mons. Nicolò Anselmi, rappresentante italiano
all'Hlc - dall'inviato Daniele Rocchi
(Da Amman) Prende il via oggi (fino al 19 gennaio) ad
Amman, in Giordania, l’incontro del Coordinamento delle Conferenze episcopali a
sostegno della Chiesa della Terra Santa (Holy Land Coordination, Hlc). Tema di
quest’anno: “il ruolo e l’importanza della comunità cristiana in Giordania”.
Saranno presenti vescovi delegati delle Conferenze episcopali di Italia,
Germania, Islanda, Inghilterra, Irlanda, Francia, Stati Uniti, Scozia, Canada,
Spagna, Slovacchia, insieme a rappresentanti del Ccee, dell’Ordine del Santo
Sepolcro, della Chiesa anglicana e di diversi enti e organismi ecclesiali
internazionali. Moderatore dell’incontro sarà mons. Nicholas Hudson, vescovo
ausiliare di Westminster della Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles
alla quale la Santa Sede ha da tempo affidato l’organizzazione di questo
appuntamento che per tradizione si tiene in gennaio.
La presenza italiana all’Hlc. A rappresentare la
Conferenza episcopale italiana (Cei) è stato chiamato, per la prima volta,
mons. Nicolò Anselmi, dal 17 novembre 2022 vescovo di Rimini e reduce da un
pellegrinaggio in Terra Santa.
“Tutta la Terra Santa – commenta al Sir – è
particolarmente amata dai fedeli di tutto il mondo e per questo deve essere
sempre posta all’attenzione delle Chiese così come i cristiani che la abitano
la cui presenza deve essere custodita e incentivata”.
“Per questo in Giordania cercheremo di comprendere il
ruolo e l’importanza della presenza cristiana che vive e assorbe tutte le
tensioni palpabili della regione mediorientale. I temi della pace e della
convivenza sono parte dell’insegnamento di Gesù. In Giordania conosceremo anche
l’impegno che il Regno Hashemita sta mettendo nell’accoglienza di tanti
migranti e rifugiati in fuga dai conflitti dell’area”. A tale proposito lo
scorso 10 novembre Papa Francesco ha ricevuto in udienza privata Re Abdullah II
Ibn Al Hussein di Giordania. Nel colloquio, come hanno riportato le fonti
vaticane, si è parlato dell’importanza della stabilità e della pace in Medio
Oriente, con particolare riferimento alla questione palestinese e al tema dei
rifugiati. Il Papa ha ribadito la necessità di custodire la presenza cristiana
nella regione e ha ringraziato il Re per il ruolo di protettore dei luoghi
santi e per l’accoglienza offerta dalla Giordania ai migranti dell’aera.
Programma dei lavori. I lavori si apriranno in serata con
un primo briefing di presentazione e vedranno, nella giornata di domani, i
vescovi fare visita e celebrare la Messa nelle parrocchie di Amman, Irbid,
Ajloun, Jubehia, Fuheis e Sweifieh. Il programma prevede, inoltre, incontri con
i leader della Chiesa cattolica giordana, con Caritas Jordan per parlare di
rifugiati cristiani iracheni e siriani, presenti in gran numero nel Paese, con
i giovani della Jec (pastorale giovanile della Chiesa latina), con i
rappresentanti delle missioni diplomatiche in Giordania e con parlamentari di
fede cristiana. Non mancheranno le visite al sito del Battesimo, al monte Nebo
e al Centro di accoglienza e recupero disabili di Nostra Signora della pace. A
chiusura di lavori verrà diffusa una dichiarazione finale.
Le quattro ‘P’. Il Coordinamento di Terra Santa
(Hlc), attivo dal 1998 e composto da vescovi di tutta Europa, Nord America e
Sud Africa, è stato istituito su invito della Santa Sede con lo scopo di
visitare e sostenere le comunità cristiane locali della Terra Santa. Il compito
principale del Coordinamento risiede nelle cosiddette quattro ‘P’: “Preghiera,
pellegrinaggio, pressione e presenza”. “La preghiera – spiega al Sir padre Mark
Madden, segretario dell’Hlc – è la cornice di ogni incontro annuale, con la
celebrazione quotidiana della Messa, spesso in diversi riti”. Il pellegrinaggio
è uno degli aspetti più interessanti dell’iniziativa: “I vescovi in visita,
consapevoli dell’importanza dei pellegrinaggi per i cristiani locali, hanno
sempre fatto sforzi per incentivare l’arrivo in Terra Santa di pellegrini dei
loro paesi e diocesi d’origine. Pressione o persuasione, si riferisce al lavoro
da svolgere dopo l’incontro annuale, quando, una volta tornati a casa, i
vescovi sono chiamati a riferire alle proprie Conferenze episcopali, ai
rispettivi governi, parlamentari, diplomatici e media su una vasta gamma di
questioni che riguardano la vita dei cristiani”.
“In linea con l’approccio che la Santa Sede adotta
ovunque, i vescovi – precisa padre Madden – non cercano privilegi per i
cristiani, ma dignità e giustizia per loro e per altri in simili conflitti”.
Infine la quarta ‘P’, presenza: “I vescovi con la loro
presenza sperano soprattutto di ricordare alle ‘pietre vive’ delle comunità
cristiane di Terra Santa che non sono dimenticate dai loro fratelli e sorelle
in altre parti del mondo. Sebbene i vescovi del Coordinamento non visitino la
Terra Santa per motivi politici, la loro visita li mette spesso di fronte a
problemi politici e sociali complessi. Per questo diffondono, al termine dei
lavori, un comunicato finale nel quale esprimono il loro punto di vista su
quanto visto e udito, senza tuttavia allontanarsi dalla motivazione
essenzialmente pastorale della loro presenza”. Sir 14
A pochi giorni dalla sua scomparsa cerchiamo di dare
qualche coordinata per comprendere Joseph Ratzinger, il suo pontificato e il
suo pensiero teologico con l’aiuto dei nostri collaboratori, il teologo Simone
Paganini e il filosofo Michele Illiceto.
Simone Paganini, teologo, biblista, insegna all’università
tecnica di Aquisgrana, Lei ha un ricordo personale di Joseph Ratzinger. Ce ne
parla?
Conservo di lui un bel ricordo. Anni fa stavo scrivendo
la mia tesi di dottorato in esegesi dell’Antico Testamento e mi trovavo a
Monaco di Baviera al Georgianum, un collegio per sacerdoti e teologi, e in quei
giorni c’era anche Ratzinger. Ebbi l’occasione di parlare a lungo con lui
durante la cena e rimasi piacevolmente stupito dalla sua capacità comunicativa
e dal suo umorismo. Era molto gradevole parlare con lui. Il grande teologo
Joseph Ratzinger si rapportava a noi giovani con semplicità. Quella sera non
conobbi solo il cardinale e il teologo ma anche l’uomo Ratzinger.
Sicuramente la prima cosa che si ricorderà di papa
Benedetto XVI (2005-2013), per chi non conosce il suo pensiero teologico e per
i non credenti, sono le sue dimissioni da pontefice, una rinuncia lucida,
onesta, fatta nella consapevolezza dei propri limiti, come disse. Un gesto che
sottolinea il ministero pontificale come servizio e che consegna Benedetto XVI
alla storia. Un gesto “di umiltà, di ammissione di inadeguatezza, di fragilità
del potere, di ogni potere, compreso quello origine divina”, ha scritto Marco
Damilano (Domani, 02.01). Ratzinger, teologo, “un uomo riluttante al governo” –
così Alberto Melloni, storico delle religioni, – si è trovato “al centro di una
fase di disordine sistemico nella chiesa cattolica che non aveva precedenti
dall’inizio del Cinquecento” (ispionline.it, 31.12). Che cosa ne pensa
Lei, Simone Paganini?
È scomparso l’unico papa emerito nella storia della
Chiesa, un titolo che si era dato lui. Sul motivo delle dimissioni di Benedetto
XVI si è discusso e si discuterà all’infinito. Chi vede in Benedetto XVI un
papa modello ne sottolinea l’umiltà e parla di rinuncia, chi lo valuta più
criticamente si concentra sulla sua incapacità di volere o poter risolvere i
problemi della Chiesa e parla di abbandono. Il pontificato di Joseph Ratzinger
è sicuramente un avvenimento estremamente complesso nella moderna storia della
chiesa. Ma Ratzinger non è stato una vittima degli sviluppi, quanto piuttosto
artefice di questi sviluppi, che forse non ha avuto la forza o il coraggio di
affrontare fino alla fine, e per questa si è dimesso. Anche sulle radici del
problema degli abusi sessuali lui le cercava non in una struttura ecclesiale
sistematicamente problematica, ma in una società libertina figlia della
contestazione degli anni ’60.
Il suo successore, papa Francesco, con la “Lettera al
popolo di Dio” (2018) ha invece scritto che la crisi degli abusi sessuali non
va cercata fuori ma nella struttura gerarchica della Chiesa, che Bergoglio
definisce clericalismo. Ma che cosa intende dire che Benedetto XVI è stato
artefice di sviluppi che non ha affrontato?
Ratzinger è stato un teologo importante negli anni
‘70-‘80 del secolo scorso. Poi è diventato cardinale, poi prefetto per la
Dottrina della Fede (1982-2005) e infine Papa. Sia nei rapporti con la Chiesa
protestante, che con l’Islam, che con il giudaismo, che anche con il mondo
moderno, secondo me non è stato capace di tenere separato il suo pensiero
teologico dal pensiero teologico della Chiesa, bloccando sviluppi teologici
estremamente interessanti, – come quelli di teologie contestuali, come la
teologia della liberazione, le teologie ecumeniche, interreligiose o le
teologie femministe – che avrebbero meritato un confronto aperto invece di una
censura più meno senza possibilità di ritorno. Faccio un esempio: Ratzinger ha
scritto una biografia di Gesù, non come semplice studioso, ma come Papa.
Indipendentemente dal loro successo editoriale, i tre volumi mostrano la
sfiducia di Ratzinger nei confronti di un certo tipo di teologia e in generale
della teologia ed esegesi biblica come scienza perché fondamentalmente non si
cura dei risultati esegetici degli ultimi trent’anni sulla figura del Gesù
storico e sul Nuovo Testamento.
Questa sfiducia si legge anche nel suo testamento
spirituale (29 agosto 2006), ma ci aiuti a capire meglio. Nel suo testamento
spirituale c’è una parte dedicata agli affetti personale, si legge la
gratitudine verso i genitori, il fratello, la sorella, l’amore verso la sua
terra di origine, la Baviera, “nella quale” – ha scritto – “ho sempre visto
trasparire lo splendore del Creatore stesso”, e la sua gente. Nel testo Benedetto
XVI chiede poi perdono se in qualche modo ha fatto torto a qualcuno, per poi
proseguire con l’appello a rimanere saldi nella fede: “Spesso sembra che la
scienza – le scienze naturali da un lato e la ricerca storica (in particolare
l’esegesi della Sacra Scrittura) dall’altro – siano in grado di offrire
risultati inconfutabili in contrasto con la fede cattolica”. Anche sulle
scienze bibliche ha “visto crollare tesi che sembravano incrollabili”. Si può
dire che qui è riassunta la sua critica al relativismo che tocca anche le
scienze bibliche e la teologia?
In quella che Ratzinger ha definito la “dittatura del
relativismo”, lui ha visto una cosa negativa da combattere e non piuttosto una
possibilità di relazionarsi in maniera nuova e dialogica con un mondo in cambiamento
in cui i tradizionali valori cristiani (anche se Benedetto XVI non ha quasi mai
pensato in termini “cristiani” ma fondamentalmente solo in termini di “chiesa
cattolica”) non comunicano più nulla. Ratzinger come teologo ha, per lo meno
all’inizio, da un lato cercato di presentare un cristianesimo incarnato nella
storia, dove il rapporto tra fede e ragione potesse essere inserito in una
riflessione globale, dall’altro, anche da Papa, è rimasto un teologo fermo a
posizioni che si possono definire apologetiche. Attaccato a una tradizione
cattolica spesso riletta in maniera monodirezionale – una direzione data da lui
come prefetto del dicastero per la Dottrina della Fede – il suo sforzo maggiore
è stato proprio quello di cercare di mitigare gli sviluppi riformisti del
post-concilio. Solo che ha fatto questo in un periodo in cui da molte parti
della chiesa – soprattutto all’interno della chiesa europea e tedesca – si
alzava la voce per ottenere se non un Concilio Vaticano III perlomeno un
dialogo aperto in tema di riforme, sussidiarietà, ruolo della donna etc.
Ratzinger si è profilato come “difensore della fede” senza rendersi conto che
andava a perdere tutta quella parte di cristiani critici, aperti, attenti alla
Bibbia e desiderosi di una teologia contestualizzata e non assolutista.
Che cos’è allora la “ragionevolezza della fede”? È
possibile ancora pensare a una teologia non contestualizzata, non incarnata
nella storia?
È sintomatico che nel suo testamento spirituale Benedetto
XVI invece di guardare in faccia ai reali problemi si riferisca a una diatriba
di teologia puramente speculativa – fideismo o razionalismo – e staccata dalla
realtà, non solo del mondo moderno areligioso, ma anche del mondo cristiano.
Chi si aspettava nel testamento spirituale di Benedetto XVI una visione aperta
e innovativa è rimasto nuovamente deluso. Discutere di fede e ragione, di
“ragionevolezza della fede”, tuttavia non basta a risolvere i problemi concreti
che la Chiesa si trova ad affrontare oggi e purtroppo non l’aiuta davvero.
Paola Colombo e Simone Paganini, CdI genn.
Gesù rimane la via, la verità e la vita
Nel giorno del suo funerale, divulghiamo l'ultima omelia
pubblica del Cardinale George Pell pronunciata sabato scorso 7 gennaio a San
Giovanni Rotondo presso il centro di spiritualità padre Pio in occasione del XX
convegno generale della Comunità Magnificat Dominum, comunità Carismatica
cattolica nata a Foggia nel 1984, ad opera di un gruppo di fedeli laici, presso
la parrocchia Sant’Alfonso Maria de’ Liguori
Noi credenti conosciamo bene le benedizioni che abbiamo
ricevuto in Gesù Cristo, noi sappiamo che “Il popolo che abitava nelle tenebre
vide una grande luce e che per quelli che abitavano nelle regioni di ombra di
morte, una luce è sorta” Isaia 9,1. Noi conosciamo la chiamata di Gesù,
attraverso il Battista, alla conversione: “Convertitevi perché il regno di Dio
è vicino” (Mt 4,17), ma noi cattolici anziani, o meglio adulti, siamo benedetti
anche perché noi abbiamo vissuto, in quasi quarant’anni, il tempo di Giovanni
Paolo II e papa Benedetto XVI. Questi anni sono stati apicali per tutta la
storia. Il papato di Giovanni Paolo II, uno dei papi più grandi della storia
della chiesa, non soltanto per il suo ruolo nel crollo del comunismo, ma anche
per tutto il mondo occidentale perché, dopo il Concilio Vaticano II, le chiese
in Olanda e Belgio sono crollate radicalmente, con il pericolo che questo
crollo potesse essere ancora più vasto. Io credo che Giovanni Paolo, in qualche
modo, abbia stabilizzato la chiesa nel mondo occidentale; per tutti questi
motivi, in questi giorni, noi non celebriamo la fine di un’epoca ma celebriamo
il contributo di questi due grandi papi. Noi crediamo che questa tradizione
deve continuare nella chiesa di domani: non che questa sia l’unica condizione –
non deve essere un monopolio – infatti, ci sono tante altre condizioni buone,
ma questa ha dato un contributo speciale a tutta la chiesa e, soprattutto, ai
giovani. Tantissimi giovani, infatti, seguivano papa Giovanni Paolo II e papa
Benedetto XVI Quali sono gli elementi di questo patrimonio di Wojtyla e
Ratzinger?
1) Erano veri cristiani: avevano capito che il segreto
della vita e della morte sono presenti nella vita e nell’insegnamento di Gesù
Cristo. Essi erano missionari della verità: noi non costruiamo la verità, noi
non abbiamo la capacità di cambiare la verità; noi possiamo solo riconoscere la
verità e, qualche volta, la verità non è del tutto bella. Qualche volta la
verità è sconcertante, difficile. Questi due papi non affermavano che
l’insegnamento di Gesù era condizionato dall’epoca, dall’impero romano, dai pagani;
non affermavano che l’insegnamento essenziale e centrale dovesse essere
aggiornato, cambiato radicalmente; loro accettavano l’insegnamento di Gesù così
come è arrivato a noi. Come per loro, anche per noi, Gesù rimane la via, la
verità e la vita.
2) Erano ottimisti: credevano che le comunità dei
cristiani e l’insegnamento di Gesù siano un grande aiuto per vivere bene; Gesù
non è venuto in mezzo a noi per farci soffrire e loro credevano soltanto nella
virtù cristiana della speranza. Lo scrittore inglese Gilbert K. Chesterton
scrive: “La virtù della speranza è soltanto possibile quando non c’è speranza
umana”. Questi due papi non credevano questo, perché il mondo è migliore,
invece, quando seguiamo l’insegnamento di Gesù. Le famiglie rimangono insieme, sono
più felici, le comunità sono più brave, seguono la legge e in un mondo
cristiano le famiglie sono stabili, i giovani sono meno fragili, sono più forti
spiritualmente e psicologicamente. Come i cristiani noi abbiamo qualcosa di
buono da offrire al mondo: la croce non è troppo pesante. Noi, che siamo
cristiani, sappiamo che dobbiamo amarci gli uni gli altri, dobbiamo seguire i
precetti che Gesù ha dato. “Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio
in Lui”. (1Gv 3,23) C’era un filosofo inglese ateo che ha affermato che i 10
comandamenti sono come un esame finale, basta riuscire a viverne bene 6 su 10:
invece no, dobbiamo cercare di seguirli tutti. Noi sappiamo che la nostra vita
è una lotta contro l’egoismo; questi due papi hanno vissuto durante gli anni
della II guerra mondiale, Wojtyla ha vissuto il comunismo; loro capivano
l’importanza della lotta contro il nostro egoismo; sapevano distinguere tra lo
spirito della verità e lo spirito dell’errore.
3) Comprendevano l’importanza dei sacramenti e, specialmente,
dell’eucarestia. L’eucarestia non è soltanto una celebrazione orizzontale ma è
un atto di preghiera, di adorazione; come stamattina, quando abbiamo iniziato
con la preghiera mettendo al centro Dio: deve essere così, perché Dio è
trascendente, fuori da tutta la nostra esperienza, fuori dal nostro mondo; la
dimensione verticale della religione è essenziale.
4) Comprendevano il ruolo del successore di Pietro nella
vita della chiesa cattolica; noi cattolici dobbiamo ricordare che l’unità
universale della chiesa non è qualcosa di scontato o di facile. E’ un dono
molto prezioso che dobbiamo stare attenti a custodire per non danneggiarlo. Voi
comunità carismatiche dovete comprendere la necessità di mantenere l’unità.
L’insegnamento per ogni uomo lo troviamo scritto nel capitolo 16 di Matteo e in
Giovanni 21. Pietro è l’uomo di roccia, fondamento della chiesa: il suo compito
è di proteggere e difendere la dottrina apostolica. Questi due papi hanno
capito bene che noi non siamo i maestri della dottrina apostolica, noi siamo i
difensori, noi serviamo e rispettiamo questa preziosa regola della fede. Anche
tutti i cattolici, di qualunque età, in tutto il mondo, hanno il diritto di
ricevere lo stesso insegnamento che Gesù e gli apostoli diedero nei primi anni
del cristianesimo: questa è la dottrina cattolica. Entrambi i papi erano uomini
di coraggio, ma nello stesso tempo prudenti: c’è il momento di parlare e il
tempo di tacere, ma il coraggio è sempre essenziale. Si potrebbe pensare che,
in futuro, ci potranno essere papi dell’Asia o dell’Africa.
Oggi abbiamo un Papa del sud dell’America, bravo e buono!
Questi due papi erano, invece, europei, esempi di uomini
profondamente conoscitori dell’alta cultura del mondo occidentale; conoscevano
bene la teologia e la filosofia della chiesa e avevano una grande capacità di
dialogare con i più bravi atei del mondo di oggi: questo è importante e utile.
Tutti e due hanno capito l’importanza della chiesa per noi tutti di aiutare i
sofferenti, i malati, i tormentati, indemoniati, epilettici, paralitici, zoppi
fisicamente e spiritualmente questo è il compito della chiesa: Caritas in
Veritate. Ringraziamo Dio per questi due papi e preghiamo che la loro eredità
possa continuare nel futuro.
George Pell Sir 14
A che punto è la riforma della Curia?
Lo scorso anno, la Praedicate Evangelium ha incluso
diverse novità nella struttura della Curia. Ecco cosa è cambiato - Di Andrea
Gagliarducci
CITTÀ DEL VATICANO. Per la prima vola, nell’udienza a lui
concessa lo scorso 10 gennaio da Papa Francesco, l’arcivescovo Rino Fisichella
appariva con il titolo di pro-prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione.
Era un titolo scontato, considerando che il dicastero da lui guidato, il
Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, era
diventato una delle due sezioni del Dicastero per l’Evangelizzazione. Fino ad
ora, però, quando l’arcivescovo Fisichella andava in udienza era semplicemente
presentato come “arcivescovo titolare di Voghenza”.
Qualcosa è successo, dunque, e gli incarichi vengono
distribuiti e formalizzati. Papa Francesco ha pubblicato quasi a sorpresa la
costituzione apostolica Praedicate Evangelium il 19 marzo 2021. Questa prendeva
il posto della Pastor Bonus di Giovanni Paolo II e andava a ridisegnare la struttura
della Curia.
In realtà, la Praedicate Evangelium non faceva altro che
cristallizzare una serie di riforme già messe in atto da Papa Francesco: c’era
già la Segreteria per l’Economia, che nella Praedicate Evangelium viene
definita “segreteria papale” al pari della Segreteria di Stato; c’era già il
Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, che aveva accorpato i
Pontifici Consigli della Giustizia e della Pace, dei Migranti, della Pastorale
Sanitaria e di Cor Unum. E poi, era già stato stabilito il Dicastero Laici,
Famiglia e Vita, che aveva accorpato i Pontifici Consigli per i Laici e per la
Famiglia e la Pontificia Accademia per la Vita.
La riorganizzazione, dunque, era già stata attuata. Gli
ultimi due tasselli sono stati dati dalla costituzione: la Congregazione per
l’Evangelizzazione dei Popoli diventa dicastero per l’Evangelizzazione, con il
Papa come prefetto e due pro-prefetti per la sezione di evangelizzazione e
nuova evangelizzazione; il Dicastero Educazione e Cultura prende il posto della
Congregazione per l’Educazione Cattolica e il Pontificio Consiglio per la
Cultura.
Al di là della Costituzione, cosa è stato attuato fino ad
ora? C’è stata, per esempio, la riforma del Dicastero per la Dottrina della
Fede, che è avvenuta già a febbraio, prima della promulgazione della nuova
Costituzione Apostolica.
La riforma avvenne con il motu proprio numero 48 del
Pontificato, ed era parte di un progetto che Papa Francesco aveva sviluppato in
varie interviste, ma che non venne mai toccata nelle riunioni del Consiglio dei
Cardinali precedenti.
La riforma della Congregazione della Dottrina della Fede,
insomma, arriva a sorpresa, ed alla fine di un percorso graduale di
cambiamenti.
La Congregazione era prima costituita da quattro uffici:
disciplinare, dottrinale, matrimoniale la quarta sezione. Quest’ultima, si
legge nell’annuario pontificio del 2021, aveva “il compito di seguire la
questione dei rapporti con la Fratetrnità Sacerdotale San Pio X (i cosiddetti
lefevbriani, ndr), l’applicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum, la vita
degli istituti già sottomessi alla Pontificia Commissione Ecclesia Dei, e, in
modo generale, le cose afferenti alle celebrazioni secondo la liturgia antica,
definita come ‘forma straordinaria del Rito Romano’.”
La quarta sezione non aveva più ragione di esistere dopo
il motu proprio “Traditionis Custodes,” che revocava le concessioni di
Benedetto XVI all’uso del rito antico e ridefiniva le concessioni alla stregua
di un biritualismo, vale a dire dell’utilizzo di un doppio rito. In pratica, il
rito antico non era più considerato “rito straordinario”, ma piuttosto un altro
rito
La stessa quarta sezione era stata stabilita dopo che,
con un altro motu proprio, Papa Francesco aveva nel 2019 chiuso la Pontificia
Commissione Ecclesia Dei, nata in seno alla Congregazione proprio per curare i
rapporti con i lefebvriani.
Con la riforma, ha chiuso anche l’ufficio matrimoniale,
mentre la Congregazione è stata ristabilita in due sezioni distinte,
disciplinare e dottrinale, con due segretari differenti.
La filosofia alla base della riforma del Dicastero della
Dottrina della Fede è, in qualche modo, anche la filosofia generale della
riforma della Curia: meno uffici, più sezioni specializzate, che diventano
quasi blocchi a se stanti all’interno dei dicasteri. Il ruolo del Papa diventa
più centrale, perché è anche colui che dà la missione canonica, e che dunque dà
l’autorità. Da qui, anche un possibile ruolo dei laici in funzioni di governo.
In due casi, il Papa ha nominato laici in questo ultimo anno: quando ha scelto
il nuovo segretario del Dicastero Laici Famiglia e Vita, Gleison de Paula
Souza, che comunque era un diacono e in percorso verso il sacerdozio prima; e
quando ha chiamato Maximino Caballero Ledo a sostituire il prefetto della
Segreteria per l’Economia padre Antonio Guerrero Alves, di cui era il numero 2.
Da segnalare anche l’uscita di una donna, laica (anche se consacrata), dai
massimi ranghi della Segreteria di Stato: Francesca Di Giovanni, primo
sottosegretario della Segreteria di Stato per la sezione multilaterale, è
andata in pensione, e sostituita da monsignor Daniel Pacho, che già era in
forza alla Seconda Sezione della Segreteria di Stato.
Più che altro, sono da segnalare gli aggiustamenti in
campo economico. L’ultima decisione di Papa Francesco prevede che tutte le
fondazioni pontificie siano sotto il controllo della Segreteria per l’Economia,
prima ancora c’era stata una norma interpretativa della Praedicate Evangelium
che metteva in luce che tutti i fondi dei dicasteri vaticani dovessero essere
depositati nell’Istituto delle Opere di Religione, mettendo fine così ad una
lunga tradizione di diversificazione degli investimenti che aveva comunque
aiutato molto la Santa Sede.
A giugno, la gestione del personale della Santa Sede è
passato dalla Segreteria di Stato alla Segreteria per l’Economia con l’entrata
in vigore della Praedicate Evangelium lo scorso 5 giugno. Una scelta dovuta
anche alla decisione del Papa, dopo le problematiche seguite all’investimento
in un palazzo di lusso a Londra ora oggetto di un processo in Vaticano,ha
deciso di togliere alla Segreteria di Stato l’autonomia economica (andata
all’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica), ma anche parte
dei ruoli di coordinamento, andati alla Segreteria per l’Economia.
C’è, insomma, una maggiore centralizzazione delle
gestioni economiche e gestionali in corso, mentre il Papa si trova anche a
dover cambiare profondamente l’organigramma della Curia. Il cambio della
guardia al Dicastero per le Chiese Orientali è già avvenuto, mentre si aspetta
un nuovo prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede e un nuovo prefetto
al Dicastero per i Vescovi.
Di fatto, per ora la riforma della Curia sta certificando
cambiamenti già messi in atto da Papa Francesco. Saranno da vedere i prossimi
sviluppi. Aci 13
Vangelo Migrante: II domenica del tempo ordinario | Vangelo (Gv 1,29-34)
Il Vangelo domenicale del tempo ordinario riparte dalle
parole del Battista che indica in Gesù “l’Agnello di Dio che toglie il peccato
del mondo”.
Quale peccato? L’errore di bersaglio compiuto da tutta
l’umanità: creata, ‘vocata’ a vivere in un modo, essa vive un perenne ‘fuori
bersaglio’ accumulando sbagli e debiti.
Quale Agnello? Non un Dio giudice e carnefice, come
spesso viene riconosciuta la divinità, ma un innocente, un non violento, mite
ed amante di coloro per cui è venuto a pagare i danni prodotti e l’enormità del
debito contratto in ogni errore di bersaglio.
Giovanni è consapevole che Gesù ha il potere di salvare
il mondo e liberare l’uomo da ogni male, malattia, infermità, morte e schiavitù
per condurlo alla pace; ma sa anche che Gesù compirà il suo mandato in modo del
tutto inatteso e imprevisto.
Gesù, il Messia e il Salvatore, userà sempre e solo le
‘armi’ dell’Agnello: l’amore, la compassione, la misericordia, la mitezza e la
dolcezza. E questo per Giovanni umanamente non sarà affatto un vantaggio: in
quella consapevolezza, ammette che l’Agnello che sta indicando non combatterà
con forza e con violenza nemmeno contro il potere e le ingiustizie che causeranno
la sua decapitazione …
Provvederà anche a lui ma non nel modo che la mente o la
paura umana si aspettano. Giovanni sperimenta la Sua potenza liberatoria ma
anche l’assoluta divina imprevedibilità che non lo liberano dalle catene della
prigionia e della decapitazione.
Il Vangelo di oggi è ad un tempo annuncio e atto di fede.
Parole e gesti. Giovanni accetta per davvero di essere parte vera, costi quel
che costi, di quel Regno che le sue parole inaugurano. Gesù sa che fino a
quando la testa di Giovanni sarà al suo posto, sarà possibile per gli uomini
conoscere il più grande tra i nati di donna e ascoltare l’annuncio del
precursore; ma sa anche che la testa di Giovanni sul vassoio di Erodiade,
manifesterà la gloria di Dio e sarà la semina feconda del Regno di Dio di cui
Giovanni, e con lui tutti coloro che stanno affondando, che naufragano in mare
o nell’anonimato di un’esistenza ai margini e che soffrono le conseguenze del
peccato, sono parte integrante.
Ecco l’Agnello di Dio: imprevedibile, certo; ma Salvatore
per davvero!
p. Gaetano Saracino, migr.on. 12
Il Sinodo per la Chiesa universale è entrato nella tappa
continentale, che concluderà la prima fase del processo sinodale nelle Chiese
particolari. Nel frattempo papa Francesco ha deciso che la fase assembleare si
svolga con due assemblee, nell’ottobre del 2023 e nell’ottobre del 2024.
L’intervista al cardinale Mario Grech, che guida la Segreteria del Sinodo, fa
il punto sulla situazione, rileggendo il cammino fatto e spiegando cosa
significa per la Chiesa questa nuova tappa in vista delle due assemblee.
Eminenza, rieccoci. Ormai l’intervista per Vita Pastorale
è quasi un appuntamento fisso, che accompagna le tappe del processo sinodale in
atto. Dopo la tappa diocesana con la consultazione del popolo di Dio e il
discernimento delle Conferenze episcopali, che hanno inviato alla Segreteria
del Sinodo le loro sintesi, redatte sulla base dei contributi pervenuti dalle
diocesi, s’è appena aperta la tappa continentale. Vogliamo fare un bilancio del
cammino finora compiuto? Le faccio una domanda a bruciapelo: è contento di come
stanno andando le cose?
«Come potrei rispondere di no? La stragrande maggioranza
delle Chiese particolari ha partecipato alla consultazione del popolo di Dio;
la quasi totalità delle Conferenze episcopali (112 su 114) e la totalità delle
15 Chiese orientali sui iuris hanno fatto pervenire le loro sintesi; molti
altri contributi sono stati inviati direttamente alla Segreteria del Sinodo,
compresi quelli di una ventina di dicasteri della Curia romana. Siamo stati
felicemente sorpresi di una partecipazione così corale. Il Documento di sintesi
per la fase continentale è davvero l’eco della voce della Chiesa tutta. Certo,
non mi illudo: molti dicono che la partecipazione alla consultazione è stata
scarsa, che le sintesi delle Conferenze episcopali sono deboli, che s’è data
troppa enfasi a un processo assai confuso. Potrei dire che non poteva essere
altrimenti. Si tratta di una prima volta. In Segreteria del Sinodo continuiamo
a ripeterci che, in fatto di sinodalità, siamo tutti apprendisti. Stiamo tutti
imparando. Io per primo. Ma le notizie che ricevo mi confortano e mi convincono
che siamo sulla strada giusta, che stiamo camminando. E mi pare di poter dire
che il passo si fa più sicuro di tappa in tappa».
In questa convinzione quanto entra la recente esperienza
di redazione del Documento di sintesi per la tappa continentale?
«Molto. Devo dire che è stata un’esperienza forte per
tutti noi. Eravamo una quarantina di persone, tra membri della Segreteria ed
esperti da tutto il mondo convocati per leggere insieme le sintesi delle
Conferenze episcopali. Abbiamo sperimentato la forza della conversazione
spirituale: ciascuno ha messo in comune con gli altri quanto aveva raccolto
dalla lettura delle sintesi pervenute alla Segreteria. Nell’ascolto reciproco
abbiamo potuto ascoltare la voce delle Chiese. Il Documento per la fase
continentale è davvero il frutto di un ascolto obbediente allo Spirito, senza
preclusioni e condizionamenti. Il punto che avevamo chiaro era che dovevamo
ascoltare, senza aggiungere nulla di nostro. Nel Documento continentale ciò che
si ascolta è la voce delle Chiese, restituita dai pastori».
Lei parla di sintesi delle Conferenze episcopali. Queste
erano chiamate a fare sintesi dei contributi che provenivano dalle Chiese
particolari. Non è un limite leggere le sintesi dei vescovi e non i contributi
di tutte le Chiese?
«Sì e no. L’ottimo sarebbe stato leggere tutto. Ma
avrebbe anche significato ergersi a controllori del processo. Non è questo il
compito della Segreteria del Sinodo, che ha ricevuto il frutto della
conspiratio avvenuta nelle Chiese particolari. La consultazione del popolo di
Dio nelle Chiese particolari è stato il primo atto del processo sinodale: senza
quello non c’è processo sinodale, perché non c’è ascolto del popolo di Dio che
partecipa alla funzione profetica di Cristo. Ma la consultazione ha bisogno del
discernimento: i due momenti sono strettamente correlati. Senza consultazione,
non c’è materia su cui discernere; ma senza discernimento, la consultazione si
risolve in un’indagine demoscopica. Quando riduciamo il processo sinodale a uno
solo dei suoi momenti, si finisce per comprometterlo. Basta vedere i giudizi
sul percorso fatto fin qui: chi enfatizza la consultazione del popolo di Dio
sostiene che la gerarchia impedisce le spinte di riforma, spegne la profezia
nella Chiesa, aggiusta i risultati; chi enfatizza la funzione gerarchica
squalifica il sensus fidei, sostenendo che il popolo di Dio altro non è che la
cassa di risonanza di questioni ideologiche sostenute da gruppi di potere. Il
reciproco sospetto contraddice la natura e il metodo della sinodalità. Il
processo sinodale è fondato sul rispetto, sul reciproco riconoscimento, sulla
stima e l’attenzione all’altro. Le sintesi delle Conferenze episcopali
appartengono al processo sinodale tanto quanto la consultazione e mostrano uno
stadio più avanzato del discernimento ecclesiale. Su quello stadio avanzato la
Segreteria s’è basata per redigere il Documento di sintesi per la fase
continentale».
Con la pubblicazione di questo Documento si è avviata la
fase continentale. Questo significa che è finita la partecipazione delle Chiese
particolari e il Sinodo prosegue a livello di istanze intermedie di sinodalità
fino alla fase assembleare?
«Se si seguisse questa sequenza lineare, si finirebbe in
una sorta di centralizzazione del processo sinodale, un vero e proprio imbuto.
La tappa continentale costituisce un ulteriore livello di discernimento della
consultazione: per questo il Documento redatto dalla Segreteria a partire dalle
sintesi delle Conferenze episcopali, prima di approdare alle Assemblee
continentali, viene restituito alle Chiese particolari. Il principio della
restituzione è fondamentale per capire l’esercizio della sinodalità: bisogna
sempre tornare là dove è partito il processo sinodale. Ogni vescovo ha ricevuto
il Documento, con la raccomandazione di rileggerlo nella sua Chiesa e di fare
osservazioni sul Documento – si tratta, a tutti gli effetti, di una modalità di
recezione – da inoltrare alla Conferenza episcopale; questa a sua volta farà il
suo discernimento e inoltrerà le osservazioni al livello continentale. Nel
processo sinodale è sempre coinvolta la Chiesa intera! Tutte le Chiese
particolari, cioè tutto il popolo di Dio con i suoi pastori! In questo modo si
radicano sia lo stile che la forma sinodale della Chiesa, che per la prima
volta sta sperimentando anche questo livello continentale di discernimento».
Quali frutti si sperano dalla tappa continentale? Che
risultati può garantire un livello di vita ecclesiale non regolato da una
disciplina comune?
«Il fatto che non esista una disciplina comune non
impedisce che le Assemblee continentali costituiscano un passaggio importante
del processo sinodale. Proprio perché non esistono Conferenze episcopali
continentali, s’è scelta l’Assemblea, dove sono presenti i vescovi e può essere
realizzata un’ampia rappresentanza del popolo di Dio. Garantendo la presenza
dei pastori e di coloro che nelle Chiese particolari sono stati più
direttamente coinvolti nel processo sinodale, sarà possibile realizzare un
discernimento ad ampio respiro, in grado di restituire – in questo caso alla
Segreteria del Sinodo – il modo di sentire e vivere la sinodalità in ogni
continente. Il principio che regola la Chiesa è l’unità, non l’uniformità;
l’unità che non cancella le differenze, ma le compone nella comunione. Dalle
sintesi continentali potremo comprendere come la sinodalità si comprende e si
attua nella communio Ecclesiarum. Senza dimenticare che questa esperienza delle
Assemblee continentali può favorire il formarsi di una disciplina condivisa di
Chiesa anche a livello continentale, configurando meglio il livello delle
istanze intermedie di sinodalità della Chiesa».
I tempi per la realizzazione della tappa continentale?
«La primavera del 2023, per permettere alla Segreteria
del Sinodo di redigere, sulla base delle sintesi pervenute, l’Instrumentum
laboris per l’assemblea di ottobre a Roma. Dall’apertura della tappa alla
celebrazione delle Assemblee sarà un tempo fecondo per le Chiese particolari e
per le Conferenze episcopali di approfondire lo stile e il metodo sinodale».
Ma lei vede reale convinzione o riscontra atteggiamenti
non in sintonia con l’esercizio della sinodalità, come una modalità passiva di
realizzare il processo – fare perché è richiesto dall’alto – o, al contrario,
una certa insofferenza? Chi fa più difficoltà a entrare in una mentalità
sinodale?
«Questi atteggiamenti si riscontrano tutti. Andiamo da
chi ha abbracciato convintamente la sfida sinodale a chi la osteggia
apertamente. All’inizio le maggiori difficoltà erano manifestate dai vescovi:
molti di loro esprimevano il dubbio che l’esercizio della sinodalità articolata
per tappe, con la partecipazione del popolo di Dio, esponesse la Chiesa al
rischio di una democratizzazione. L’esperienza della consultazione nella
modalità della conversazione spirituale ha convinto molti della bontà del
processo sinodale e della verità della Chiesa sinodale. Il popolo di Dio, là
dove è stato realmente coinvolto, ha risposto, il più delle volte con grande entusiasmo.
I più in difficoltà mi sembrano i sacerdoti, soprattutto i più giovani. Molti
manifestano un vero e proprio rigetto. C’è da chiedersi cosa dica a noi questa
resistenza a coinvolgersi in questa esperienza di Chiesa che li vorrebbe
protagonisti attivi e convinti. Ma sono fiducioso. Rammento a me stesso e a
tutti la sentenza di Gamaliele: «Se questo piano o quest’opera fosse di origine
umana, verrebbe distrutta; ma se viene da Dio, non riuscirete a distruggerla»
(At 5, 38-39). Per parte mia, ho la convinzione che stiamo vivendo una stagione
straordinaria della Chiesa, sotto l’azione dello Spirito santo».
Grazie, Eminenza. Alla prossima!
Dario Vitali, Vita Past. gennaio
Papa Francesco: "Senza zelo apostolico, la fede appassisce"
Il Papa inizia un nuovo ciclo di catechesi dal nome
"La passione per l’evangelizzazione: lo zelo apostolico del credente e
incentra la sua meditazione sul tema: “La chiamata all’apostolato” - Di
Veronica Giacometti
CITTÀ DEL VATICANO. Il Papa inizia un nuovo ciclo di catechesi
dal nome "La passione per l’evangelizzazione: lo zelo apostolico del
credente e incentra la sua meditazione sul tema: “La chiamata all’apostolato”.
"Iniziamo oggi un nuovo ciclo di catechesi, dedicato a un tema urgente e
decisivo per la vita cristiana: la passione per l’evangelizzazione, cioè lo
zelo apostolico. Si tratta di una dimensione vitale per la Chiesa: la comunità
dei discepoli di Gesù nasce infatti apostolica, missionaria", è lo stesso
Papa a spiegarlo all'inizio della sua catechesi.
"Può succedere, però, che l’ardore apostolico, il
desiderio di raggiungere gli altri con il buon annuncio del Vangelo,
diminuisca. A volte sembra eclissarsi. Ma quando la vita cristiana perde di
vista l’orizzonte dell’annuncio, si ammala: si chiude in sé stessa, diventa
autoreferenziale, si atrofizza. Senza zelo apostolico, la fede
appassisce", continua il Pontefice.
"La missione è invece l’ossigeno della vita
cristiana: la tonifica e la purifica. Intraprendiamo allora un percorso alla
riscoperta della passione evangelizzatrice, iniziando dalle Scritture e
dall’insegnamento della Chiesa, per attingere alle fonti lo zelo apostolico.
Poi ci accosteremo ad alcune sorgenti vive, ad alcuni testimoni che hanno
riacceso nella Chiesa la passione per il Vangelo, perché ci aiutino a ravvivare
il fuoco che lo Spirito Santo vuole far ardere sempre in noi", sottolinea
Papa Francesco.
Francesco porta l'esempio di Matteo. "Possiamo
immaginare il disprezzo che la gente provava per lui: era un “pubblicano”. Ma,
agli occhi di Gesù, Matteo è un uomo, con le sue miserie e la sua grandezza.
Gesù non va all'aggettivo, va alla sostanza. E mentre tra Matteo e la sua gente
c’è distanza, Gesù si avvicina a lui, perché ogni uomo è amato da Dio. Questo
sguardo, che vede l’altro, chiunque sia, come destinatario di amore, è l’inizio
della passione evangelizzatrice", spiega il Papa.
"Com’è il nostro sguardo verso gli altri? - chiede
il Papa - Quante volte ne vediamo i difetti e non le necessità; quante volte
etichettiamo le persone per ciò che fanno o pensano! Anche come cristiani ci
diciamo: è dei nostri o non è dei nostri? Questo non è lo sguardo di Gesù: Lui
guarda sempre ciascuno con misericordia e predilezione".
"La prima cosa che fa Gesù è staccare Matteo dal
potere: dallo stare seduto a ricevere gli altri lo pone in movimento verso gli
altri; gli fa lasciare una posizione di supremazia per metterlo alla pari con i
fratelli e aprirgli gli orizzonti del servizio. Questo fa Cristo e questo è
fondamentale per i cristiani: noi discepoli di Gesù, noi Chiesa, stiamo seduti
aspettando che la gente venga o sappiamo alzarci, metterci in cammino con gli
altri, cercare gli altri? Uno sguardo, un movimento e, infine, una meta. Dopo
essersi alzato e aver seguito Gesù, dove andrà Matteo? Potremmo immaginare che,
cambiata la vita di quell’uomo, il Maestro lo conduca verso nuovi incontri,
nuove esperienze spirituali", continua ancora il Papa nella sua nuova
catechesi.
"Ecco il messaggio per noi: non dobbiamo attendere
di essere perfetti e di aver fatto un lungo cammino dietro a Gesù per
testimoniarlo; il nostro annuncio comincia oggi, lì dove viviamo, La Chiesa
cresce non per proselitismo, ma per attrazione. Una volta mi ricordo che in
ospedale a Buenos Aires ci stavano poco suore, sono venute alcune dalla Corea
perchè loro erano poche e sono scese a visitare gli ammalati, parlavano solo il
coreano, ma gli ammalati erano felici, con lo sguardo parlavano, hanno
comunicato Gesù non se stesse", conclude infine il Papa. Aci 11
Il Papa: "Le persone malate sono al centro del popolo di Dio"
Messaggio del Santo Padre Francesco in occasione della
XXXI Giornata Mondiale del Malato che ricorre l’11 febbraio - Di Veronica
Giacometti
CITTÀ DEL VATICANO. “Abbi cura di lui. La compassione
come esercizio sinodale di guarigione”. E' questo il tema scelto in occasione
della XXXI Giornata Mondiale del Malato che ricorre l’11 febbraio, memoria
liturgica della Beata Vergine Maria di Lourdes.
"La malattia fa parte della nostra esperienza umana.
Ma essa può diventare disumana se è vissuta nell’isolamento e nell’abbandono,
se non è accompagnata dalla cura e dalla compassione. Quando si cammina
insieme, è normale che qualcuno si senta male, debba fermarsi per la stanchezza
o per qualche incidente di percorso. È lì, in quei momenti, che si vede come
stiamo
camminando. Se è veramente un camminare insieme, o se si
sta sulla stessa strada ma ciascuno per conto proprio, badando ai propri
interessi e lasciando che gli altri si arrangino", scrive subito il Papa
nel Messaggio.
Per il Pontefice proprio "attraverso l’esperienza
della fragilità e della malattia possiamo imparare a camminare insieme secondo
lo stile di Dio, che è vicinanza, compassione e tenerezza".
Il Papa poi nel Messaggio fa riferimento alla parabola
del Buon Samaritano. "Due passanti, considerati religiosi, vedono il
ferito e non si fermano. Il terzo, invece, un samaritano, uno che è oggetto di
disprezzo, è mosso a compassione e si prende cura di quell’estraneo lungo la
strada, trattandolo da fratello. Così facendo, senza nemmeno pensarci, cambia
le cose, genera un mondo più fraterno. Fratelli, sorelle, non siamo mai pronti
per la malattia. E spesso nemmeno per ammettere l’avanzare dell’età. Temiamo la
vulnerabilità e la pervasiva cultura del mercato ci spinge a negarla. Per la
fragilità non c’è spazio. E così il male, quando irrompe e ci assale, ci lascia
a terra tramortiti. Può accadere, allora, che gli altri ci abbandonino, o che
paia a noi di doverli abbandonare, per non sentirci un peso nei loro confronti.
Così inizia la solitudine, e ci avvelena il senso amaro di un’ingiustizia per
cui sembra chiudersi anche il Cielo. Fatichiamo infatti a rimanere in pace con
Dio, quando si rovina il rapporto con gli altri e con noi stessi. Ecco perché è
così importante, anche riguardo alla malattia, che la Chiesa intera si misuri
con l’esempio evangelico del buon samaritano, per diventare un valido ospedale
da campo”.
"La Giornata Mondiale del Malato, in effetti, non
invita soltanto alla preghiera e alla prossimità verso i sofferenti; essa,
nello stesso tempo, mira a sensibilizzare il popolo di Dio, le istituzioni
sanitarie e la società civile a un nuovo modo di avanzare insieme",
sottolinea Papa Francesco.
"Anche l’11 febbraio 2023, guardiamo al Santuario di
Lourdes come a una profezia, una lezione affidata alla Chiesa nel cuore della
modernità. Non vale solo ciò che funziona e non conta solo chi produce. Le
persone malate sono al centro del popolo di Dio, che avanza insieme a loro come
profezia di un’umanità in cui ciascuno è prezioso e nessuno è da
scartare", conclude infine il Papa. Aci 10
Padre Georg da Papa Francesco: «Ora devo stare zitto». La decisione sul suo
futuro
L’amarezza di papa Francesco e l’invito alla discrezione
fatto a padre Georg Gänswein: per lui l’ipotesi di un incarico diplomatico in
una nunziatura all’estero o una sistemazione romana, possibilmente discreta -
di Gian Guido Vecchi
CITTÀ DEL VATICANO — Gli amici che lo hanno sentito in
queste ore raccontano di un uomo che si mostra amareggiato per le
interpretazioni «malevole» degli stralci «fuori contesto» del suo libro, fatti
uscire mentre si celebravano i funerali di Benedetto XVI, «ma adesso devo stare
zitto». Di certo, lunedì mattina, monsignor Georg Gänswein ha dovuto parlare
della faccenda a papa Francesco, che lo ha ricevuto in udienza.
Dal Vaticano non si dice ufficialmente nulla. Ma è
evidente, si fa notare, che il Papa abbia raccomandato discrezione, come
ricordava all’ultimo Angelus: «Dio è nel silenzio».
E che ad avere motivo d’essere amareggiato, piuttosto, è
il pontefice, il quale avrebbe cose più importanti di cui occuparsi dell’ex
segretario del predecessore: proprio ieri, nel ricevere gli ambasciatori,
Francesco è intervenuto per la prima volta dall’uccisione di Mahsa Amini sulla
repressione feroce delle proteste popolari attuata dal regime iraniano («il
diritto alla vita è minacciato anche laddove si continua a praticare la pena di
morte, come sta accadendo in questi giorni in Iran, in seguito alle recenti manifestazioni,
che chiedono maggiore rispetto per la dignità delle donne») e sulla guerra
Ucraina, con le parole della Gaudium et Spes, ha sillabato che «ogni atto di
guerra, che mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di
vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa
umanità».
Ma tant’è, il «caso» è stato creato, il libro Nient’altro
che la Verità è in uscita, e nel sottobosco dell’opposizione tradizionalista a
Francesco monta il tentativo post mortem di usare Benedetto XVI come un
vessillo e creare un conflitto tra «i due papi» che nella realtà non c’è stato.
Per quasi dieci anni, nel Monastero, l’emerito è stato
attento a evitare ogni sospetto di interferenza nei confronti del successore
cui aveva assicurato «incondizionata reverenza e obbedienza» .
Gänswein, del resto, racconta di come Ratzinger rimase
«stupefatto» quando, all’inizio del 2020, si tentò di pubblicare col suo nome
un libro a doppia firma con il cardinale Sarah nel quale si contestava la proposta
del Sinodo amazzonico di ordinare preti sposati prima che Francesco dicesse la
sua (senza poi fare nessuna apertura, peraltro), e come Benedetto avesse poi
scritto al Papa tutta la sua «tristezza per l’abuso» del suo articolo e si
fosse proposto di non far pubblicare più nulla.
Di qui l’amarezza di Francesco. E l’udienza di ieri.
Resta il discorso sull’opportunità di pubblicare un libro simile subito dopo la
morte di Ratzinger e citare brani della corrispondenza privata tra l’emerito e
il Papa. Rispettosissima, del resto.
Che avessero sensibilità differenti è noto. Ma è ironico,
si osserva, che nel libro si sia adombrato un contrasto, ad esempio, proprio
intorno al tema della «propaganda gender», sulla quale Francesco è sempre stato
altrettanto severo.
E resta anche la questione del futuro di Gänswein, ora
prefetto della Casa pontificia. Se nella Chiesa tedesca non sembrano entusiasti
all’idea di un ritorno in patria come vescovo o altro («dipende dal diretto
interessato e da chi prende queste decisioni nella Curia» ha riposto freddo il
presidente Georg Bätzing), si è ipotizzato un incarico diplomatico in una nunziatura
all’estero o una sistemazione romana, possibilmente discreta. CdS 10
Vaticano, Papa Francesco ha incontrato padre Georg
Papa Francesco ha ricevuto questa mattina in udienza
monsignor Georg Gänswein, Prefetto della Casa Pontificia ed ex segretario
particolare di papa Benedetto XVI. Lo rende noto la Sala Stampa della Santa
Sede.
L'incontro avviene dopo le durissime polemiche degli
ultimi giorni. All'indomani della morte di Joseph Ratzinger, Gänswein -
intervistato da Ezio Mauro - aveva detto di aver scorto la mano del diavolo
durante il pontificato di Benedetto: "L'ho sentita in realtà molto
contraria, contro papa Benedetto". Al giornale tedesco Tagespost, Gänswein
ha poi rilasciato una dichiarazione clamorosa: il provvedimento con il quale
Francesco ribaltò la liberalizzazione della messa in latino avrebbe
"spezzato il cuore" di Ratzinger.
Infine, l'ex segratario particolare del papa emerito, nel
libro Nient'altro che la verità in uscita con Piemme, ha raccontato di come
Bergoglio lo avrebbe congedato dall'incarico di prefetto della Casa pontificia:
"Restai scioccato e senza parole quando Francesco mi disse: lei rimane
prefetto ma da domani non torni al lavoro".
Ieri il Papa, all'Angelus, pur non nominando mai
Gänswein, ha risposto alle polemiche con parole eloquenti: "Il
chiacchiericcio è un'arma letale" ha detto, aggiungendo: "Invece di
chiacchierare e dividere guardiamoci con compassione, aiutiamoci a
vicenda".
Noto per le sue posizioni tradizionaliste, ma senza
disdegnare la mondanità, ora il 66enne padre Georg ha davanti a sé un futuro
incerto: potrebbe essere destinato a fare il nunzio apostolico, oppure potrebbe
essere dirottato su una cattedra di una università pontificia. O ancora
potrebbe rimanere a Roma, sempre da prefetto della Casa pontificia sospeso o
senza un vero e proprio incarico. E forse proprio di questi aspetti si è
discusso nell'incontro di oggi con papa Francesco. LR 9
Papa Francesco: "Non dividendo, ma condividendo"
L'Angelus del Papa di Domenica 8 gennaio festa del
Battesimo di Gesù - Di Veronica Giacometti
CITTÀ DEL VATICANO. Conclusa, nella Cappella Sistina, la
celebrazione della Santa Messa nella Festa del Battesimo del Signore con il
Rito del Battesimo dei bambini, alle ore 12 Francesco si affaccia alla finestra
dello studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare l’Angelus con i
fedeli in Piazza San Pietro. Il Papa inizia subito con il raccontare il Vangelo
di oggi, il rito del Battesimo di Gesù.
"Era un rito con cui la gente si pentiva e
s’impegnava a convertirsi - dice il Papa - un inno liturgico dice che il popolo
andava a farsi battezzare “nuda l’anima e nudi i piedi”, cioè con umiltà e
cuore trasparente. Ma, vedendo Gesù che si mischia con i peccatori, si resta
stupiti e viene da chiedersi: perché ha fatto questa scelta, Lui, il Santo di
Dio, il Figlio di Dio senza peccato?".
La risposta è Gesù stesso a darla: Adempiere ogni
giustizia. Che cosa vuol dire? Risponde il Pontefice: "Facendosi
battezzare, Gesù ci svela la giustizia di Dio, che Lui è venuto a portare nel
mondo. Noi tante volte abbiamo un’idea ristretta di giustizia e pensiamo che
essa significhi: chi sbaglia paga e soddisfa così il torto che ha compiuto. Ma
la giustizia di Dio, come la Scrittura insegna, è molto più grande: non ha come
fine la condanna del colpevole, ma la sua salvezza e la sua rinascita, il
renderlo giusto. È una giustizia che viene dall’amore, da quelle viscere di
compassione e di misericordia che sono il cuore stesso di Dio, Padre che si
commuove quando siamo oppressi dal male e cadiamo sotto il peso dei peccati e
delle fragilità".
Per il Pontefice "sulle rive del Giordano, Gesù ci
svela il senso della sua missione: Egli è venuto ad adempiere la giustizia
divina, che è quella di salvare i peccatori; è venuto per prendere sulle proprie
spalle il peccato del mondo e discendere nelle acque dell’abisso, della morte,
così da recuperarci e non farci annegare. Egli ci mostra che la vera giustizia
di Dio è la misericordia che salva, l’amore che condivide la nostra condizione
umana, si fa vicino, solidale con il nostro dolore, entrando nelle nostre
oscurità per riportare la luce".
Poi il Papa cita Benedetto XVI. "Dio ha voluto
salvarci andando lui stesso fino in fondo all’abisso della morte, perché ogni
uomo, anche chi è caduto tanto in basso da non vedere più il cielo, possa
trovare la mano di Dio a cui aggrapparsi e risalire dalle tenebre a rivedere la
luce per la quale egli è fatto".
"Vorrei dirlo così: non dividendo, ma condividendo.
Non dividere, ma condividere. Facciamo come Gesù: condividiamo, portiamo i pesi
gli uni degli altri, guardiamoci con compassione, aiutiamoci a vicenda",
conclude il Pontefice.
Subito dopo la recita dell'Angelus Francesco passa ai
consueti saluti. "Stamattina secondo la consuetudine ho battezzato alcuni
neonati, ora però nella festa del Battesimo mi è caro etendere il saluto a
tutti i bambini che hanno ricevuto o riceveranno il Battesimo. Ognuno di voi sa
la data del proprio Battesimo? Domandatela ai genitori e ogni anno festeggiare
quella data, è il compleanno della fede", dice il Papa.
"Non dimentichiamo i nostri fratelli e sorelle
ucraine, soffrono tanto per questa guerra, senza luce e caldo, per favore non
dimentichiamoli. Oggi penso alla mamme delle vittime della guerra dei soldati.
Penso alle mamme ucraine e alle mamme russe, che hanno perso i figli
soldati", infine l'ultimo pensiero del Pontefice. Aci 8
Vaticano, gli occhi sul «Conclave». Il fronte dei tradizionalisti per
opporsi a Francesco
Il malcontento verso il Papa e le mosse dopo la morte di
Ratzinger - di Massimo Franco
«Se in Conclave sarà eletto un altro Bergoglio, per la
Chiesa sarà una tragedia...». Il funerale del papa emerito Benedetto non era
stato ancora celebrato, quando uno dei cardinali tradizionalisti più in vista
ha iniziato il tamtam della guerra di logoramento con Francesco. Dal 31
dicembre, giorno della scomparsa di Joseph Ratzinger, il tema non sembra quello
di come raccordarsi col pontefice argentino alla ricerca di una ricucitura. Su
questo, le speranze ma anche la voglia di una tregua appaiono esili. La vera
questione, per i suoi avversari, è come impedire che Jorge Mario Bergoglio
riesca a condizionare il prossimo Conclave.
Le bordate sorprendenti arrivate contro Francesco dal
segretario personale di Ratzinger e prefetto della Casa pontificia, monsignor
Georg Gaenswein, sono state viste come l’inizio di una fase apertamente
conflittuale. Di certo, riflettono il risentimento di una persona che si è
sentita umiliata e costretta a tacere a lungo tra le mura del Monastero per non
dispiacere a Benedetto. Ma tra gli avversari di Francesco le sue uscite sono
state accolte con una miscela di sorpresa e di imbarazzo. Ne sono in arrivo
altre, però.
È in uscita un libro-intervista dell’ex custode della
dottrina cattolica, il cardinale Gerhard Muller, con la vaticanista Franca
Giansoldati, intitolato «In buona fede», che si preannuncia corposo e profondo
nelle critiche al papato argentino. Muller era stato indicato come la
personalità su cui puntavano i tradizionalisti. Ma ha sempre rifiutato di
schierarsi contro Francesco: pur attaccando duramente i suoi consiglieri e
definendo il Monastero dove ha vissuto per quasi dieci anni Benedetto «il luogo
dove vanno a curarsi le persone ferite da Francesco. E sono molte...».
Ma questi «feriti» mostrano quanto in realtà il
cattolicesimo ortodosso sia esasperato, tutt’altro che compatto, e non ancora
pronto a offrire un’alternativa. Per questo ogni mossa compiuta a Casa Santa
Marta mette in agitazione una porzione non piccola dell’episcopato mondiale che
da anni mugugna per le decisioni del papa. L’accusa di fondo è di avere fatto
imboccare alla Chiesa una strisciante deriva «protestante»; di nutrire un
pregiudizio sudamericano contro i «gringos»; di preparare un Conclave
scegliendo solo cardinali fedeli alla sua linea; e di avere stipulato «un patto
col diavolo» per l’accordo segreto con la Cina di Xi Jinping. Eppure
l’altroieri Francesco ha ricevuto il cardinale emerito di Hong Kong, Joseph
Zen, che era stato arrestato nel maggio scorso e poi rilasciato su cauzione
dalle autorità cinesi.
A questo si aggiungono l’irritazione per il «no» alla
messa in latino, alla quale ha dato voce monsignor Gaenswein, e per il modo in
cui il papa ha accolto a Roma il presidente degli Usa, Joe Biden, inviso
all’episcopato del suo Paese per le posizioni morbide sull’aborto. «Bergoglio
sta piantando le sue bandierine a ogni nomina cardinalizia», è l’accusa. Nel
suo pontificato, fino all’agosto del 2022 ha nominato 113 cardinali, di cui 83
elettori su un totale di 132 elettori. In realtà, ogni elezione papale dimostra
come le dinamiche che scattano una volta entrati nella Cappella Sistina
sfuggano a qualunque piano preventivo. Si avvertono dunque in queste
affermazioni soprattutto la diffidenza e una certa prevenzione contro
Francesco; e magari la consapevolezza dei cosiddetti «ortodossi» di non avere
una candidatura unitaria e forte da opporre a quella dei cosiddetti
«progressisti».
Si scruta il panorama del Collegio cardinalizio, alla
ricerca di alleanze trasversali tra gli scontenti di Francesco, presenti anche
tra i bergogliani. In questo dibattito opaco e sottotraccia si inseriscono le
voci sulla possibile scelta di un italiano. «Francesco tende a escludere che
possa accadere, a meno che non si tratti di Matteo Zuppi», presidente della Cei
e arcivescovo di Bologna, spiegano nelle alte sfere vaticane. Sarebbe freddo,
invece, sul segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin. Ma è indicativo
che dal fronte conservatore si additi «la mafia di San Gallo», un gruppo di
cardinali progressisti, come regista dell’elezione di Bergoglio nel 2013. E
adesso si indichi «la lobby di Trastevere», alludendo alla Comunità di
sant’Egidio che ha sede nel quartiere romano e da cui proviene Zuppi.
E pazienza se il presidente della Cei ha fin dall’inizio
cercato di superare le divisioni e unire le varie componenti dell’episcopato.
Sono veleni che fluiscono mentre sta per riaprirsi il processo controverso nei
confronti, tra gli altri, del cardinale Giovanni Angelo Becciu: un’onda di
fango soprattutto sulla nomenklatura italiana. Di fatto, anche quella vicenda
oscura rientrerà nel «Conclave senza Conclave» che il fronte tradizionalista, e
non solo, ha intensificato dopo la morte di Benedetto. E le truppe
ecclesiastiche si schierano. Anzi, alcune sono già schierate con e contro
Francesco, e contro qualunque candidatura associata al suo nome: a cominciare
dai cardinali degli Stati uniti.
I segnali che arrivano da oltre Atlantico sono negativi.
Dal 15 novembre scorso è stato eletto presidente dei vescovi monsignor Timothy
Broglio, ex segretario di un roccioso conservatore come il cardinale Angelo
Sodano, scomparso lo scorso anno, «primo ministro» di Giovanni Paolo II.
Broglio, ordinario militare per gli Stati Uniti d’America dal novembre del
2007, è passato per Roma poche settimane fa. E avrebbe descritto una situazione
preoccupante per Francesco, al quale sarebbe ostile circa il novanta per cento
dei vescovi; sebbene Broglio abbia criticato Gaenswein per avere attaccato il
papa sui mass media.
Tra l’altro, avrebbe ricordato ai suoi interlocutori
vaticani un episodio del 2016 a Cracovia, alla Festa mondiale della gioventù.
Monsignor Broglio era in fila per presentarsi a Bergoglio. E quando spiegò che
era l’ordinario militare americano, Francesco avrebbe commentato in modo assai
poco diplomatico gli interventi delle forze armate statunitensi in alcuni Paesi
poveri: parole che sono state riferite a conferma delle distanze culturali tra
pontefice argentino e «yankee». È vero che in termini numerici i cardinali
nordamericani non sono molti. Ma hanno dietro di sé una potenza finanziaria che
dalla II Guerra Mondiale ha nutrito per decenni le casse del Vaticano, oggi
esangui. CdS 8
“In Ecclesiarum Communione”: riorganizzato il Vicariato di Roma nel segno
della collegialità
Pubblicata il 6 gennaio la Costituzione apostolica “In
Ecclesiarum Communione” che sostituisce la “Ecclesia in Urbe” di Giovanni Paolo
II del 1988. Sarà in vigore dal 31 gennaio. Rafforzato il ruolo del Consiglio
episcopale, nascono due organismi di vigilanza per finanze e abusi – di
Gigliola Alfaro
Una maggiore collegialità e, al contempo, una maggiore
presenza del Papa, come vescovo di Roma, in ogni decisione pastorale,
amministrativa ed economica di rilievo della diocesi di Roma, dove sarà sempre
il Papa a presiedere il Consiglio episcopale, “organo primo della sinodalità”,
e dove cessano o mutano le attività di alcuni uffici del Vicariato. Scompaiono
incarichi come quello del prelato segretario generale, nascono nuovi organismi
di vigilanza su finanze e abusi e si fissa a cinque anni il mandato del
personale direttivo, prorogabile solo per un altro quinquennio. Tutte novità
introdotte da Papa Francesco nella “In Ecclesiarum Communione”, la nuova
Costituzione apostolica pubblicata venerdì 6 gennaio, che abroga la precedente
“Ecclesia in Urbe” del 1988 di Giovanni Paolo II e riorganizza l’ordinamento
del Vicariato. In vigore dal prossimo 31 gennaio, la Costituzione si apre con
un proemio in cui Francesco traccia una profonda riflessione sulla diocesi di
Roma, di cui ricorda l’importanza dal punto di vista ecclesiale, ma anche le
difficoltà della gente che la abita e le attività a favore delle fasce sociali
più fragili. La seconda parte riporta, invece, l’elenco dei 45 articoli.
“Mentre ricordiamo i sessant’anni dall’inizio del
Concilio ecumenico vaticano II, sentiamo con particolare urgenza la chiamata
alla conversione missionaria di tutta la Chiesa, accompagnata da una più viva
consapevolezza della sua dimensione costitutivamente sinodale – scrive il Papa
nel Proemio -. Per rianimare la missione, nel primato della carità e
nell’annuncio della misericordia divina, vanno sostenute e promosse, in
sinergia, la collegialità episcopale e l’attiva partecipazione del popolo dei
battezzati”. Il Pontefice chiarisce: “Sogno una trasformazione missionaria che
coinvolga integralmente le persone e le comunità, senza nascondersi o cercare
conforto nell’astrattezza delle idee. Si tratta, dunque, di ‘porre in atto i
mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e
missionaria, che non può lasciare le cose come stanno'”. Per il Santo Padre,
“la Chiesa perde la sua credibilità quando viene riempita da ciò che non è
essenziale alla sua missione o, peggio, quando i suoi membri, talvolta anche
coloro che sono investiti di autorità ministeriale, sono motivo di scandalo con
i loro comportamenti infedeli al Vangelo. Questo non è un problema solo per la
Chiesa: lo è anche per coloro che la Chiesa, popolo di Dio, è chiamata a
servire con l’annuncio del Vangelo e la testimonianza della carità. Solo nella
totale donazione di sé a Cristo per un servizio alla salvezza del mondo la
Chiesa rinnova la sua fedeltà”. A Roma, come nelle altre Chiese particolari,
“bisogna continuare ad ascoltare la voce dello Spirito Santo che si manifesta
anche oltre i confini dell’appartenenza ecclesiale e religiosa, curando uno
stile sinceramente ospitale, animati dalla spinta di chi esce a cercare i tanti
esiliati dalla Chiesa, gli invisibili e i senza parola della società”.
Nella “In Ecclesiarum Communione” il cardinale vicario,
come già stabilito dalla “Ecclesia in Urbe”, continua ad esercitare “il
ministero episcopale di magistero, santificazione e governo pastorale per la
diocesi di Roma con potestà ordinaria vicaria” nei termini stabiliti dal Papa.
È anche “giudice ordinario della diocesi di Roma”. “L’esteso impegno che
richiede il governo della Chiesa universale mi rende necessario un aiuto nella
cura della diocesi di Roma. Per questo motivo nomino un cardinale come mio
ausiliare e vicario generale”, chiarisce il Pontefice. “Il cardinale vicario –
precisa Francesco – provvederà a informarmi periodicamente e ogniqualvolta lo
riterrà necessario circa l’attività pastorale e la vita della diocesi. In
particolare, non intraprenderà iniziative importanti o eccedenti l’ordinaria
amministrazione senza aver prima a me riferito”.
Nella nuova Costituzione, si rafforza il ruolo del
Consiglio episcopale, che diventa “organo primo della Sinodalità” e “luogo
apicale del discernimento e delle decisioni pastorali e amministrative”.
Sarà il Papa a presiederlo quando si riunirà almeno tre
volte al mese: “Mi deve essere inviato quanto prima l’ordine del giorno di ogni
riunione”, stabilisce il Pontefice. Allo stesso modo, “delle riunioni del
Consiglio episcopale viene redatto un verbale dal vescovo ausiliare con
funzione di segretario, designato all’inizio del Consiglio, che mi deve essere
inviato, e da conservare in apposita sezione dell’Archivio generale diocesano”.
“Il cardinale vicario – prosegue il Santo Padre – nella sua funzione di
coordinamento della pastorale diocesana agisce sempre in comunione con il
Consiglio Episcopale, per cui si discosti dal suo parere concorde solo dopo
aver valutato la questione con me”. Sempre il Consiglio episcopale dovrà
esprimere il suo consenso alla nomina di cappellani, rettori delle chiese e
responsabili dei servizi pastorali. Spetta ad esso inoltre l’elaborazione e la
verifica del programma pastorale diocesano, nonché la formulazione delle linee
direttive dell’azione pastorale, che però, scrive il Papa, “debbono essere
approvate dal cardinale vicario e da me ratificate”. Deve essere approvato dal
Papa anche il regolamento che regge il Consiglio diocesano per gli affari
economici, organo che coadiuva il Pontefice nell’ambito dell’amministrazione
economica della diocesi, indicando anche “criteri di trasparenza nella gestione
dei fondi”.
Sulla stessa scia, presso il Vicariato di Roma viene
istituita come organo di controllo interno, una Commissione indipendente di
vigilanza con un proprio Regolamento approvato dal Papa, composta da sei
membri, nominati sempre dal Pontefice, “di attestata competenza legale, civile
e canonica, finanziaria e amministrativa, al di fuori di possibili conflitti di
interesse, per la durata di un triennio”. Una volta l’anno deve relazionare al
Santo Padre dopo essersi riunita a cadenza mensile e “aver verificato
l’andamento amministrativo, economico e di lavoro del Vicariato”.
Con la nuova Costituzione cambia il ruolo del vicegerente
che il Papa, contestualmente al documento, ha nominato nella persona del
vescovo ausiliare Baldassare Reina.In base al nuovo ordinamento, il vicegerente
di fatto assorbe i compiti del “prelato segretario”, normati nell’articolo 18
della precedente Costituzione, la cui figura non compare mai nel nuovo
documento. Il vicegerente “coadiuva il cardinale vicario”, “coordina
l’amministrazione interna della Curia diocesana”, “dirige gli uffici che
compongono il Servizio della Segreteria generale del Vicariato”. Egli ha anche
“il compito di moderare gli Uffici del Vicariato nell’esercizio delle loro
funzioni” e “curare che i dipendenti del Vicariato svolgano fedelmente i
compiti loro affidati”. Sempre al vicegerente, in un Decreto pubblicato il 6
gennaio, il Papa assegna la funzione di preposto del Palazzo apostolico
lateranense e il compito di “verificare e sottopormi gli eventuali nuovi
statuti e i regolamenti” di Opera Romana Pellegrinaggi, Caritas, Opera Romana
Preservazione della Fede, Fondazioni, Confraternite, Arciconfraternite ed enti
collegati al Vicariato. Quanto ai sette vescovi ausiliari, il Papa nella
Costituzione scrive: “Sono miei vicari episcopali e hanno potestà ordinaria
vicaria nel Settore territoriale per cui sono stati da me nominati”.
Nuove regole anche per la procedura di scelta dei nuovi
parroci, dei quali “debbono essere valutate anche le caratteristiche
spirituali, psicologiche, intellettuali, pastorali e l’esperienza compiuta
nell’eventuale precedente servizio”. Nel caso dei candidati più giovani, si
dovrà “raccogliere il parere dei formatori” e “dei vescovi che ne conoscono la
personalità e le esperienze pregresse”. “Il cardinale vicario, compiuto l’iter
– chiarisce il Papa – mi sottopone per l’eventuale nomina i candidati
all’ufficio di parroco, e nomina i viceparroci”. Sempre al Papa il vicario, in
vista di ordinazioni diaconali e presbiterali, dovrà sottoporre il profilo dei
“candidati per l’eventuale ammissione agli Ordini sacri, ottenuto il consenso
del Consiglio episcopale”.
Infine, nell’organigramma generale, si aggiungono nuovi
uffici (ad esempio, quello di Pastorale carceraria), scompare il Tribunale
d’appello, cosicché “le cause che erano devolute al Tribunale di appello del
Vicariato di Roma sono trattate e decise dal Tribunale della Rota Romana”, e
nasce il Servizio per la tutela di minori e persone vulnerabili, che riferisce
al Consiglio episcopale tramite il vescovo ausiliare nominato dal Papa. Sir 7
Il Papa dopo le parole di padre Georg: “False notizie e tradimenti, ma Dio
è nel silenzio”
I Magi portano in processione i loro doni e il corteo
della befana fa divertire i bambini. Se il clima dell'Epifania investe anche
San Pietro e dintorni, all'interno delle mura leonine sono forti le tensioni
per gli sfoghi del segretario di Ratzinger, monsignor Georg Gaenswein.
L'arcivescovo tedesco nelle ultime ore non ha fatto tanti giri di parole e ha
puntato dritto alcune critiche contro Papa Francesco. E oggi il Pontefice,
all'interno dell'omelia della messa, sembra avere inserito un paio di risposte
che non possono non fare pensare ai fatti delle ultime ore. «Adoriamo Dio e non
il nostro io; adoriamo Dio e non i falsi idoli che ci seducono col fascino del
prestigio e del potere, con il fascino delle false notizie», ha detto il Papa.
Poi parlando della fede ha detto che significa anche affrontare «sofferenze che
scavano nella carne». «In questi momenti si levano dal nostro cuore quelle
domande insopprimibili, che ci aprono alla ricerca di Dio» e tra queste:
«Dov'è quell'amore che non passa, che non tramonta, che non si spezza neanche
dinanzi alle fragilità, ai fallimenti e ai tradimenti?». All'Angelus ribadisce:
«Il Signore s'incontra così: nell'umiltà e nel silenzio».
E oggi, di fronte ad un mondo che si chiede se Francesco
possa replicare la scelta fatta da Benedetto e fare un passo indietro,
Bergoglio manda invece un segnale chiaro riformando la diocesi di Roma. Che poi
è la 'sua' diocesi e quella più vicina al Vaticano e che per Francesco deve
essere più «missionaria» e più legata a lui. Mette dunque nero su bianco
che il cardinale vicario, oggi Angelo De Donatis, «non intraprenderà iniziative
importanti o eccedenti l'ordinaria amministrazione senza aver prima a me
riferito». Una stretta dunque nel governo della Chiesa, a partire da Roma, che
potrebbe dare l'idea del nuovo corso che Francesco intende intraprendere. E' un
testo normativo nel quale Bergoglio non rinuncia però a fare dei rilievi contro
chi esce dal seminato: «La Chiesa perde la sua credibilità quando viene
riempita da ciò che non è essenziale alla sua missione o, peggio, quando i suoi
membri, talvolta anche coloro che sono investiti di autorità ministeriale, sono
motivo di scandalo con i loro comportamenti infedeli al Vangelo». Per Roma vede
un futuro in cui le decisioni più importanti siano sotto il suo stretto
controllo. In controluce si legge anche una gestione non ottimale, da parte del
Vicariato, del caso del gesuita Marko Rupnik, accusato di abusi da diverse
suore.
E' invece sempre nell'omelia della messa per l'Epifania,
celebrata nella basilica vaticana, che ribadisce come non ci sia spazio per
quella parte dei cattolici che guardano più alla forma che alla sostanza e che
non si mettono in discussione: «La fede non cresce se rimane statica; non
possiamo rinchiuderla in qualche devozione personale o confinarla nelle mura
delle chiese, ma occorre portarla fuori, viverla in costante cammino verso Dio
e verso i fratelli». Suona anche questa come una risposta indiretta ad un'altra
delle accuse di mons. Gaenswein, quella di avere «spezzato il cuore» a
Benedetto XVI quando decise di limitare il ricorso alla messa in latino. LS 7
Leggere la guerra in Ucraina con le lenti della dottrina sociale
Si chiama “Se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace”
il nuovo libro del vescovo Mario Toso. Un percorso di dottrina sociale per
comprendere quali sono le linee cristiane di costruzione della pace - Di Andrea
Gagliarducci
FAENZA. “Se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace”. È
già nel titolo il senso dell’ultimo lavoro del vescovo Mario Toso di
Faenza-Modigliana, già segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e
della Pace ed esperto della dottrina sociale della Chiesa. La guerra in
Ucraina, infatti, ha suscitato nuovi interrogativi, tra cui spicca quello di
trovare un modo cristiano di approcciare non solo la guerra, ma soprattutto, la
costruzione di una pace che sia duratura e giusta. Con una nota: che la
legittima difesa non porta escalation nel conflitto, semmai contiene, e dunque
non solo questa legittima difesa è necessaria, ma è anche parte di quella che
sarà la costruzione di pace.
Il vescovo Toso parla di una “etica della pace” globale,
che emerge a partire dalla costituzione conciliare Gaudium et Spes e che porta
a “nel riconoscere come accettabili sia il ricorso alla forza per la legittima
difesa individuale e collettiva sia l’azione non violenta attiva e creatrice”.
Sono opzioni però che hanno “condizioni molto strette che
ne definiscono la legittimità morale. In breve, la legittima difesa dev’essere
al servizio della giustizia, nella coerenza dell’uso di mezzi omogenei col
fine, fintantoché l’azione non violenta non potrà abolire il diritto di ogni
cittadino, specialmente dei deboli e degli innocenti, d’essere protetti dallo
Stato a mezzo della forza se necessario”.
Ma a questa dottrina, Giovanni Paolo II arrivò
addirittura a parlare di ingerenza umanitaria, nota il vescovo Toso,
sorpassando “il diritto alla non-ingerenza negli affari interni di uno Stato”.
Come applicare tutto questo alla situazione odierna in
Ucraina? La dottrina sociale riconosce un diritto alla legittima difesa, e
anche l’invio di armi può essere considerato legittimo. Ma – argomenta il
vescovo Toso – “la vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre
alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione del pensiero, un modo
diverso di governare il mondo ormai globalizzato, un modo diverso di impostare
le relazioni internazionali. Occorre abbracciare una cultura della cura
dell’altro. Con la guerra nessuno vince. Con la guerra tutto si perde, tutto.
Occorre sconfiggere la guerra. La soluzione è lavorare insieme per la pace,
fare delle armi, come dice la Bibbia, strumenti per la pace”.
Da qui, la necessità di costruire istituzioni di pace,
rispettando un diritto internazionale che “va inscritto in un più ampio ordine
morale e sociale, che abbraccia sia le relazioni fra singole persone, sia
quelle fra comunità di persone, sino a formare l’ordine della famiglia umana,
comprensivo delle comunità politiche”.
E con la guerra in Ucraina “i basilari criteri del
diritto internazionale sono stati violati non solo per i molti cadaveri
ritrovati nelle «fosse comuni» (e il modo con cui sono stati rinvenuti), ma
anche per i corridoi umanitari non garantiti - o lasciati credere garantiti e
poi intenzionalmente violati - oppure non concessi, come pure per il
bombardamento di edifici ospedalieri e scolastici”.
Così, l’autorità pubblica non può sfuggire eticamente al
“diritto alla legittima difesa” del loro popolo, che include, appunto “il
diritto a essere sussidiati nell’opera difensiva, che diviene cogente perché le
risorse proprie sono insufficienti, mentre quelle degli Stati vicini
abbondano”.
Scrive il vescovo Toso: “La legittima difesa non alimenta
il conflitto, innescando una escalation militare, come alcuni pensano. Al
contrario, invece, lo contiene (come può) nel suo tragico dilagare. Pertanto,
non si può essere contrari all’invio di aiuti militari, con la motivazione che
così si alimenterebbe la guerra, che certo diversamente si indebolirebbe o
finirebbe, ma semplicemente per il dilagare di una situazione vicina al
genocidio, lasciando morire o ferire chi forse si poteva salvare”.
Come i cristiani possono costruire istituzioni di pace,
allora? Partendo dall’esempio della croce, che “non è propriamente apologia
della sofferenza, del sacrificio e della morte”, e dunque “abbracciandola, Gesù
la trasforma in atto d'accusa della violenza del sistema religioso-politico del
suo tempo, da cui è rifiutato e ingiustamente condannato”. Così “Gesù invita a
rinunciare alla strategia della violenza per assumere quella dell’amore attivo
e creativo. Propone la giustizia dell’amore ? una forma più alta della
giustizia, che cerca di stabilire una corrispondenza fra delitto e castigo ?,
che libera il malvagio dalla spirale della violenza e dell’iniquità”.
Da questo esempio, si deduce che “la guerra va sconfitta
predisponendo, a livello spirituale, sociale, economico, politico ed
istituzionale, tutto ciò che la previene o la rimuove”.
Il vescovo Toso fa anche delle proposte per costruire
istituzioni di pace: dalla radicale revisione delle regole del mercato globale
delle armi alla costituzione di una Agenzia Internazionale per la Gestione
degli Aiuti (AIGA), in cui far affluire, ad es., anche solo il 10% della spesa
militare globale che in un decennio potrebbe sanare le attuali diseguaglianze
strutturali; dalla revisione del trattato di non proliferazione nucleare alla
riforma dell’attuale ONU in senso più democratico. E, infine, “la revisione
trasformazionale dell’assetto delle istituzioni politico-giuridiche nate a
Bretton Woods nel 1944 (FMI, OMS, Banca Mondiale, WTO) e divenute obsolete; la
creazione di nuove istituzioni – dotate di poteri mondiali - relative alle
migrazioni (OMM), all’ambiente (OMA), all’acqua; l’universalizzazione di una
democrazia partecipativa, rappresentativa, inclusiva, deliberativa”. Aci 7
Sul sagrato di San Pietro il mondo ai funerali di Benedetto XVI
- Città del Vaticano. Nell'omelia Francesco ha citato le
parole pronunciate sulla stessa piazza da Ratzinger il giorno dell'inizio del
suo ministero petrino: "Pascere vuol dire amare, e amare vuol dire anche
essere pronti a soffrire per dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della
verità di Dio". Presenti 120 cardinali tra cui una quindicina provenienti
dall'Asia. Le spoglie tumulate nelle Grotte vaticane nella stessa tomba che fu
di Giovanni Paolo II.
La bara di legno sul sagrato della basilica di San
Pietro, sormontata dal libro dei Vangeli. È l’immagine che questa mattina ha
scandito il rito delle esequie del papa emerito Benedetto XVI, che ha guidato
la Chiesa dal 2005 al 2013, prima dei quasi dieci anni di preghiera silenziosa
nel monastero Mater Ecclesiae in Vaticano seguiti alla rinuncia al ministero
petrino. Dopo le 200mila persone che in questi giorni hanno reso omaggio alla
salma, altre 50mila hanno gremito oggi la piazza.
Papa Francesco ha presieduto il rito, coadiuvato
dal decano del Sacro Collegio, il card. Giovanni Battista Re. Accanto a loro
ben 120 i cardinali giunti da tutto il mondo, una quindicina quelli provenienti
dall’Asia tra cui il novantenne vescovo emerito di Hong Kong Joseph Zen
ze-kiun, il patriarca dei caldei Luis Sako e quello dei maroniti Bechara Rai,
gli arcivescovi maggiori delle Chiese siro-malabarese e siro-malankarese, il
card. Felipe Neri Ferrao arcivescovo di Goa e presidente della Conferenza dei
vescovi di rito latino dell’India, il giovane cardinale della Mongolia Giorgio
Marengo. Folta anche la presenza di rappresentanze ecumeniche tra cui anche
quella del Patriarcato di Mosca.
Vicino al feretro hanno preso posto il segretario mons.
Georg Gänswein e le Memores Domini che in tutti questi anni sono state accanto
a Benedetto XVI. In prima fila anche le due delegazioni ufficiali dello Stato
italiano e di quello tedesco, la nazionalità d'origine del papa emerito.
Nell’omelia papa Francesco - traendo spunto dalle parole
di Gesù sulla croce “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” - ha
invitato a riconoscere nella vita e nella morte di Joseph Ratzinger il
“continuo consegnarsi nelle mani del Padre suo. Mani di perdono e di
compassione, di guarigione e di misericordia, mani di unzione e benedizione,
che lo spinsero a consegnarsi anche nelle mani dei suoi fratelli”. Del pastore
che imita Gesù, Francesco ha sottolineato i tratti della “dedizione grata di
servizio al Signore e al suo popolo”, della “dedizione orante, che si plasma e
si affina silenziosamente tra i crocevia e le contraddizioni che deve
affrontare”, della “dedizione sostenuta dalla consolazione dello Spirito, che
sempre lo precede nella missione”.
Nell’omelia centrale è stata la citazione di un brano
delle parole che Benedetto XVI su questa stessa piazza pronunciò il 24 aprile
2005, durante la Messa di inizio pontificato: “Pascere - diceva Joseph
Ratzinger, da pochi giorni eletto al soglio di Pietro - vuol dire amare, e
amare vuol dire anche essere pronti a soffrire. Amare significa: dare alle
pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il
nutrimento della sua presenza”.
“Anche noi, saldamente legati alle ultime parole del
Signore e alla testimonianza che marcò la sua vita - ha aggiunto Francesco -
vogliamo, come comunità ecclesiale, seguire le sue orme e affidare il nostro fratello
alle mani del Padre: che queste mani di misericordia trovino la sua lampada
accesa con l’olio del Vangelo, che egli ha sparso e testimoniato durante la sua
vita”.
“Il popolo fedele di Dio, riunito, accompagna e affida la
vita di chi è stato suo pastore - ha detto ancora il pontefice -. Come le donne
del Vangelo al sepolcro, siamo qui con il profumo della gratitudine e
l’unguento della speranza per dimostrargli, ancora una volta, l’amore che non
si perde; vogliamo farlo con la stessa unzione, sapienza, delicatezza e
dedizione che egli ha saputo elargire nel corso degli anni. Vogliamo dire
insieme: ‘Padre, nelle tue mani consegniamo il suo spirito’. Benedetto, fedele
amico dello Sposo - ha concluso papa Francesco - che la tua gioia sia perfetta
nell’udire definitivamente e per sempre la sua voce”.
Al termine del rito funebre, papa Francesco ha sostato in
preghiera toccando con le mani il feretro di Benedetto XVI per la benedizione,
mentre dalla folla in piazza San Pietro (come già era accaduto per Giovanni
Paolo II) si è levato il grido “Santo subito”. Precedute dalla processione dei
cardinali, le spoglie sono poi entrate nella basilica dove - in forma privata -
sono state tumulate nelle Grotte vaticane. Per sua espressa volontà riposeranno
nella stessa tomba che - fino alla traslazione avvenuta in occasione della
beatificazione nel 2011 - è stata la sepoltura di san Giovanni Paolo II.
AsiaNews 5
Papa Francesco, la pace è un cantiere sempre aperto che deve essere
radicato nel Vangelo
L'udienza del Papa al Sermig, con l'Arsenale della Pace -
Di Angela Ambrogetti
CITTÀ DEL VATICANO. "Che cosa si “fabbrica”
nell’Arsenale della Pace? Che cosa si costruisce? Si fabbricano artigianalmente
le armi della pace, che sono l’incontro, il dialogo, l’accoglienza. E in che
modo si fabbricano? Attraverso l’esperienza" . Papa Francesco lo ha detto
oggi ricevendo i membri del Servizio Missionario Giovani, Sermig, la realtà
associativa fondata a Torino nel 1964. Il ha salutato il fondatore Ernesto
Olivero e ricordato la storia del Sermig: "Nella storia del Sermig ci sono
tanti avvenimenti, tanti gesti che si possono leggere come
piccoli e grandi segni di Vangelo vivo. Ma tra tutti ce
n’è uno che, in questo momento storico, risalta con una forza straordinaria. Mi
riferisco alla trasformazione dell’Arsenale Militare di Torino nell’“Arsenale
della Pace”. Questo è un fatto che parla da solo. È un messaggio, purtroppo
drammaticamente attuale".
E, prosegue il Papa, "mentre i signori della guerra
costringono tanti giovani a combattere i loro fratelli e sorelle, ci vogliono
luoghi in cui si possa sperimentare la fraternità" e quindi dice Francesco
"non stancatevi mai di costruire l’Arsenale della Pace! Anche se l’opera
può sembrare conclusa, in realtà si tratta di un cantiere sempre aperto"
spiega Francesco "e i cantieri vanno avanti se chi ci lavora si lascia
lavorare dentro dallo Spirito. Voi mi direte: e chi non crede?, e chi non è
cristiano? Questo a noi può sembrare un problema, ma certo non lo è per Dio.
Lui, il suo Spirito, parla al cuore di chiunque sappia ascoltare. Ogni uomo e
donna di buona volontà può lavorare negli Arsenali della pace, della speranza,
dell’incontro e dell’armonia".
Serve però un cuore "ben radicato nel Vangelo. Ci
vuole una comunità di fede e di preghiera che tiene acceso il fuoco per tutti".
E conclude Francesco: "qui si vede anche il senso di una comunità di
persone che abbracciano integralmente la vocazione e la missione della
fraternità e la portano avanti in maniera stabile". Aci 7
Il libro del segretario particolare di Benedetto XVI: «Il
suo successore fece di me un prefetto dimezzato, nacquero due tifoserie sui
pontefici» - di Virginia Piccolillo
Si è avvicinato lentamente. Ha aiutato a sistemare il
Vangelo sulla bara. Si è inginocchiato. E, prima di andar via, ha baciato il
legno di cipresso.
Lo ha dato così monsignor Georg Gänswein l’ultimo saluto
a Joseph Aloisius Ratzinger: per tutti il Papa emerito, per lui l’uomo con cui
ha condiviso le amarezze della vita dopo il ritiro.
Lui, che nel lontano 2003 era stato scelto come
segretario personale dall’allora cardinal Ratzinger,diventa ora la «famiglia»
del Papa emerito assieme alle quattro memores domini che ieri, in prima fila,
visibilmente commosse, hanno presenziato alla cerimonia fino alla parte più
privata della tumulazione.
Ma Gänswein era anche il detentore dei suoi segreti che
ora nel libro in uscita Nient’altro che la Verità (Piemme) annuncia di voler,
in parte, distruggere: «La fine è segnata». «I fogli privati di ogni tipo
devono essere distrutti. Questo vale senza eccezioni e senza scappatoie», gli
avrebbe ordinato il papa emerito.
Aggiungendo «precise istruzioni, con indicazioni di
consegna che mi sento in coscienza obbligato a rispettare, relative alla sua
biblioteca, ai manoscritti dei suoi libri, alla documentazione relativa al
Concilio e alla corrispondenza».
Il cardinale esclude che fra questi ci sia anche un
dossier su Emanuela Orlandi: «Non è mai esistito».
E ora? Gänswein si definisce un «prefetto dimezzato»
alludendo al congedo ricevuto da Papa Bergoglio: «Mi disse: lei rimane prefetto
ma da domani non torni al lavoro». Rivela il vano tentativo di Ratzinger di
intercedere in suo favore. E la battuta del Papa emerito: «Penso che Papa
Francesco non si fidi più di me e desideri che lei mi faccia da custode...».
E se adesso appare sempre di più come punto di
riferimento per la corrente conservatrice, quella più in contrasto con Papa
Francesco, lui stesso descrive questo scenario: il problema, racconta nel
libro, non è stato «tanto quello della coesistenza dei due papi, uno regnante e
uno emerito, quanto la nascita e lo sviluppo di due tifoserie».
Col tempo, dice, «ci si rese conto sempre di più che
effettivamente c’erano due visioni della Chiesa» e che «queste due tifoserie»
creavano una «tensione» spesso fondandosi su affermazioni o atteggiamenti di
Francesco e Benedetto «talvolta con invenzioni».
Una faglia che si allarga a ogni dichiarazione di padre
Georg: l’ultima sul «cuore spezzato» di Ratzinger per lo stop di Francesco alla
messa in latino. E si fa più profonda anche grazie a blog e siti. Fra questi
quello descritto in sintonia con Gänswein è Silere non possum che ieri
titolava: «Saltano gli altarini sul non detto di questi anni». Rimproverava a
Bergoglio di aver «sempre temuto» il predecessore e aver voluto per lui «un
funerale come ogni altro cardinale». E precisava che «nell’ovile cattolico ci
sono anche quelli che non vogliono una chiesa alla “volemose bene”, ma una
seria istituzione di Cristo che vuole la salvezza dell’anima».
Nel libro padre Georg ripercorre le tappe di quel
crescendo di incomprensioni. A partire dal «no» di Francesco all’Appartamento
papale.
«Di solito dormo come un sasso. Ma nel pensare
all’Appartamento non ho chiuso occhio», gli disse Bergoglio. E a un gruppo di
studenti delle scuole gesuite spiegò: «Per me è un problema di personalità. Ho
bisogno di vivere tra la gente e se vivessi solo, forse un po’ isolato, non mi
farebbe bene». Gänswein stesso - nel libro intervista scritto con Saverio Gaeta
- riferisce di aver sintetizzato a un professore che gli chiese come mai non
andasse a vivere lì con: «Motivi psichiatrici». Ricorda come lui provò a far
notare che «per tutti quelli che passavano di sera davanti alla Basilica
vaticana era un punto di riferimento la luce accesa nell’Appartamento
pontificio e che ci sarebbe stata sicuramente nostalgia se si fosse modificata
la residenza». «Però ebbi l’impressione che le migliaia di chilometri di
distanza da Roma non lo avevano reso partecipe di tale sensibilità», conclude.
In un altro passo dell’intervista , assicura che fra i
due Papi il rapporto era «affettuoso», con scambi di vino e dulce de leche
argentini e dolci tirolesi delle memores e limoncello.
Tuttavia, morto Ratzinger le insidie per Francesco non
mancheranno. Pure a causa delle voci di sue possibili dimissioni per le
condizioni di salute, alimentate anche strumentalmente.
La prima sfida sarà gestire le richieste dei fedelissimi
di Benedetto XVI di una procedura fast di beatificazione, già manifestate ieri
in piazza con lo striscione «Santo subito».
Gänswein scrive: «Personalmente non ho dubbi sulla sua
santità, però, ben conoscendo anche la sensibilità espressami da Benedetto XVI,
non mi permetterò di fare alcun passo per accelerare il processo canonico». CdS
6
Papa Francesco: Epifania, “la fede non cresce se rimane statica”
Papa Francesco: Epifania, “il cammino della fede inizia
quando facciamo spazio all’inquietudine”
“L’inquietudine di
chi si interroga” è quella che vivono i Magi, che “abitati da una struggente
nostalgia di infinito” scrutano “il cielo e si lasciano stupire dal fulgore di
una stella, rappresentando così la tensione al trascendente che anima il
cammino delle civiltà e l’incessante ricerca del nostro cuore”. Lo ha detto il
Papa nell’omelia della messa per la Solennità dell’Epifania del Signore
nella Basilica di San Pietro. “Il cammino della fede inizia quando, con la
grazia di Dio, facciamo spazio all’inquietudine che ci tiene desti; quando ci
lasciamo interrogare, quando non ci accontentiamo della tranquillità delle nostre
abitudini – ha proseguito -, ma ci mettiamo in gioco nelle sfide di ogni
giorno; quando smettiamo di conservarci in uno spazio neutrale e decidiamo di
abitare gli spazi scomodi della vita, fatti di relazioni con gli altri, di
sorprese, di imprevisti, di progetti da portare avanti, di sogni da realizzare,
di paure da affrontare, di sofferenze che scavano nella carne”. Ogni
giorno, ha aggiunto Francesco, il clima che respiriamo offre dei “tranquillanti
dell’anima”, dei “surrogati per sedare la nostra inquietudine e spegnere queste
domande: dai prodotti del consumismo alle seduzioni del piacere, dai dibattiti
spettacolarizzati fino all’idolatria del benessere; tutto sembra dirci: non
pensare troppo, lascia fare, goditi la vita!”. Per il Papa, “spesso cerchiamo
di sistemare il cuore nella cassaforte della comodità, ma se i Magi avessero
fatto così non avrebbero mai incontrato il Signore. Dio, invece, abita le
nostre domande inquiete”.
“Il secondo luogo
in cui possiamo incontrare il Signore è il rischio del cammino”.
Così ancora il Papa nell’omelia della messa per la Solennità
dell’Epifania. I Magi “non si fermano a guardare il cielo e a contemplare
la luce della stella, ma si avventurano in un viaggio rischioso che non prevede
in anticipo strade sicure e mappe definite. Vogliono scoprire chi è il Re dei
Giudei, dov’è nato, dove possono trovarlo. Per questo chiedono a Erode, il
quale a sua volta convoca i capi del popolo e gli scribi che interrogano le
Scritture. I Magi sono in cammino: la maggior parte dei verbi che descrivono le
loro azioni sono verbi di movimento”. “Così è anche per la nostra fede – ha
osservato Francesco -: senza un cammino continuo e un dialogo costante con il
Signore, senza ascolto della Parola, senza perseveranza, non può crescere. Non
basta qualche idea su Dio e qualche preghiera che acquieta la coscienza;
occorre farsi discepoli alla sequela di Gesù e del suo Vangelo, parlare con Lui
di tutto nella preghiera, cercarlo nelle situazioni quotidiane e nel volto dei
fratelli. Da Abramo che si mise in viaggio per una terra ignota fino ai Magi
che si muovono dietro la stella, la fede è un cammino, un pellegrinaggio, una
storia di partenze e di ripartenze. Ricordiamoci questo: la fede non cresce se
rimane statica; non possiamo rinchiuderla in qualche devozione personale o
confinarla nelle mura delle chiese, ma occorre portarla fuori, viverla in
costante cammino verso Dio e verso i fratelli”.
“Il terzo luogo in cui incontrare il Signore è lo stupore
dell’adorazione”. Nella conclusione dell’omelia Papa Francesco ha
ricordato che “a nulla serve attivarci pastoralmente se non mettiamo Gesù
al centro, adorandolo”: “Lì impariamo a stare davanti a Dio non tanto per
chiedere o fare qualcosa, ma solo per sostare in silenzio e abbandonarci al suo
amore, per lasciarci afferrare e rigenerare dalla sua misericordia. Come i
Magi, prostriamoci, arrendiamoci a Dio nello stupore dell’adorazione. Adoriamo
Dio e non il nostro io; adoriamo Dio e non i falsi idoli che ci seducono col
fascino del prestigio e del potere; adoriamo Dio per non inchinarci davanti
alle cose che passano e alle logiche seducenti ma vuote del male”. Infine,
l’invito a non lasciare “che si spenga in noi l’inquietudine delle
domande; non arrestiamo il nostro cammino cedendo all’apatia o alla comodità;
e, incontrando il Signore, arrendiamoci allo stupore dell’adorazione”. Riccardo
Benotti, sir 6
Perché sui funerali di Ratzinger aleggiava il senso di una doppia fine
Il pontificato di Ratzinger ha mostrato le fragilità
della Chiesa, l’ingovernabilità della macchina vaticana, la fine del papato
europeo. E la Chiesa - ammalatasi della crisi europea - vive un momento di
frantumazione, e si affaccia a un futuro nebbioso - di Andrea Riccardi
Il clima dei funerali di Benedetto XVI era triste. Non
era solo la mestizia funebre.
Aumentava la sensazione la nebbia, rara a Roma. Ratzinger
è stato una personalità grande: come intellettuale e Papa. Morto — direbbe la
Bibbia — «sazio di giorni».
Eppure un senso di fine aleggiava sulla liturgia.
Francesco, con le rosse vesti del lutto papale, aveva un volto grave e non ha
nascosto le lacrime dopo il commiato.
La fine di un uomo e di un mondo. Wojtyla fu il primo
Papa non italiano dal 1553. Sembrò un salto. Ma, con Ratzinger, si vide che un
Papa europeo, polacco dell’asburgica Cracovia o bavarese, non era lontano da un
italiano (il bresciano Montini o il bergamasco Papa Giovanni). Il papato
italo-europeo era considerato capace di gestire la Chiesa universale. Dopo la
forza carismatica di Wojtyla (che, per il cardinal Martini, copriva un po’ i
problemi), il papato di Ratzinger ha invece mostrato le fragilità della Chiesa
e l’ingovernabilità della macchina vaticana.
Sia Ratzinger che Wojtyla hanno creduto alla funzione
centrale dell’Europa nell’ecumene cattolica, origine dello slancio mondiale del
Papa polacco. Questi disse drammaticamente: «Se si perde l’Europa, tanto è
perduto del cattolicesimo».
I funerali hanno mostrato la fine del papato europeo già
manifestata dall’elezione di Francesco, venuto «quasi dalla fine del mondo».
Il cattolicesimo si è ammalato della crisi europea o
forse è parte di essa. Lo mostrano i pochi praticanti, le scarse vocazioni (in
un continente che inviava missionari ovunque).
Il funerale di Ratzinger non ha mostrato la forza dei
conservatori e dei tradizionalisti. Il numero dei fedeli in piazza era
relativo. L’operazione di fare del Papa emerito un anti Francesco non funziona.
Il mondo tradizionalista non ha coesione. E poi quanti cattolici s’interessano
ai «due Papi»?
Il problema del cattolicesimo oggi è che vive nel tempo
dell’«io», il soggettivismo rapido dei social, mentre il «noi», la Chiesa o le
varie realtà sociali, si sfarinano.
Ma non ci sono due correnti nella Chiesa, bensì un
fenomeno di frantumazione e poche visioni comuni, come nella società europea.
Lo stesso ceto dirigente della Chiesa, non più centrato
su un coagulo europeo, non ha trovato nuovi equilibri. I cambiamenti — lo
insegna Montini — si fanno con una rinnovata classe dirigente.
Il funerale di Benedetto XVI era abitato dalla
stanchezza, come in Europa. La risposta dei «forti» leader sovranisti, il
polacco o l’ungherese, venuti ad omaggiare il Papa della tradizione, non è risolutiva.
Francesco, di fronte a questo scenario, non ha parlato di
storia o di futuro, limitandosi a evocative parole credenti. La sobrietà del
funerale sta nelle parole più che nel rito.
Forse il Papa l’ha fatto consapevole che l’antica Chiesa
di Roma vive una transizione verso un futuro ancora un po’ nebbioso. CdS 6
Così la Germania ha detto addio al “suo” Papa
Il 10 gennaio la messa di requiem solenne nel duomo di
Regensburg - Di Giacomo König
BONN. Alle ore 11, poco prima della fine della Messa
solenne di esequie celebrata in piazza San Pietro da Papa Francesco per il Papa
Emerito Benedetto XVI, su disposizione della Conferenza Episcopale Tedesca
(CET) le campane delle ventisette diocesi della Repubblica Federale hanno
suonato per dare l’addio al pontefice tedesco.
Il Ministro dell’Interno della Germania, Nancy Faeser, ha
disposto bandiere a mezz’asta in tutti gli edifici pubblici del Paese. Bandiere
listate a lutto invece nel Bayern (il Land di origine di Papa Ratzinger, nato a
Marktl nel 1927) e nel Nord Reno-Vestfalia.
Un libro ufficiale delle condoglianze è stato aperto da
lunedì 2 fino a mercoledì 4 gennaio presso la Nunziatura Apostolica di Berlino.
Il vescovo Georg Bätzing, presidente della Conferenza dei vescovi tedeschi, e
il nunzio apostolico in Germania Nikola Eterovi? lo hanno firmato per primi a
nome della Chiesa cattolica in Germania. Successivamente le persone hanno
potuto firmarlo per tre giorni dalle ore 10 alle 17. In molte altre città è
stato allestito un libro delle condoglianze. Per esempio nella cattedrale di
Limburgo, nella sede della CET e nel duomo di San Martino nella ex capitale
federale Bonn.
Sul sito web della CET è stata allestita una pagina in
onore di Benedetto XVI dove, oltre a trovare notizie sulla vita, sulle opere e
sul Pontificato del Papa Emerito, è possibile esprimere il proprio cordoglio
accendendo candele virtuali. A giudicare dalla geolocalizzazione delle candele
accese, l’affetto dei fedeli tedeschi si concentra ovviamente di più nel
Bayern, Land dove Joseph Ratzinger ha avuto i natali e dove aveva prestato
servizio come Arcivescovo di Monaco e Frisinga.
Significativa la pagine della diocesi di
Regensburg con una serie di magnifiche foto. Una messa da Requiem sarà
celebrata a Ratisbona il 10 gennaio 2023 alle ore 18. Dalla morte del Papa
emerito, la diocesi di Ratisbona ha innalzato per sette giorni le bandiere del
lutto. Fino al funerale oggi a Roma, è stato recitato il rosario
quotidianamente nella cattedrale di Ratisbona. Il 10 gennaio 2023, alle
18:00, il vescovo Rudolf Voderholzer celebrerà un requiem per i defunti nella
cattedrale di San Pietro a Ratisbona.
Le esequie di Benedetto XVI a piazza San Pietro sono
state trasmesse in diretta dal canale ZDF. Il lutto per la scomparsa del
pontefice tedesco proseguirà nei prossimi giorni, quando in tutte le diocesi
tedesche verrà celebrata una Messa di requiem per il Papa Emerito.
Il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna,
e il cardinale Kurt Koch, prefetto del Dicastero per la promozione dell'unità
dei cristiani, hanno proposto di elevare Benedetto XVI al titolo di “dottore
della Chiesa”. Aci 6
Georg Gänswein ricorda Benedetto XVI, intervista esclusiva per EWTN
Oggi ricorrono i dieci anni di ordinazione episcopale
dell'arcivescovo - Di EWTN Rome Newsroom
CITTÀ DEL VATICANO. Oggi ricorrono per l'arcivescovo
Georg Gänswein i 10 anni della sua ordinazione episcopale ricevuta dalle mani
di Benedetto XVI poco prima dell'annuncio della Rinuncia. In questa giornata
pubblichiamo in italiano in esclusiva la intervista concessa dall'arcivescovo
al gruppo editoriale EWTN di cui è parte Aci Stampa sui ricordi di Benedetto
XVI.
Eccellenza, come stava il Papa emerito Benedetto verso la
fine della sua vita?
Contrariamente a quanto pensava, ha vissuto fino a una
vecchiaia matura. Era convinto che, dopo le sue dimissioni, il Buon Dio gli
avrebbe concesso solo un altro anno. Nessuno probabilmente era più sorpreso di
lui nel vedere che questo "altro anno" si è rivelato essere un bel
po' di anni in più.
Verso la fine, era fisicamente molto debole, molto
fragile, ovviamente, ma - grazie a Dio - la sua mente era più lucida che mai.
Ciò che era doloroso per lui, era vedere la sua voce diventare più sottile e
più debole. Aveva dipeso tutta la sua vita dall'uso della sua voce, e questo
strumento si era gradualmente perso. Ma la sua mente era sempre chiara,
era sereno, composto, e noi - che eravamo sempre intorno a lui, che vivevamo
con lui - potevamo sentire che era in dirittura d'arrivo e che aveva una fine.
E questa fine la aveva sempre in vista.
Aveva paura di morire?
Non ha mai parlato di paura. Ha sempre parlato del
Signore, della sua speranza che, quando finalmente si sarebbe arrivato davanti
a Lui, gli avrebbe mostrato mitezza e misericordia, conoscendo, naturalmente,
delle sue debolezze e dei suoi peccati, la sua vita... Ma - come disse San
Giovanni -: Dio è più grande del nostro cuore.
Ha passato molti anni al suo fianco. Quali sono stati i
momenti chiave secondo Lei?
Beh, per me tutto è iniziato quando sono entrato nella
Congregazione per la Dottrina della Fede quando lui (il Cardinale Ratzinger)
era Prefetto. Poi sono diventato il suo segretario. Doveva durare al massimo
qualche mese, ma, alla fine, è durato due anni.
Poi Giovanni Paolo II morì e Joseph Ratzinger divenne
Papa Benedetto XVI; ho trascorso tutti quegli anni come segretario privato al
suo fianco, e poi, naturalmente, anche quando era Papa emerito. Era stato più a
lungo Papa emerito che Papa regnante
Ciò che mi ha sempre impressionato, e persino sorpreso, è
stata la sua gentilezza; quanto fosse sereno e gentile, anche in situazioni
molto estenuanti, molto impegnative – e, a volte, anche molto tristi dal punto
di vista umano.
Non ha mai perso la calma; non ha mai perso la calma! Al
contrario: più grande era la sfida, più diventava silenzioso e povero di
parole. Ma questo ha avuto effetti molto buoni e positivi su coloro che lo
circondavano.
Tuttavia, non era affatto abituato a grandi folle.
Naturalmente, come professore, era abituato a parlare di fronte a un vasto,
anche molto vasto pubblico di studenti. Ma quello era lui come professore che
parlava agli studenti. Più tardi, come Papa, tutti questi incontri con persone
di diversi paesi, la loro gioia ed entusiasmo, sono stati, ovviamente,
un'esperienza molto diversa.
Doveva abituarsi, e non era facile trovare la strada
giusta. Ma non ha lasciato che qualche esparto di media gli dicesse cosa fare -
ha semplicemente e naturalmente assunto il compito, e infine - come posso dire
- è cresciuto.
Stavamo parlando della sua mitezza, di come ha affrontato
coloro che lo circondavano. Puoi darci un esempio?
Ricordo un incontro con vescovi e cardinali, durante il
suo periodo come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.
L'argomento era tale che le cose si riscaldavano abbastanza rapidamente, sia in
termini di contenuto che di dichiarazioni verbali. Si doveva parlare italiano
dato che era la lingua comune. E ho potuto vedere che gli italiani di madre
lingua erano, ovviamente, più veloci e più forti, mostravano anche un po’ di
aggressività.
Nel suo modo molto semplice, un po' tranquillo, prima ha
attenuato l'atmosfera aggressiva, cercando di passare dal tono al contenuto. Ha
semplicemente detto: “Gli argomenti sono convincenti o non sono convincenti; il
tono può essere inquietante o utile. Suggerisco di aiutarci a vicenda per
abbassare I toni e rafforzare gli argomenti”.
Puoi dirci di più su di lui come essere umano? Come ha
interpretato la missione di Papa? Dopo tutto, era un essere umano che doveva
affrontare quel compito...
Sicuramente l'ultima cosa che desiderava, era diventare
Papa all'età di 78 anni. Ma fu eletto Papa, accolse questo impegno, lo vide
come la volontà di Dio, e assunse questo compito. All'inizio, c'era una certa
insicurezza, momentanea: le telecamere e i fotografi erano ovunque, e non era
più possibile una vita privata, una vita normale.
Ma potevo sentire come si mettesse semplicemente in
questa situazione, confidando fermamente nell'aiuto di Dio, che gli avrebbe
dato i doni che gli mancavano e di cui aveva bisogno; confidando che con ile
sue doti naturali, ma anche con l'aiuto di Dio, sarebbe stato in grado di
svolgere l'ufficio a lui affidato, gestendolo in modo tale che sarebbe stato
davvero a beneficio di tutta la Chiesa e dei fedeli.
All'inizio ha detto che la parola - la parola parlata, ma
anche la parola scritta - era il suo strumento, per così dire. Quali dei suoi
scritti, le sue lettere encicliche, i suoi libri, sono importanti per Lei
personalmente?
Come Papa, ha scritto tre lettere encicliche; la quarta
insieme a Papa Francesco e poi pubblicata anche da Papa Francesco: Lumen fidei,
sulla fede. Devo confessare che Spe salvi è l'enciclica che mi ha dato
personalmente più nutrimento spirituale, e credo anche che, di tutte le sue
importanti lettere encicliche, questa alla fine "vincerà la corsa".
Ho iniziato a leggere il suo lavoro quando ero ancora
studente e seminarista a Friburgo; ho letto tutto, e questo, naturalmente, ha
influenzato la mia personale crescita spirituale. Penso che una delle cose che
rimarrà, sia sicuramente la “Trilogia di Gesù”. Originariamente, doveva essere
solo un volume. Lo iniziò quando era cardinale, e finì il primo volume come
Papa. E pensava che il Buon Dio gli avrebbe dato abbastanza forza solo per il
primo libro.
Voleva che, tra gli scritti che sono stati pubblicati
sotto il suo nome - oltre ai testi ufficiali che ha scritto come Papa,
ovviamente, le sue lettere encicliche per esempio - la "Trilogia di
Gesù", il suo "Libro di Gesù" in tre volumi, fosse visto come il
suo testamento spirituale e intellettuale. Iniziò a scriverlo come cardinale, e
poi continuò come Papa. All'inizio ha detto: "Ora è il momento di finire,
chissà quanto durerà la mia forza".
La sua forza è durata, ha iniziato il secondo volume e
così via. Questi tre volumi contengono tutto il suo essere personale come
sacerdote, vescovo, cardinale e Papa, ma anche tutte le sue ricerche
teologiche, tutta la sua vita di preghiera - in una forma che, grazie a Dio,
può essere facilmente compresa; una forma che è scritta al più alto livello
accademico, ma sarà anche, per i fedeli, la sua duratura testimonianza
personale. E proprio questa era l'intenzione. Con questo libro, questa forma di
proclamazione della fede, voleva rafforzare le persone nella fede, condurle
alla fede e aprire le porte alla fede.
Quale di questi pensieri abbraccerà personalmente, quali
l'hanno aiutata di più?
Quando guardo il libro su Gesù, la cosa cruciale è che
questo libro non descrive qualcosa del passato - questa persona, anche se è il
Salvatore - ma parla del presente. Cristo ha vissuto, ma è ancora vivo. Leggere
questo libro aiuta a stabilire la connessione, per così dire, oggi, con Cristo.
Non leggo solo qualcosa che è successo. È successo qualcosa, sì, ma quello che
è successo ha un significato per me, per tutti quelli che lo leggono, per la
mia vita personale di fede. E questo, credo, è decisivo, nel senso che Joseph
Ratzinger, Papa Benedetto, non minimizza, toglie o salta nulla da ciò che la
Chiesa professa per quanto riguarda la fede. E questo, per me, è qualcosa che
rimane. Ho letto il primo volume diverse volte, l'ho letto più e più volte per
accompagnare certe stagioni della mia vita. Posso solo consigliarlo, è molto
utile, un vero nutrimento spirituale.
Come ha vissuto la sua fede?
La fede gli è stata trasmessa dai suoi genitori, in modo
molto naturale, molto normale, e ha avuto un'influenza molto forte su di lui.
Ciò che ricevette dai suoi genitori e successivamente dai suoi insegnanti, dai
suoi direttori spirituali, lo ha approfondito nella sua stessa vita,
soprattutto attraverso i suoi studi, ma anche attraverso le sue lezioni. E ciò
che aveva approfondito in questo modo, è diventato la sua vita di fede. Ho
sempre avuto l'impressione - e non credo di essere l'unico - che ciò che hanno
detto il professor Ratzinger, il vescovo Ratzinger, l'arcivescovo e il
cardinale Ratzinger o Papa Benedetto, non fosse qualcosa da recitare perché
faceva parte dell'ufficio: era, per così dire, "la sua carne". Era
ciò che credeva e ciò che voleva trasmettere, in modo da poter trasmettere
questa fiamma agli altri e farla ardere intensamente.
Un Papa ha tempo per la preghiera, per il silenzio?
Dipende da come gestisci il tuo tempo. Se qualcosa è
importante per me, cerco di trovare il tempo necessario. E non solo il tempo
che mi può rimanere, ma il tempo che ho già programmato quando pianifico la mia
giornata. Quello che ho sperimentato con lui come cardinale, ma anche come Papa
– dopo tutto, ho vissuto con lui – è stato che avevamo sempre orari di
preghiera fissi. C'erano eccezioni, ovviamente, per esempio quando eravamo in
viaggio. Ma i tempi di preghiera erano sacrosanti.
In concreto, questo significava: Santa Messa, breviario,
rosario, meditazione. C'erano tempi fissi, ed era mio compito attenermici, e
non dire: questo è importante ora, questo è molto importante e questo è ancora
più importante. Ha detto: “La cosa più importante è che Dio sia sempre al primo
posto. In primo luogo, dobbiamo cercare il Regno di Dio, tutto il resto sarà in
aggiunta”. È una frase semplice, e suona bene. Ma non è così semplice
attenervisi. "Ma questo è il motivo per cui è vero e perché devi aiutare a
garantire che rimanga così".…
I santi sono un modello per la nostra vita cristiana. Chi
era il santo preferito di Papa Benedetto?
Il suo santo preferito era San Giuseppe, ma fu presto
raggiunto da Sant'Agostino e San Bonaventura. E questo semplicemente perché
aveva studiato queste due grandi figure della Chiesa molto intensamente, e
poteva vedere come rendevano fertile la sua vita spirituale e intellettuale.
Tra le donne - per non parlare solo degli uomini - la
Vergine Maria è la numero uno, ovviamente. E poi direi Santa Teresa d'Avila,
che, nella sua potenza e forza intellettuale e spirituale, ha dato una
testimonianza che ha trovato molto impressionante. E poi - non ci crederete -
c'è anche la piccola Santa Teresa del Bambino Gesù. Tra le più contemporanee,
credo che possiamo includere anche Madre Teresa, grazie alla sua semplicità e
convinzione. Infatti, quello che viveva era più di una semplice lezione di
teologia, di teologia fondamentale o di qualsiasi altra materia. Ha vissuto il
Vangelo, e questo, per lui, è stato decisivo...
Conosceva personalmente Madre Teresa, vero?
Sì, l'ha incontrata nel 1978 al “Katholikentag” di
Friburgo. Mi è capitato di essere lì anch'io. Era arcivescovo da un anno, e io
ero in seminario da un anno. Madre Teresa era lì, nella cattedrale di Friburgo,
così come il cardinale di Monaco e Frisinga, Joseph Ratzinger.
Come ha fatto Joseph Ratzinger, Papa Benedetto a plasmare
la Chiesa?
Come ha sottolineato nell'omelia che ha segnato l'inizio
del suo Pontificato, quando ha assunto la sua carica, non aveva nessun
programma di governo, nessun programma ecclesiale. Stava semplicemente cercando
di proclamare la volontà di Dio, di affrontare le sfide del nostro tempo
secondo la volontà di Dio. E voleva metterci tutto il cuore. Un programma non
sarebbe stato utile, perché allora gli eventi si muovevano a una velocità senza
precedenti, anche in situazioni difficili. Ed essere in grado di adattarsi a
questo, era certamente uno dei suoi più grandi punti di forza. È stato veloce
nel rilevare i problemi e sapeva che dovevano essere risolti con una risposta
di fede. Non solo una risposta che aveva, per così dire, una base teologica, ma
una che andava più in profondità, derivante dalla fede stessa, essendo sia
teologicamente giustificata che convincente.
Ed è per questo che penso che il suo grande contributo,
il suo grande sostegno ai credenti, sia stata la parola. Abbiamo già parlato
della parola che è la sua più grande, la sua migliore "arma" – per
quanto "marziale" sembri La parola la poteva gestire, e con la
parola poteva ispirare le persone e riempire i loro cuori.
Guardando indietro al suo pontificato, quali sono state
le maggiori sfide che ha dovuto affrontare?
Era molto chiaro fin dall'inizio che la sfida più grande
era quello che chiamava "relativismo". La fede cattolica e la Chiesa
cattolica sono convinte che, in Gesù Cristo, la verità sia nata e sia diventata
carne: “Io sono la via, la verità e la vita”.
E il relativismo alla fine dice: la verità che proclami è
contro la tolleranza. Non tolleri altre convinzioni – cioè, all’interno del
cristianesimo, per quanto riguarda la questione dell' ecumenismo –, non tolleri
altre religioni, ci pensi poco. E questo non è vero, ovviamente. Tolleranza
significa che prendo sul serio tutti nella loro fede, nelle loro convinzioni, e
li accetto. Ma non significa che poi svaluti semplicemente la mia fede: la fede
di cui sono convinto, la fede che ho ricevuto per trasmetterla. Tutto il
contrario!
... Quello era relativismo - e poi abbiamo avuto la
questione del rapporto tra fede e ragione. Questo è stato uno dei suoi punti di
forza.
E poi, quando era Papa, è arrivata - inaspettatamente, ma
in modo molto potente- l'intera questione degli abusi, una sfida che è arrivata
in un modo così potente che non ci si sarebbe mai aspettato. In effetti, a
questo proposito, aveva già svolto un ruolo importante come cardinale, quando
le prime domande, le prime comunicazioni, le prime difficoltà, le prime
segnalazioni di abusi sono arrivate dagli Stati Uniti. All'epoca, avevo già
servito nella Congregazione per la Dottrina della Fede per due anni, e quindi
ricordo molto bene come ha affrontato la situazione, e anche come ha dovuto
superare una certa resistenza dall'interno. Non fu facile, ma gestiva molto
bene questa sfida, e in modo decisivo e coraggioso, che in seguito si sarebbe
dimostrato utile anche nel suo pontificato.
Diceva sempre: “Ci sono argomenti importanti, ma il più
importante è la fede in Dio”. Questo è il centro, attorno al quale si sono
evoluti la sua predicazione, il suo papato e il suo ministero pontificio: la
convinzione "devo proclamare la mia fede in Dio". Questo è
essenziale. Altri possono fare altre cose, ma l'obiettivo principale, il
compito principale del Papa è proprio questo; e per quella testimonianza è e
sarà sempre il primo testimone.
Quindi, l'annuncio di Dio era al centro del suo pontificato...
Esattamente, se posso riassumerlo così... La
proclamazione della fede, la giustificazione del Vangelo. Per noi, Dio non è
un'idea, un semplice pensiero: Dio è l'obiettivo della nostra fede. Infatti, in
un certo momento, il centro della nostra fede si è incarnato, divenne un uomo:
Gesù di Nazareth. E tutto quello che sappiamo da quel tempo é condensato nei
Vangeli e nelle Scritture, nel Nuovo Testamento. E proclamarlo, proclamarlo in
modo credibile e convincente, era il centro e l'obiettivo del suo ministero
papale.
Parlando di abusi: non molto tempo fa, Papa Benedetto è
stato menzionato nella relazione sugli abusi nell'arcidiocesi di Monaco e
Frisinga. Come ha reagito a queste accuse, che sono state successivamente
confutate, ma comunque portate alla sua attenzione? Come lo ha vissuto
soprattutto alla luce di tutti gli sforzi che aveva compiuto per indagare sugli
abusi e combatterli?
Abbiamo già detto in che modo, come Prefetto, abbia
dovuto affrontare le accuse provenienti dagli Stati Uniti, alla fine degli anni
'80 e all'inizio degli anni '90, e che ha preso una posizione forte contro la
resistenza interna ed esterna. E la stessa posizione chiara e inequivocabile è
stata presa quando era Papa; ce ne sono molti esempi.
Quando fu poi personalmente accusato di aver gestito male
i casi di abusi sessuali durante il suo periodo come arcivescovo di Monaco e
Frisinga, dal 1977 al 1982, per lui fu davvero una sorpresa.
Gli è stato chiesto se avrebbe accettato di rispondere
alle domande riguardanti l'indagine che ha esaminato la gestione di una
successione di arcivescovi, dal cardinale Faulhaber all'attuale arcivescovo.
E lui ha detto: ci sto, non ho niente da nascondere. Se
avesse detto "no", si sarebbe potuto pensare che nascondesse
qualcosa.
Ci hanno inviato molte domande; e lui ha risposto. Sapeva
di non aver fatto nulla di male. Ha dichiarato tutto ciò che poteva ricordare,
è tutto nella relazione. Durante la stesura della nostra dichiarazione, abbiamo
commesso un piccolo errore: non è stato un errore da parte di Papa Benedetto,
ma una svista di uno dei nostri collaboratori, che si è subito scusato con lui
con Benedetto. Ha detto che è stato un suo errore, che ha sbagliato una data
per quanto riguarda la presenza o l'assenza in una riunione.
È stato immediatamente pubblicato e immediatamente
corretto. Ma la narrazione che il Papa aveva mentito, purtroppo è rimasta. E
questa è stata l'unica cosa che lo ha davvero scioccato: che fosse chiamato
bugiardo.
Semplicemente non è vero. Ha poi scritto una lettera
personale. Ha detto che questa sarebbe stata l'ultima parola sulla questione e
che, dopo quella lettera, non avrebbe più commentato. Chi non gli crede o non
vuole credergli, non deve farlo. Ma chi guarda i fatti onestamente e senza
pregiudizi, deve dire: l'accusa di essere un bugiardo è semplicemente falsa. Ed
è infame!
È stata un'accusa che lo ha davvero scioccato.
Soprattutto perché è venuto da una parte che non si distingue esattamente per
fare grandi cose nella sfera morale, ma al contrario. Era così moralista che si
deve dire: è e rimane vergognoso! Ma non era l'ultima parola. Papa Benedetto
disse: “Non ho nascosto nulla, ho detto quello che avevo da dire. Non ho altro
da aggiungere, non c'è altro da dire.”
Poteva solo fare appello alla ragione, alla buona volontà
e all'onestà, non c'era davvero molto altro da fare. Ed è esattamente quello
che ha scritto nella sua lettera. Per tutto il resto, avrebbe dovuto rispondere
al Buon Dio.
Infatti, è tutto lì, nei documenti e nei file. Chiunque
agisca in buona fede può ricostruirlo e portare alla luce la verità.
Come ho detto, l'imparzialità è un prerequisito.nNon solo
in questo caso, ma in linea di principio, ma soprattutto in questo caso. E chi
è disposto ad agire con imparzialità, lo ha riconosciuto o lo riconoscerà.
Papa Benedetto era felice? Era soddisfatto, realizzato
nel suo viaggio personale attraverso la vita?
Di tutti gli aggettivi che ha appena menzionato, direi
che l'ultimo è vero: l'adempimento. Lo percepivo come qualcuno che era davvero
soddisfatto da quello che stava facendo. Decise di dedicare la sua vita al
sacerdozio. La sua prima vocazione, il suo primo amore, fu l'insegnamento,
ovviamente. Ed è per questo che è diventato professore. Era semplicemente il
suo destino.
E poi divenne vescovo, e infine venne a Roma. Era tutto
in linea con la sua natura, la sua struttura intellettuale. Che sia diventato
Papa era – come ho già detto – l’ultima cosa che si aspettava o voleva. Ma l'ha
accettato, e in tutti i suoi compiti - per quanto ho potuto vedere -, era davvero
soddisfatto e preparato a dare tutto.
Ho notato che ha dato qualcosa di se stesso, ha dato ciò
che era più importante per lui. Quello che stava trasmettendo non era qualcosa
che aveva raccolto da qualche parte: stava trasmettendo qualcosa di se stesso,
qualcosa che veniva dalla sua stessa vita...
Ha avuto il tempo di pensare alla sua famiglia di
origine, c'era ancora un legame? Come parlava della sua famiglia?
Considerando tutte le cose che si possono leggere, tutte
le cose che ha detto e che ho sentito io stesso, devo dire che ha parlato solo
con molto amore e con grande rispetto di ciò che hanno fatto i suoi genitori,
soprattutto per i loro tre figli. Suo padre era un agente di polizia, non
avevano molti soldi, eppure tutti i bambini avevano un'ottima istruzione - e
questo era costoso! Ma ciò che era davvero decisivo, è stato l'esempio di fede
che hanno dato loro. Ha sempre detto che questa era e rimaneva la base per
tutto ciò che è venuto dopo.
Quale delle parole che ha detto ricorderà? Cosa rimarrà?
Beh, a questo punto, lasciatemi "svuotare il
sacco". a volte – specialmente durante il suo periodo come emerito –
mi sono trovato in situazioni difficili; momenti in cui ho detto: Santo Padre,
questo non può essere! Non riesco a farcela! La Chiesa corre contro un muro di
mattoni! Non lo so: il Signore dorme, non c'è? Che cosa sta succedendo? E mi
diceva: “Conosci un po' il Vangelo, vero? Il Signore dormiva sulla barca sul
Mare di Galilea, quindi la storia va avanti. I discepoli avevano paura, stava
arrivando una tempesta, stavano arrivando le onde. E lo svegliarono perché non
sapevano cosa fare. E ha appena detto: cosa sta succedendo? Gesù ha dovuto dire
solo poche parole alla tempesta, per chiarire che è il Signore, anche per il
tempo e le tempeste”. E poi Papa Benedetto mi disse: “Guarda, il Signore non
dorme!".
Quindi, se, anche in Sua presenza, i discepoli avessero
paura, è abbastanza normale che i discepoli di oggi possano avere paura, qua e
là. Ma non dimenticare mai una cosa: Il Signore è qui, e rimane qui. E in tutto
ciò che ti preoccupa ora, è difficile per te ora, che pesa sul tuo cuore o sul
tuo stomaco, è qualcosa che non devi mai dimenticare! Prendilo da me (dice il
Signore). Allora agisco di conseguenza.”
Questo è qualcosa che, tra altre cose, è davvero nel
profondo del mio cuore, e rimane saldamente ancorato lì.
Può condividere un altro aneddoto della sua vita con Papa
Benedetto?
Papa Benedetto era un uomo con un buon senso
dell'umorismo. Gli piaceva quando, anche nelle domande difficili, l'umorismo
non era totalmente dimenticato, poiché può fornire una sorta di messa a terra,
e anche una sorta di "filo" che ci porta "verso l'alto".
Così, ho potuto notare qua e là, come in situazioni difficili, sia come
cardinale che come Papa, ha cercato - non di provocare una sorta di
"svolta divertente", che sembra troppo superficiale -, ma di portare
un'oncia di umorismo, un elemento di umorismo che
poteva"disintossicare" le cose.
E questo si è dimostrato molto prezioso per la mia vita,
in alcune situazioni difficili. E ne sono molto grato.
Santo Subito ?
Questo era il messaggio che abbiamo potuto leggere al
funerale di Giovanni Paolo II a Piazza San Pietro. Lo ricordo fin troppo bene:
c'erano molti cartelli e anche grandi poster dipinti con la didascalia “Santo
Subito”. Penso che andrà in questa direzione. Aci 6
Le parole di Bergoglio in occasione delle esequie di papa
Benedetto XVI a San Pietro - di Gian Guido Vecchi
CITTÀ DEL VATICANO — «Padre, nelle tue mani consegno il
mio spirito». Giornata fredda e nebbiosa, Francesco comincia dal Vangelo di
Luca, l’agonia, le ultime parole di Gesù prima della morte. E l’omelia del Papa
davanti alla bara di cipresso del predecessore si dispiega, spirituale e
solenne, come una lunga identificazione della vicenda umana di Benedetto XVI
con il racconto evangelico: «È il Popolo fedele di Dio che, riunito, accompagna
e affida la vita di chi è stato suo pastore. Come le donne del Vangelo al
sepolcro, siamo qui con il profumo della gratitudine e l’unguento della
speranza per dimostrargli, ancora una volta, l’amore che non si perde; vogliamo
farlo con la stessa unzione, sapienza, delicatezza e dedizione che egli ha
saputo elargire nel corso degli anni. Vogliamo dire insieme: “Padre, nelle tue
mani consegniamo il suo spirito”», mormora Francesco, fino a esclamare:
«Benedetto, fedele amico dello Sposo, che la tua gioia sia perfetta nell’udire
definitivamente e per sempre la sua voce!».
Le ultime parole di Gesù in Croce, «il suo ultimo
sospiro, potremmo dire, capace di confermare ciò che caratterizzò tutta la sua
vita: un continuo consegnarsi nelle mani del Padre suo», dice Francesco. «Mani
di perdono e di compassione, di guarigione e di misericordia, mani di unzione e
benedizione, che lo spinsero a consegnarsi anche nelle mani dei suoi fratelli:
il Signore, aperto alle storie che incontrava lungo il cammino, si lasciò
cesellare dalla volontà di Dio, prendendo sulle spalle tutte le conseguenze e
le difficoltà del Vangelo fino a vedere le sue mani piagate per amore. “Guarda
le mie mani”, disse a Tommaso, e lo dice ad ognuno di noi. Mani piagate che vanno
incontro e non cessano di offrirsi, affinché conosciamo l’amore che Dio ha per
noi e crediamo in esso». Parole che sono «l’invito e il programma di vita che
sussurra e vuole modellare come un vasaio il cuore del pastore, fino a che
palpitino in esso i medesimi sentimenti di Cristo Gesù. Dedizione grata di
servizio al Signore e al suo Popolo che nasce dall’aver accolto un dono
totalmente gratuito: “Tu mi appartieni... tu appartieni a loro”, sussurra il
Signore; “tu stai sotto la protezione delle mie mani, sotto la protezione del
mio cuore. Rimani nel cavo delle mie mani e dammi le tue”». Sta parlando di
Benedetto, il Papa, della «Dedizione orante» che «si plasma e si affina
silenziosamente tra i crocevia e le contraddizioni che il pastore deve
affrontare e l’invito fiducioso a pascere il gregge: come il Maestro, porta
sulle spalle la stanchezza dell’intercessione e il logoramento dell’unzione per
il suo popolo, specialmente là dove la bontà deve lottare e i fratelli vedono
minacciata la loro dignità», scandisce.
«In questo incontro di intercessione il Signore va
generando la mitezza capace di capire, accogliere, sperare e scommettere al di
là delle incomprensioni che ciò può suscitare». Francesco cita l’omelia nella
Messa di inizio del pontificato pronunciata da Benedetto XVI (qui il «Rogito»
inserito nella bara), come un presentimento, il 24 aprile 2005: «Pascere vuol
dire amare, e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire. Amare significa:
dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola
di Dio, il nutrimento della sua presenza». Una dedizione, quella mostrata da
Ratzinger in tutta la sua vita, «sostenuta dalla consolazione dello Spirito,
che sempre lo precede nella missione: nella ricerca appassionata di comunicare
la bellezza e la gioia del Vangelo, nella testimonianza feconda di coloro che,
come Maria, rimangono in molti modi ai piedi della croce, in quella pace
dolorosa ma robusta che non aggredisce né assoggetta; e nella speranza ostinata
ma paziente che il Signore compirà la sua promessa, come aveva promesso ai
nostri padri e alla sua discendenza per sempre». Francesco alza lo sguardo ai
fedeli: «Anche noi, saldamente legati alle ultime parole del Signore e alla
testimonianza che marcò la sua vita, vogliamo, come comunità ecclesiale,
seguire le sue orme e affidare il nostro fratello alle mani del Padre: che
queste mani di misericordia trovino la sua lampada accesa con l’olio del
Vangelo, che egli ha sparso e testimoniato durante la sua vita». Alla fine
Francesco cita la Regola di San Gregorio Magno: «In mezzo alle tempeste della
mia vita, mi conforta la fiducia che tu mi terrai a galla sulla tavola delle
tue preghiere, e che, se il peso delle mie colpe mi abbatte e mi umilia, tu mi
presterai l’aiuto dei tuoi meriti per sollevarmi». La consapevolezza, del
pastore spiega, «che non può portare da solo quello che, in realtà, mai
potrebbe sostenere da solo e, perciò, sa abbandonarsi alla preghiera e alla
cura del popolo che gli è stato affidato».
CdS 6
La folla per Benedetto XVI: "Santo Subito!" Il Papa emerito
riposa nelle Grotte Vaticane
Un posto speciale quello di Benedetto XVI. Il Papa
emerito è stato sepolto infatti nelle Grotte Vaticane nella tomba che fu di
Giovanni Paolo II. La folla acclama il Papa emerito "Santo Subito"-
Di Veronica Giacometti
CITTÀ DEL VATICANO. E' l'ultimo tratto del viaggio di
Papa Benedetto XVI. Quello da Piazza di San Pietro, dove sono stati celebrati i
suoi funerali, alle tombe vaticane, dove il Papa emerito riposerà in pace in
eterno. Molto sentita la celebrazione tra i fedeli in Piazza che hanno salutato
il Papa emerito al grido "Santo Subito". Canti e applausi in quella
che è stata una celebrazione semplice, come in fondo desiderava lo stesso
Benedetto.
La salma del Papa emerito, già imbalsamata, è stata
tumulata in forma privata subito dopo la celebrazione delle esequie. Benedetto
XVI riposerà in eterno nelle Grotte Vaticane, chiuse al pubblico da qualche
giorno proprio per la preparazione.
Un posto speciale quello di Benedetto XVI. Il Papa
emerito è stato sepolto infatti nelle Grotte Vaticane nella tomba che fu di
Giovanni Paolo II.
Le spoglie di Giovanni Paolo II avevano riposato nelle
Grotte Vaticane, fino alla beatificazione avvenuta il 1° maggio 2011 e
presieduta dallo stesso Papa Benedetto XVI. Da allora Giovanni Paolo II riposa
nella Basilica Vaticana nella Cappella di San Sebastiano. "Si è
conclusa la traslazione della salma del Papa emerito e la sua tumulazione nel
luogo destinato delle grotte vaticane", fa sapere la Sala Stampa della
Santa Sede intorno alle 12.43.
Le Grotte vaticane si trovano sotto la Basilica di San
Pietro. All'interno delle Grotte si trovano le tombe di oltre 90 papi, alcuni
monarchi e altri dignitari della chiesa, che risalgono al X secolo. Il Papa
emerito riposerà quindi con Pio XII, Paolo VI, Giovanni Paolo I.
Nel corso del rito, in forma privata, è stata messa una
fettuccia intorno alla bara di Benedetto. Poi la bara di cipresso è stata posta
all’interno di una bara più grande in zinco che è stata saldata e sigillata.
Questa bara è inserita a sua volta in una cassa di legno, posta nel luogo in
precedenza occupato, fino alla beatificazione, dal feretro di san Giovanni
Paolo II. Papa Benedetto indossa e porta con sè anche l'anello di San
Benedetto, un anello che gli è stato regalato.
Prima della tumulazione i fedeli hanno acclamato e
applaudito Benedetto, un cartellone in Piazza S.Pietro recitava la scritta
"Santo subito". Tanti gli applausi, i canti e la commozione dei
pellegrini e dei fedeli che hanno accompagnato il Papa emerito in questo suo
ultimo viaggio. Secondo la Gendarmeria vaticana erano presenti 50.000 fedeli.
Erano in Piazza giovani, laici e soprattutto sacerdoti, poi famiglie, suore,
gruppi dall’Italia e dalla Germania, con bandiere e stendardi. Non c'erano
molti gruppi parrocchiali e movimenti, ma questo non ha impedito il grande
afflusso con striscioni dal titolo "Papa Benedetto Magno". Presente
anche la stampa, la Sala Stampa della Santa Sede conferma più di 600
giornalisti accreditati da tutto il mondo.
Sin da questa mattina alle 5.30 si intravedeva la fila di
pellegrini che dopo i controlli volevano dare l'ultimo saluto a Papa Benedetto
XVI. Nonostante la nebbia e l'umidità di oggi a Roma, si percepiva forte il
calore della gente che ha sempre sostenuto Papa Benedetto e che da varie parti
del mondo è venuta appunto a omaggiarlo. In questi giorni oltre 200mila persone
hanno salutato il Papa emerito. Aci 5
Piazza San Pietro. Papa Francesco: “Benedetto, che la tua gioia sia
perfetta!”
“Anche noi, saldamente legati alle ultime parole del
Signore e alla testimonianza che marcò la sua vita, vogliamo, come comunità
ecclesiale, seguire le sue orme e affidare il nostro fratello alle mani del
Padre: che queste mani di misericordia trovino la sua lampada accesa con l’olio
del Vangelo, che egli ha sparso e testimoniato durante la sua vita”. È il passo
dell'omelia di Papa Francesco dedicato all'eredità di Joseph Ratzinger, nel
giorno della sua nascita al cielo. “Benedetto, fedele amico dello Sposo,
che la tua gioia sia perfetta nell’udire definitivamente e per sempre la sua
voce!”, l'invocazione finale. "Santo subito!", il grido che si leva
dalla piazza - M.Michela Nicolais
Una piazza San Pietro insolitamente avvolta nella nebbia,
per raggiungere la quale decine di migliaia di fedeli si sono messi in fila fin
dalle prima ore del mattino ai varchi. Il lungo e ripetuto applauso dei fedeli
presenti in una piazza già piena un’ora prima dell’inizio dei funerali, mentre
le campane della basilica suonavano a morto. Il Vangelo aperto sulla bara di
cipresso, salutata dal grido “santo subito” che si leva dalla piazza appena il
feretro rientra in basilica per il rito della sepoltura nelle Grotte Vaticane.
Sono alcune istantanee dei funerali del Papa emerito Benedetto XVI, a cui hanno
partecipato – per suo volere – soltanto due delegazioni ufficiali, quelle di
Germania e Italia, rispettivamente suo paese natale e sua patria d’adozione, e
al quale si sono unite molte altre delegazioni giunte a titolo personale da
tutto il mondo. 3.700 i sacerdoti, oltre ai cardinali e vescovi, che hanno
concelebrato con il card. Giovanni Battista Re, decano del collegio
cardinalizio, durante il rito delle esequie presieduto da Papa Francesco, che
ha tenuto l’omelia, tutta incentrata sulle ultime parole pronunciate da Gesù
sulla croce, ascoltate poco prima nel Vangelo: “Padre, nelle tue mani consegno
il mio Spirito”.
“Anche noi, saldamente legati alle ultime parole del
Signore e alla testimonianza che marcò la sua vita, vogliamo, come comunità
ecclesiale, seguire le sue orme e affidare il nostro fratello alle mani del
Padre”, il primo tratto dell’omelia riferita al Papa emerito: “che queste mani
di misericordia trovino la sua lampada accesa con l’olio del Vangelo, che egli
ha sparso e testimoniato durante la sua vita”. Poi la citazione di San Gregorio
Magno: “In mezzo alle tempeste della mia vita, mi conforta la fiducia che tu mi
terrai a galla sulla tavola delle tue preghiere, e che, se il peso delle mie
colpe mi abbatte e mi umilia, tu mi presterai l’aiuto dei tuoi meriti per
sollevarmi”. “È la consapevolezza del Pastore che non può portare da solo
quello che, in realtà, mai potrebbe sostenere da solo e, perciò, sa
abbandonarsi alla preghiera e alla cura del popolo che gli è stato affidato”,
il commento di Francesco: “È il Popolo fedele di Dio che, riunito, accompagna e
affida la vita di chi è stato suo pastore. Come le donne del Vangelo al
sepolcro, siamo qui con il profumo della gratitudine e l’unguento della
speranza per dimostrargli, ancora una volta, l’amore che non si perde; vogliamo
farlo con la stessa unzione, sapienza, delicatezza e dedizione che egli ha
saputo elargire nel corso degli anni. Vogliamo dire insieme: ‘Padre, nelle tue
mani consegniamo il suo spirito’”.
“Benedetto, fedele amico dello Sposo, che la tua gioia
sia perfetta nell’udire definitivamente e per sempre la sua voce!”,
l’invocazione finale, che ha fatto da contraltare all’intensa meditazione della
parte iniziale, in cui sono risuonate parole come dedizione e mitezza, “capace
di capire, accogliere, sperare e scommettere al di là delle incomprensioni che
ciò può suscitare”.
“Il suo ultimo sospiro – ha esordito il Papa – capace di
confermare ciò che caratterizzò tutta la sua vita: un continuo consegnarsi
nelle mani del Padre suo. Mani di perdono e di compassione, di guarigione e di
misericordia, mani di unzione e benedizione, che lo spinsero a consegnarsi
anche nelle mani dei suoi fratelli”. “Padre, nelle tue mani consegno il mio
spirito” – ha proseguito interpretando le ultime parole di Gesù – è l’invito e
il programma di vita che ispira e vuole modellare come un vasaio il cuore del
pastore, fino a che palpitino in esso i medesimi sentimenti di Cristo Gesù.
Dedizione grata di servizio al Signore e al suo Popolo che nasce dall’aver
accolto un dono totalmente gratuito: ‘Tu mi appartieni… tu appartieni a loro’,
sussurra il Signore; ‘tu stai sotto la protezione delle mie mani, sotto la protezione
del mio cuore. Rimani nel cavo delle mie mani e dammi le tue’. È la
condiscendenza di Dio e la sua vicinanza capace di porsi nelle mani fragili dei
suoi discepoli per nutrire il suo popolo e dire con Lui: prendete e mangiate,
prendete e bevete, questo è il mio corpo che si offre per voi . Dedizione
orante, che si plasma e si affina silenziosamente tra i crocevia e le
contraddizioni che il pastore deve affrontare e l’invito fiducioso a pascere il
gregge”.
“Come il Maestro, porta sulle spalle la stanchezza
dell’intercessione e il logoramento dell’unzione per il suo popolo,
specialmente là dove la bontà deve lottare e i fratelli vedono minacciata la
loro dignità”,
l’esempio scelto dal Papa: “In questo incontro di
intercessione il Signore va generando la mitezza capace di capire, accogliere,
sperare e scommettere al di là delle incomprensioni che ciò può suscitare.
Fecondità invisibile e inafferrabile, che nasce dal sapere in quali mani si è
posta la fiducia. Fiducia orante e adoratrice, capace di interpretare le azioni
del pastore e adattare il suo cuore e le sue decisioni ai tempi di Dio:
‘Pascere vuol dire amare, e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire.
Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di
Dio, della parola di Dio, il nutrimento della sua presenza’. Dedizione
sostenuta dalla consolazione dello Spirito, che sempre lo precede nella
missione: nella ricerca appassionata di comunicare la bellezza e la gioia del
Vangelo, nella testimonianza feconda di coloro che, come Maria, rimangono in
molti modi ai piedi della croce, in quella pace dolorosa ma robusta che non
aggredisce né assoggetta; e nella speranza ostinata ma paziente che il Signore
compirà la sua promessa, come aveva promesso ai nostri padri e alla sua
discendenza per sempre”. Sir 5
Due Papi ma spesso un pensiero comune
Sull’immigrazione, ad esempio, Benedetto XVI fu molto
preciso: «Dobbiamo accoglierli. Spiegando che appena possibile dovranno
ricostruire con l’aiuto internazionale il loro Paese. Ma finché fuggono davanti
a un pericolo immediato di vita...» - di Gian Antonio Stella
«Papa Francesco ci perdonerà, ma nell’epoca dei due
Pontefici, Papa Ratzinger era il nostro», ha scritto sul Giornale Augusto
Minzolini. Il ragionamento, va detto, non era così sbrigativo ma il titolone
raddoppiava: «Era il nostro Papa». Un’idea condivisa da una parte della destra.
Come se ci fosse un Papa troppo schierato contro la corruzione, lo sfruttamento
del pianeta, la cultura dello scarto e così via, e l’altro più attento ai buoni
valori di una volta. Ma è così?
Mah... Su almeno un punto, come ammise nell’estate 2009
perfino un Bossi furente («La Chiesa fa il suo mestiere, noi il nostro») per le
critiche alla tesi del ministro dell’interno Maroni («contro l’immigrazione non
bisogna essere buonisti ma cattivi, determinati»), i due Papi l’hanno sempre
pensata, di fatto, allo stesso modo. Basti rileggere, ad esempio, l’intervista
data dal futuro papa Joseph Ratzinger al Corriere dopo il tragico Venerdì Santo
del 1997 quando una nave di albanesi, speronata per errore da una motovedetta
italiana (al governo c’era il centrosinistra), affondò con 81 morti. Scosso
dalle persistenti invocazioni a «ributtare in mare gli albanesi», bollò l’idea
come «inumana»: «Dobbiamo accoglierli. Spiegando che appena possibile dovranno
ricostruire con l’aiuto internazionale il loro Paese. Ma finché fuggono davanti
a un pericolo immediato di vita...».
Di più: «Il punto è che qui ci sarà anche un po’ di crisi
ma rispetto agli albanesi viviamo in un certo benessere. E non vogliamo essere
“disturbati”». Di più ancora: «Certo, c’è da distinguere la posizione degli
elementi criminali... Ma chiudere semplicemente le frontiere non si può».
Confidò che sentir parlare di «razza padana, razza pura, razza eletta» lo
faceva «stare male» perché «è una malattia del cuore. La razza pura non esiste.
La convivenza di diverse provenienze umane dà ricchezza culturale. Questa idea
di una razza che si deve difendere mi fa pensare troppo al passato». Come
tedesco viveva una ferita in più? «Sì». Troppo egoismo: «Si può difendere il
patrimonio di un popolo ma non si può vivere in un’isola che si separa, oggi
poi, dal resto del mondo. Una chiusura tipo “noi stiamo bene, non vogliamo
quelli che stanno male” è, per me, una politica immorale». CdS 3
Papa Ratzinger, don Georg: «La stretta di Francesco sulla Messa in latino
gli ha spezzato il cuore»
L'intervista dell'arcivescovo Gänswein al quotidiano
cattolico tedesco «Die Tagespot» e il racconto delle ultime ore del Papa
emerito: «In preghiera con lui fino alla fine» - di Ester Palma
Benedetto XVI «pensava di vivere solo un altro anno dopo
le dimissioni», ma ha avuto il tempo per vedere la «Traditionis custodes»,
il Motu proprio del 16 luglio 2021 di Francesco che conteneva restrizioni sulle
celebrazioni delle Messe in latino e secondo l'uso preconciliare, molto amate e
sostenute da papa Ratzinger: e quel documento «lo ha colpito molto duramente.
Penso che abbia spezzato il cuore di Papa Benedetto». Lo ha detto in
un'intervista di Guido Horst, del quotidiano cattolico tedesco «Die Tagespost»,
l’Arcivescovo Georg Gänswein, dal 1992 vicino a Benedetto, dopo averlo
conosciuto alla Congregazione per la Dottrina della Fede, di cui
Ratzinger era prefetto, e essere poi diventato il suo segretario particolare.
«L’intenzione di Papa Benedetto - ha spiegato Gänswein,
66 anni, nell'intervista - era stata quella di aiutare coloro che avevano
semplicemente trovato una casa nella Messa antica, a trovare una pace
interiore, trovare una pace liturgica e anche di allontanarli da Lefebvre. Se
si pensa per quanti secoli la Messa antica è stata fonte di vita spirituale e
nutrimento per tanti santi, è impossibile immaginare che non abbia più nulla da
offrire. E non dimentichiamo tutti quei giovani che sono nati dopo il Concilio
Vaticano II e non sanno nulla dei drammi che circondarono il Concilio Vaticano
II. Togliere questo tesoro alla gente, perché? Non credo di poter dire di
essere a mio agio con questo».
La lettera apostolica di papa Francesco, pubblicata sotto
forma di motu proprio (ovvero un documento che una decisione del Papa autonoma,
inappellabile e immediatamente valida per tutta la Chiesa cattolica)
nasceva per «ristabilire in tutta la Chiesa di Rito romano una sola e
identica preghiera che esprima la sua unità, secondo i libri liturgici
promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai
decreti del Concilio Vaticano II e in linea con la tradizione della Chiesa»,
abrogando quindi «tutte le norme, le istruzioni, le concessioni e le
consuetudini precedenti al presente Motu Proprio». Ovvero il «Summorum
Pontificum», il motu proprio di Benedetto del luglio 2007, che invece dava
piena libertà di celebrazione con l'antico rituale: libertà che dall'anno
scorso è invece soggetta a autorizzazioni dei vescovi e richieste specifiche.
Cosa che specialmente per i fedeli Usa, generalmente molto tradizionalisti, e
anche altrove ha creato malcontento e in alcuni casi ha fatto parlare di
«sedevacantismo», come se Francesco non fosse il legittimo Pontefice. Polemiche
però spente sempre dallo stesso Benedetto, che ha ripetuto più volte: «Il
Papa è solo uno, Francesco». Aggiungendo in un'intervista, proprio a proposito
della Messa tradizionale: «Per me era importante che la Chiesa preservasse
la continuità interna con il suo passato. Che ciò che prima era sacro non
divenisse da un momento all’altro una cosa sbagliata. Il rito si deve evolvere.
Per questo è stata annunciata la riforma. Ma l’identità non deve spezzarsi».
Laddove invece Francesco spiegò di essere intervenuto proprio «per evitare
divisioni all'interno della Chiesa».
Ma quali sono le differenze fra la Messa tridentina e
quella del Novus Ordo? A parte la lingua usata, rigorosamente il latino, la
prima (che prende il nome dal Concilio di Trento) fu promulgata da papa Pio V
nel 1570, su richiesta dei Padri conciliari e sulla base della tradizione dal
III secolo in poi. Il sacerdote celebra con le spalle all'assemblea (dopo il
Concilio Vaticano II in tutte le chiese antiche del mondo sono stati aggiunti
altari che permettessero la celebrazione rivolti verso i fedeli, con risultati
architettonici non sempre eccelsi, a dire il vero) con paramenti più solenni,
il «manipolo», ovvero una piccola stola sul braccio, e i guanti. E la
celebrazione non era «comunitaria» come oggi: i fedeli assistevano,
non «concelebravano». Infine la Messa durava molto di più, circa un terzo
di quella attuale. E le chiese venivano costruite in modo che il celebrante
guardasse sempre a oriente. Il rito Novus Ordo invece assegna un'importanza
maggiore alla comunità dei fedeli e alla loro partecipazione.
Monsignor Gänswein ha poi raccontato ai media vaticani
gli ultimi momenti di Benedetto XVI. «Le sue ultime parole non le ho sentite
io, ma un infermiere di guardia, la notte prima della morte, verso le 3:
“Signore, ti amo”. Me l'ha detto la mattina appena sono arrivato nella camera
da letto, sono state le sue ultime parole comprensibili. Di solito pregavamo le
lodi davanti al suo letto: anche quella mattina ho detto al Santo Padre:
`Facciamo come ieri: io prego ad alta voce e lei si unisce spiritualmente´. Non
riusciva proprio più pregare ad alta voce, era già affannato». Racconta ancora
il segretario del defunto Papa: «Lì ha soltanto un po' aperto gli occhi, aveva
capito la domanda, e ha fatto segno di sì con la testa». E aggiunge: «Verso le
8 ha iniziava a respirare male, l'affanno era sempre più forte. C'erano due
medici, il dottor Polisca e un rianimatore, e mi hanno detto: "Temiamo che
stia arrivando il momento della sua ultima lotta terrena". Ho chiamato le
memores e anche suor Brigida, perché si era arrivati all'agonia. In quel
momento era lucido. Avevo già preparato prima le preghiere di accompagnamento
per il moribondo, e abbiamo pregato per circa 15 minuti, tutti insieme mentre
Benedetto XVI respirava sempre più affannato, sempre più si vedeva che non
riusciva a respirare bene. Allora ho guardato uno dei dottori e ho chiesto se
il Papa fosse entrato in agonia. Mi ha detto: `Sì, ma non sappiamo quanto
durerà". Ognuno poi ha pregato in silenzio, e alle 9.34 ha fatto l'ultimo
respiro. Poi abbiamo continuato le preghiere non più per il moribondo ma per il
morto. E abbiamo concluso cantando “Alma Redemptoris Mater”». Commenta il
segretario di sempre: «È morto nell'ottava di Natale, il suo tempo liturgico
preferito, nel giorno di un suo predecessore, San Silvestro, Papa sotto
l'Imperatore Costantino. Era stato eletto nella data in cui si celebra un Papa
tedesco, san Leone IX, dell'Alsazia; è morto nel giorno di un Papa romano, san
Silvestro. Ho detto a tutti: "Chiamo subito Papa Francesco, è il primo che
deve sapere”. L'ho chiamato, e lui ha detto: “Vengo subito!”. L'ho accompagnato
nella stanza da letto dove è morto e ho detto a tutti: “Rimanete”. Lo ha
salutato, gli ho offerto una sedia, si è seduto accanto al letto e ha pregato.
Ha dato la benedizione e poi si è congedato». CdS 4
La prefazione di Papa Francesco al libro di Benedetto XVI: "Dio è
sempre nuovo"
Il testo del pontefice accompagna questa ampia antologia
intorno ai principali temi della fede cristiana nelle parole di Ratzinger,
deceduto il 31 dicembre 2022, disponibile dal 14 gennaio di Papa Francesco
Sono lieto che il lettore possa avere tra le mani questo
testo di pensieri spirituali del compianto Papa Benedetto XVI. Il titolo già
esprime uno degli aspetti più caratteristici del magistero e della stessa
visione della fede del mio predecessore: sì, Dio è sempre nuovo perché Lui è
fonte e ragione di bellezza, di grazia e di verità. Dio non è mai ripetitivo,
Dio ci sorprende, Dio porta novità. La freschezza spirituale che traspare da
queste pagine lo confermano con intensità.
Benedetto XVI faceva teologia in ginocchio. Il suo
argomentare la fede era compiuto con la devozione dell'uomo che ha abbandonato
tutto se stesso a Dio e che, sotto la guida dello Spirito Santo, cercava una
sempre maggior compenetrazione del mistero di quel Gesù che lo aveva
affascinato fin da giovane.
La raccolta di pensieri spirituali che viene presentata
in queste pagine mostra la capacità creativa di Benedetto XVI nel saper
indagare i vari aspetti del cristianesimo con una fecondità di immagini, di
linguaggio e di prospettiva che diventano uno stimolo continuo a coltivare il
dono prezioso dell'accogliere Dio nella propria vita. Il modo nel quale
Benedetto XVI ha saputo far interagire cuore e ragione, pensiero e affetti,
razionalità ed emozione costituisce un modello fecondo su come poter raccontare
a tutti la forza dirompente del Vangelo.
Il lettore lo vedrà confermato in queste pagine, che
rappresentano - anche grazie alla competenza del Curatore, cui va il nostro
sentito ringraziamento - una sorta di "sintesi spirituale" degli
scritti di Benedetto XVI: qui brilla la sua capacità di mostrare sempre nuova
la profondità della fede cristiana. Ne basta un piccolo florilegio. "Dio è
un evento di amore", espressione che da sola rende giustizia con pienezza
di una teologia sempre armoniosa tra ragione e affetto. "Che cosa mai
potrebbe salvarci se non l'amore?" ha chiesto ai giovani nella veglia di
preghiera a Colonia, nel 2006, meditazione qui opportunamente ricordata,
ponendo una domanda che fa eco a Fëdor Dostoevskij. E quando parla della
Chiesa, la passione ecclesiale gli fa pronunciare parole quanto mai innervate
di appartenenza e affezione: "Non siamo un centro di produzione, non siamo
un'impresa finalizzata al profitto, siamo Chiesa".
La profondità del pensiero di Joseph, che si fondava
sulla Sacra Scrittura e sui Padri della Chiesa ci è di aiuto ancor oggi. Queste
pagine affrontano un ventaglio di tematiche spirituali e ci sono di stimolo nel
rimanere aperti all'orizzonte dell'eternità che il cristianesimo ha nel proprio
dna. Quello di Benedetto XVI è e rimarrà sempre un pensiero e un magistero
fecondo nel tempo, perché ha saputo concentrarsi sui riferimenti fondamentali
della nostra vita cristiana: anzitutto, la persona e la parola di Gesù Cristo, inoltre
le virtù teologali, ovvero la carità, la speranza, la fede. E di questo tutta
la Chiesa gliene sarà grata. Per sempre.
In Benedetto XVI una devozione incessante e un magistero
illuminato si sono saldati in un'alleanza armonica. Quante volte ha parlato
della bellezza con parole toccanti! Benedetto ha sempre considerato la bellezza
come una strada privilegiata per aprire gli uomini e le donne al trascendente e
così poter incontrare Dio, che era per lui il compito più alto e la missione
più urgente della Chiesa. In particolare, la musica è stata per lui un'arte
vicina con cui elevare lo spirito e l'interiorità. Ma ciò non gli faceva
distogliere l'attenzione, da vero uomo di fede, alle grandi e spinose questioni
del nostro tempo, osservate e analizzate con consapevole giudizio e un
coraggioso spirito critico. Dall'ascolto della Scrittura, letta nella
tradizione sempre viva della Chiesa, ha saputo fin da giovane attingere quella
sapienza utile e indispensabile per stabilire un confronto dialogante con la cultura
del proprio tempo, come queste pagine confermano.
Ringraziamo Dio per averci donato Papa Benedetto XVI: con
la sua parola e la sua testimonianza ci ha insegnato che con la riflessione,
con il pensiero, lo studio, l'ascolto, il dialogo e soprattutto la preghiera è
possibile servire la Chiesa e fare del bene a tutta l'umanità; ci ha offerto
strumenti intellettuali vivi per permettere ad ogni credente di rendere ragione
della propria speranza ricorrendo ad un modo di pensare e di comunicare che
potesse essere inteso dai propri contemporanei. Il suo intento era costante:
entrare in dialogo con tutti per cercare insieme le vie tramite le quali
incontrare Dio.
Questa ricerca del dialogo con la cultura del proprio
tempo è sempre stato un desiderio ardente di Joseph Ratzinger: lui, da teologo
prima e da pastore dopo, non si è mai confinato in una cultura solo
intellettualistica, disincarnata dalla storia degli uomini e del mondo. Con il
suo esempio di intellettuale ricco di amore e di entusiasmo (che etimologicamente
significa essere in Dio) ci ha mostrato la possibilità che ricercare la verità
è possibile, e che lasciarsene possedere è quanto di più alto lo spirito umano
possa raggiungere. In tale cammino tutte le dimensioni dell'essere umano, la
ragione e la fede, l'intelligenza e la spiritualità, hanno un proprio ruolo e
una propria specificità.
La pienezza della nostra esistenza, ci ha ricordato con
la parola e l'esempio Benedetto XVI, si trova solo nell'incontro personale con
Gesù Cristo, il Vivente, il Logos incarnato, la rivelazione piena e definitiva
di Dio, che in Lui si manifesta Amore fino alla fine. Questo è il mio augurio
al lettore: che possa trovare in queste pagine attraversate dalla voce
appassionata e mite di un maestro di fede e di speranza la grazia di un nuovo e
vivificante incontro con Gesù. LR 3
Una lettura interessante, in preparazione alla Settimana
di preghiera per l’unità dei cristiani e in vista della Giornata del dialogo
interreligioso.
Benedetto XVI sapeva parlare pure a chi la rifiutava.
Papa Francesco ce lo ricorda quasi ogni giorno: la fede non è una “ninna
nanna”, ma un fuoco acceso per agire. Il compito di riaccendere questa fiamma
per non evadere dalle sfide della vita spetta anche agli operatori dei media,
soprattutto attraverso il racconto di testimonianze che aiutino ad uscire
dall’individualismo, a vincere l’egoismo. Una conversione necessaria per
predisporsi all’incontro, all’ascolto, all’accoglienza, compresi naturalmente i
poveri e i più bisognosi. Paradigmi questi del Cammino sinodale intrapreso
dalla Chiesa universale non solo per rinnovarsi, ma pure per aprirsi allo
stesso tempo al dialogo con le altre confessioni religiose. Proprio per
l’afflato ecumenico che trasmette e per i riferimenti ad esperienze vissute da
imitare come modello di crescita personale, è da consigliare la lettura del
volume “Narrare la Fede” di Renato Burigana (Pacini editore, pagine 168, euro
16), soprattutto in preparazione alla Settimana di preghiera per l’unità dei
cristiani (18-25 gennaio) e più avanti in vista della Giornata del dialogo
interreligioso (18 ottobre).
Giornalista, insegnante di religione nei licei fiorentini
e di Teologia ecumenica presso l’Istituto Ippolito Galantini, Burigana ha
fondato e dirige con il fratello Riccardo la rivista della Fondazione Giovanni
Paolo II, “Colloquia Mediterranea”, nata a Firenze nel 2011. Un profilo
arricchito da significative esperienze maturate come addetto stampa prima
del cardinale Silvano Piovanelli e poi di Mario Primicerio quand’era alla guida
della giunta di Palazzo Vecchio, memoria storica e compagno di viaggio del
“sindaco santo” Giorgio La Pira in importanti missioni di pace.
Aneddoti in parte inediti si intrecciano armonicamente
con analisi di documenti elaborati con finalità pastorali ma rivolto pure a chi
lavora nei Media. Spazio quindi all’“Inter Mirifica”, il primo decreto del
Concilio Vaticano II sugli strumenti della comunicazione sociale promulgato da
Paolo VI il 4 dicembre 1963, che con la Parola di Dio ha fatto da bussola pure
nei successivi pontificati di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI ed ora anche con
Bergoglio, aggiornata nell’annuale Messaggio per l’emergere di nuove
strade, in particolare “di quelle digitali affollate di umanità, spesso ferita:
uomini e donne che cercano una salvezza ed una speranza”.
Le riflessioni di Renato Burigana si soffermano
sull’insegnamento di due grandi arcivescovi come i cardinali Silvano Piovanelli
e Carlo Maria Martini: entrambi hanno lasciato un segno profondo sia nella
Comunicazione (non trascurando l’esempio solenne offerto dalla liturgia) che
nell’affrontare con coraggio e lungimiranza il dialogo interreligioso. Per cui
oggi - in presenza di guerre senza fine e di conflitti dimenticati - possiamo
affermare che le tre grandi religioni abramitiche possono “giocare” un ruolo
fondamentale, legando insieme comunicazione e cultura, narrazione ed
evangelizzazione. Convinzione suffragata sul fronte mediorientale dalle
testimonianze di padre Ibrahim Faltas (vicario della Custodia di Terra Santa,
che rievoca la provvidenziale telefonata d’incoraggiamento di Giovanni Paolo II
durante l’assedio armato della Basilica della Natività di Betlemme del 2002),
delle monache agostiniane del Monastero di clausura di Pennabilli, del rabbino
Gad Fernando Piperno e del’Imam Izzedin Elzir. Un confronto a più voci, in cui
la comunicazione si fa comunione.
Antonio Lovascio, Uncs 3
Trasmettere la fede nell’era digitale
Dai linguaggi più differenti al silenzio e alla
preghiera: Gisotti traccia il ritratto di Benedetto XVI, "comunicatore
notevole".
Che sia stato un grande teologo è unanimemente
riconosciuto, ma Joseph Ratzinger è stato anche un comunicatore notevole, con
una cifra propria, la cui eredità supererà senza dubbio il limite temporale
dell’esistenza terrena. Il fatto che Benedetto XVI non sia stato
un comunicatore per le masse (per quanto nelle Gmg abbia attratto
l’attenzione di milioni di giovani) non toglie affatto valore al suo stile di
comunicazione. Innanzitutto, come teologo ha dimostrato che anche temi di alto
livello intellettuale possono essere spiegati ai semplici ed essere alla
portata di un pubblico ampio e non solo degli specialisti. Il successo del
suo Introduzione al Cristianesimo, che è tutt’oggi — ad oltre 50 anni dalla
pubblicazione — un best seller mondiale della pubblicistica religiosa, dimostra
la innata capacità di Ratzinger di rendere ragione della fede in Gesù Cristo e
di farlo con argomenti chiari e con un linguaggio affascinante e convincente.
Altrettanto si può dire per la trilogia su Gesù di
Nazaret, un’opera nella quale Joseph Ratzinger ha messo tutto se stesso,
riuscendo a completarla prima della rinuncia, nonostante le fatiche del governo
della Chiesa universale. Si può perciò affermare che Benedetto XVI è
stato un grande testimone della fede — e della sua ragionevolezza, come emerge
da ultimo nel testamento spirituale — pure per il modo con il quale ha saputo
comunicarla. In particolare, attraverso i suoi scritti, i suoi discorsi (alcuni
memorabili, come ricordato da più parti in questi giorni) e le sue omelie,
definite «sublimi» da padre Federico Lombardi per la sapiente armonia tra
teologia, conoscenza delle Scritture e spiritualità.
Al Papa tedesco non sono mancati tuttavia i gesti e il
coraggio di “rischiare” nel vasto campo della comunicazione.
Benedetto XVI è stato il primo Pontefice ad incontrare delle vittime
di abusi sessuali da parte di esponenti del clero. Un atto di grande
significato anche comunicativo in cui Ratzinger ha messo al centro l’ascolto.
Un ascoltare — lo si è visto negli incontri durante i viaggi internazionali —
lontano dai riflettori e contraddistinto dalla disponibilità e dall’empatia,
condizioni essenziali per avviare quel processo di conversione del cuore che
oggi Francesco porta avanti convintamente e che è stato alla base del Summit
sulla protezione dei minori del febbraio 2019. Pur non essendo mancate critiche
da certi media per alcune sue decisioni, Benedetto XVI ha sempre
mantenuto un atteggiamento positivo rispetto al mondo dell’informazione e degli
operatori della comunicazione. Dalla conversazione con il giornalista tedesco
Peter Seewald è nato Luce del mondo, libro che spazia su tutte le
questioni più delicate del suo Pontificato, fino a toccare il tema della
rinuncia. Benedetto XVI è anche il primo Pontefice ad aver inviato
degli sms (ai giovani della Gmg di Sydney), a dialogare con gli astronauti
della Stazione spaziale internazionale, a rispondere a delle domande in Tv in
occasione del Venerdì Santo (quello del 2011), mentre nel Natale dell’anno dopo
firma un editoriale sul Financial Times incentrato sull’impegno dei
cristiani nel mondo di oggi.
Soprattutto, Benedetto XVI è il primo Papa che
si confronta con l’irrompere sulla scena dei social network che rimodellano
profondamente il contesto comunicativo globale proprio negli anni del suo
Pontificato. Ben cinque dei suoi otto messaggi per le Giornate delle
comunicazioni sociali sono dedicati a questo inedito areopago digitale. Insieme
costituiscono una sorta di compendio del magistero della Chiesa su tale nuova
realtà che ha cambiato non solo il nostro modo di comunicare ma anche quello di
relazionarci con gli altri. Benedetto XVI coglie immediatamente il
senso della rivoluzione dei social, che non sono tanto un mezzo da utilizzare
quanto un ambiente da abitare. Conia dunque per le reti sociali la definizione
“continente digitale”. Un continente, al pari di quelli geografici, che
richiede l’impegno dei fedeli — in particolare dei laici, in linea
con Inter mirifica — per evangelizzare questo nuovo territorio di
missione. Il Papa comprende anche che va superata la distinzione tra virtuale e
reale giacché quanto viene condiviso, e commentato, sulle nuove piattaforme ha
conseguenze concrete sulla vita vissuta delle persone.
Benedetto XVI incoraggia i cristiani ad essere
testimoni digitali più che influencer, a trasformare le reti sociali in
«porte di verità e di fede». E non si limita a farlo con le parole. Il 12
dicembre del 2012 per la prima volta un Papa pubblica un tweet attraverso
l’account @Pontifex aperto pochi giorni prima. Si tratta di un gesto che viene
paragonato da alcuni all’istituzione della Radio Vaticana da parte di
Pio XI . Non tutti approvano, temendo un’esposizione del Papa a
critiche e offese, ma Benedetto XVI è convinto di una scelta che va
nella direzione della nuova evangelizzazione. Ancora una volta un Papa sa
cogliere le potenzialità delle innovazioni tecnologiche per raggiungere persone
che, altrimenti, rimarrebbero escluse dall’annuncio evangelico. Poche settimane
dopo l’apertura dell’account, Benedetto XVI rinuncia al ministero
petrino, ma @Pontifex viene “riattivato” da Francesco che oggi, attraverso i
suoi tweet in 9 lingue, raggiunge ogni giorno oltre 50 milioni di follower. Se
dunque nei quasi 8 anni di pontificato, Benedetto XVI ha comunicato
utilizzando i linguaggi più differenti con creatività e coraggio, nei quasi 10
anni da Papa emerito la sua comunicazione ha assunto una forma diversa,
invisibile ma non per questo meno efficace: la forma del silenzio e della
preghiera.
Alessandro Gisotti, vicedirettore editoriale dei
media vaticani
L'Osservatore Romano, 3 gennaio
La solidarietà della Chiesa in Italia. Mons. Baturi in visita ad Ischia
Curare le ferite della popolazione con la preghiera e il
sostegno concreto. Questo il senso della visita a Ischia che Mons. Giuseppe
Baturi, Arcivescovo di Cagliari e Segretario Generale della CEI, ha compiuto
oggi, insieme al direttore di Caritas Italiana, don Marco Pagniello, per
incontrare la comunità dopo la frana dello scorso 26 novembre che ha causato 12
morti e centinaia di sfollati nel comune di Casamicciola.
“Siamo qui – ha affermato Mons. Baturi – per manifestare
la prossimità di tutta la Chiesa alla popolazione, a quanti soffrono per una
ferita gravissima, a chi ha perduto, a causa di un evento così tragico, i
propri cari, le proprie case. Siamo qui anche per verificare quali sono i
bisogni più immediati e quelli di prospettiva, per essere concreti nella
solidarietà e nella vicinanza. Non è possibile pensare il futuro senza un
dialogo con la popolazione, senza ascoltare, nella distinzione dei ruoli, ma
anche nella chiarezza delle informazioni. Non bisogna sottovalutare che chi
vive nella propria carne i disagi spesso individua con più facilità anche le
soluzioni. Accanto a questo diritto di fare proposte, c’è poi quello a
denunciare, ad alzare la voce se necessario. Bisogna costruire insieme. Ho
visto gente spalare, costruire rifugi: questo è il simbolo di chi non vuole
essere solo destinatario dell’aiuto, ma si mette a lavorare. Questo presuppone
uno stare insieme: il momento più delicato è quando si ricomincia, quando si
fanno progetti e aiutarsi vicendevolmente è una forza. Come Chiesa ci
siamo, vogliamo esserci, promuovendo incontri, dando la nostra solidarietà al
Vescovo e alla popolazione, attivando processi di informazione. Questa è la
prima visita, non ne mancheranno altre”.
Dopo aver espresso vicinanza nell’immediato al Vescovo,
Mons. Gennaro Pascarella, la CEI ha continuato ad accompagnare – in particolare
tramite Caritas Italiana – la Chiesa locale e i tanti volontari che si sono
mobilitati sin dalla prima fase dell’emergenza, per liberare le strade dal
fango, accogliere gli sfollati, fornire generi di prima necessità, offrire un
servizio di ascolto, sostegno morale e psicologico alle famiglie sfollate e in
particolare ai più fragili.
Già lo scorso 2 dicembre don Pagniello era stato
sull’isola per testimoniare vicinanza e fare il punto con la Chiesa locale
sugli interventi. In stretto contatto con la delegazione regionale e con la
Caritas diocesana, Caritas Italiana prosegue nell’impegno di restare accanto a
quanti hanno perso familiari e amici e anche la propria casa o il proprio
lavoro. “Segno di speranza – ha ribadito il direttore di Caritas Italiana – è
la grande mobilitazione e la partecipazione della popolazione locale, che pur
nel dolore, con responsabilità si è dimostrata capace di grande solidarietà e
va ora incoraggiata e sostenuta in questa delicata fase di ripartenza e di
ricostruzione, perché nessuno sia lasciato indietro e soprattutto vi sia
concretezza, trasparenza e certezza nei tempi”. Cei 3
Per un profilo storico di Benedetto XVI
Nell’aprile 2005 un rapido conclave, durato due giorni,
portava all’elezione al governo della Chiesa universale di Joseph Ratzinger,
dal 1981 uno dei più stretti collaboratori di Giovanni Paolo II.
In quell’anno Wojtyla lo aveva infatti sollevato dalla
guida della diocesi di Monaco, che reggeva dal 1977 dopo una lunga carriera
trascorsa nelle università tedesche come professore di teologia prima a Tubinga
poi a Ratisbona, ponendolo alla direzione della Congregazione per la dottrina
della fede.
Da Ratzinger a Benedetto XVI
Nonostante l’età ormai avanzata (era nato nel 1927), la
scelta del conclave appariva abbastanza prevedibile. Il cardinale aveva svolto
negli ultimi tempi all’interno della curia romana ruoli cruciali: decano del
sacro collegio dal 2002, nel marzo 2005 aveva guidato la via Crucis in
sostituzione dell’ammalato pontefice; aveva poi presieduto la messa per le sue
esequie e aveva, infine, presieduto le celebrazioni liturgiche pro eligendo
romano pontefice.
In queste occasioni – e in altri interventi di quei
giorni, come una celebre conferenza tenuta a Subiaco sull’Europa nella crisi
delle culture – i suoi discorsi presentavano una tesi di fondo: alla drammatica
crisi ecclesiale in atto si poteva far fronte con un irrigidimento delle misure
promosse dal predecessore di cui sarebbe stato strumento un potenziamento del
ministero papale.
Si può dunque pensare che i cardinali elettori abbiano
ritenuto di dover conferire il governo della Chiesa universale ad una
personalità che, trovandosi da più di due decenni al centro degli affari
ecclesiastici, aveva formulato una diagnosi e proposto una terapia per
affrontare la difficile eredità lasciata da Giovanni Paolo II.
Non c’è dubbio che le misure promosse dal prefetto della
Congregazione per la dottrina della fede negli anni precedenti avevano
sollevato nella comunità ecclesiale diverse perplessità e critiche. Basta
pensare alle censure nei confronti della teologia della liberazione, al
confinamento della funzione ecclesiologica delle conferenze episcopali al piano
pratico-pastorale, alla proclamazione della definitività delle proposizioni
espresse dal magistero in materia di fede e di costumi, al trasferimento di
competenze sui casi di pedofilia del clero dalla Congregazione del clero
all’ex-Sant’Ufficio, una misura che finiva per aumentare la segretezza attorno
a vicende su cui era esplosa la richiesta di trasparenza.
Ma è anche vero che Ratzinger godeva di un certo
prestigio in ambienti progressisti: era stato uno dei periti più in vista del
Concilio Vaticano II, dove aveva collaborato con l’arcivescovo di Colonia,
Josef Frings, un autorevole esponente della corrente innovatrice.
Aveva in particolare sostenuto con puntuali
argomentazioni teologiche l’approvazione della costituzione sulla Chiesa Lumen
gentium. Nonostante il successivo scontro con Hans Küng, non aveva mai
abbandonato il richiamo all’assise ecumenica, anche se aveva sottolineato che
solo al magistero spettava la corretta interpretazione delle sue deliberazioni.
Poteva insomma apparire una scelta richiesta dalle
complesse condizioni del momento affidare al cardinal Ratzinger l’attuazione di
una linea capace di mantenere la fondamentale istanza conciliare – che, in
termini generali, si può identificare in un rinnovamento della Chiesa allo
scopo di restituirle efficacia apostolica nel mondo contemporaneo –,
adeguandola poi nelle sue concrete applicazioni alla difficile situazione
ecclesiale su cui egli stesso aveva richiamato l’attenzione.
Il disegno di un pontificato
Il nuovo pontefice – che assunse il nome di Benedetto XVI
non solo in omaggio al messaggio di pace che Della Chiesa aveva lanciato nel
mondo dilaniato dalla Grande guerra, ma anche, e assai significativamente, in
ricordo di san Benedetto da Norcia che si era prodigato nell’evangelizzazione
del mondo pagano – avrebbe ben presto ribadito l’ancoraggio delle sue posizioni
al Vaticano II.
Ma avrebbe anche chiarito che, nell’interpretarlo, il
magistero doveva filtrare l’esigenza di adeguamento della Chiesa ai tempi
moderni alla luce di un principio supremo: la continuità della tradizione.
Naturalmente il principio, di per sé, costituiva un’asse
portante della dottrina cattolica; ma, per quanto riguardava il rapporto tra la
Chiesa e il mondo moderno, il papa faceva rientrare nella tradizione anche
assai recenti concezioni teologiche, in particolare la rielaborazione
dell’eredità controriformistica compiuta dall’intransigentismo cattolico
otto-novecentesco.
Questo atteggiamento è emerso sul piano esteriore con la
decisione di rimettere in auge abiti (il saturno, il camauro), paramenti
liturgici (il pallio, le mitrie e i piviali tradizionali), oggetti (la ferula e
il tronetto di Pio IX) da tempo abbandonati nelle apparizioni pubbliche dei
pontefici del post-concilio.
Ma ha trovato la sua più eclatante espressione con il
motu proprio Summorum pontificum che, nel luglio 2007, reintroduceva la
liturgia pre-conciliare, proclamando la singolare tesi che, nella Chiesa
cattolica di rito latino, convivevano una modalità ordinaria della preghiera (quella
introdotta dalla riforma liturgica di Paolo VI) e una modalità straordinaria
(quella sancita nel 1570 dal cosiddetto messale di san Pio V).
Al di là di precipitose correzioni – come la nuova
preghiera per gli ebrei inserita nella cerimonia del Venerdì santo del rito
straordinario per evitarne l’incongruenza con i documenti conciliari, senza
toccare le altre parti della liturgia che pure li contraddicevano –, il
provvedimento aveva ragione nel progetto di riassorbire lo scisma del
tradizionalismo anti-conciliare.
Nel gennaio 2009, infatti, la Congregazione dei vescovi
emanava un decreto che revocava la scomunica inflitta da Giovanni Paolo II. I
successivi incontri tra le due parti registrarono indubbie convergenze. Ma si
arenarono su una questione: le garanzie canoniche chieste dai tradizionalisti,
allo scopo di poter mettere in discussione le interpretazioni delle
deliberazioni del Vaticano II date dal magistero. Benedetto XVI non riteneva
insomma di poter spingere la volontà di reintrodurre la comunità
anti-conciliare nella comunione ecclesiale fino al punto di consentirle di
mettere in questione la suprema autorità del papato.
L’intangibilità del potere monarchico del pontefice sulla
Chiesa aveva costituito lo scoglio su cui si era infranto il disegno di
Ratzinger di chiudere lo scisma tradizionalista. Per quanto avesse definito il
raggiungimento di questo obiettivo come un punto centrale del suo programma di
governo, è difficile stabilire un collegamento diretto tra questa sconfitta e
l’inattesa decisione enunciata nell’allocuzione al concistoro del febbraio
2013, di rinunciare al ministero petrino. L’atto, che non ha precedenti
nella storia della Chiesa dell’età moderna e contemporanea, è stato variamente
spiegato.
Per alcuni rientra in una decisione maturata fin dai
primi anni del pontificato: lo mostrerebbe la deposizione del pallio sulla
tomba di Celestino V, il papa del “gran rifiuto”, durante la visita alla
basilica di Collemaggio a L’Aquila compiuta da Ratzinger nell’aprile 2009.
Altri hanno sottolineato la difficoltà di guidare la
Chiesa universale davanti alle evidenti divisioni della curia romana in ordine
alle misure da adottare per far fronte al moltiplicarsi degli scandali
finanziari che coinvolgevano istituzioni vaticane e per prendere provvedimenti
adeguati sulle sempre più frequenti rivelazioni circa la tolleranza dei
responsabili ecclesiastici, e perfino della Santa Sede, davanti alla denuncia
di abusi sessuali commessi dal clero, in particolare in ordine ai casi di
pedofilia.
Lo stesso Ratzinger ha chiarito che, di fronte ai
complessi problemi che pone oggi il governo della Chiesa universale, ha
ritenuto di non aver più le forze sufficienti per prendere le misure necessarie
ad una sua guida efficiente. Non c’è ragione di dubitare di questa
interpretazione. Ma naturalmente il giudizio storico non può assumere
acriticamente la valutazione espressa da un protagonista delle vicende
considerate. Si tratta, infatti, di capire bene in cosa consiste
l’inadeguatezza personale che il pontefice ha indicato come ragione delle sue
dimissioni.
Governare il post-concilio
Occorre a questo proposito ritornare alla questione
centrale con cui, a partire dal Concilio Vaticano II, la Chiesa si è dovuta
misurare: come trasmettere il messaggio evangelico a un uomo moderno che sempre
più si allontana dalla Chiesa? La linea pastorale a lungo praticata – proporre
una società cristianamente ordinata come via per risolvere i problemi che la
modernità poneva e non scioglieva – non appariva più in grado di recuperare i “lontani”.
Occorreva un aggiornamento. A questo proposito l’assise
ecumenica ha fornito una risposta che, molto sommariamente, possiamo ritenere
abbia oscillato tra due poli.
Da un lato, ha prospettato una linea di apertura al mondo
moderno caratterizzata dal criterio di una rilettura del Vangelo alla luce dei
segni dei tempi. Secondo quest’ottica, la Chiesa restituisce efficacia alla sua
azione pastorale nella misura in cui impara dalla storia quali sono gli
elementi del messaggio evangelico capaci di intercettare le istanze del
presente e i bisogni profondi dell’uomo di oggi.
Dall’altro lato, ha presentato una prospettiva di
aggiornamento della dottrina cattolica basata sull’inquadramento al suo interno
di alcuni principi e valori della modernità. In particolare, ai fedeli si
assegna il compito di costruire un retto ordine della vita collettiva basato
sulla conformazione del consorzio civile ad una legge naturale valida per
tutti, sempre e dovunque – di cui la Chiesa è l’unica autentica interprete e
depositaria – all’interno della quale vengono ora fatti rientrare valori
moderni come i diritti umani, la democrazia, la libertà religiosa.
I papi del post-concilio, non senza articolazioni e
differenziazioni, hanno scelto questa seconda via. La cultura cattolica
preconciliare riteneva di poter rispondere all’allontanamento dell’uomo moderno
dalla Chiesa con il progetto di ritorno ad un regime di cristianità, che
avrebbe assicurato una convivenza sociale prospera e felice in contrapposizione
alle inadeguate proposte (liberali o comuniste) che gli uomini avevano
elaborato nel loro cammino storico.
Senza tradire il Vaticano II – ma optando per una linea
tra gli orientamenti presenti nei suoi documenti – i pontefici che hanno
cercato di tradurre le deliberazioni dell’assemblea ecumenica in una concreta
linea di governo hanno ritenuto di proporre ai contemporanei un’ammodernata
neo-cristianità che faceva perno sull’universale legge naturale garantita dalla
Chiesa. Benedetto XVI ne è stato l’interprete più conseguente.
Ne era probabilmente all’origine una visione culturale
introiettata nel corso di un percorso formativo avvenuto prima della svolta
giovannea e conciliare. In effetti, in armonia con le tendenze di quell’epoca,
il sapere trasmesso nelle istituzioni educative della Chiesa evitava ogni serio
confronto con la storia, ed in particolare con la storia del cristianesimo, nel
timore di cadere nell’eresia modernista. Il pensiero teologico di Ratzinger,
per quanto raffinato, era del tutto alieno dal confronto con l’effettivo
divenire dell’uomo e della Chiesa nel tempo.
Comunque sia, il papa rispondeva alla crisi determinata
dall’allontanamento dei contemporanei dal cattolicesimo con una linea che
riprendeva l’ammodernamento dottrinale: la restituzione alla Chiesa del compito
di fissare, nei pubblici ordinamenti, quei fondamentali diritti che, basati
sull’universale legge naturale, salvaguardavano le fondamenta stesse della
civiltà umana, le avrebbe assicurato un’efficace presenza apostolica nella
società contemporanea.
In particolare l’Europa, riconoscendo formalmente le
radici cristiane del suo progetto politico-sociale, sarebbe uscita dalla sua
decadenza, ritornando a svolgere un rilevante ruolo storico e politico nel
rapporto con altre civiltà e religioni, in particolare quella islamica, che
avanzavano, talora anche aggressivamente, sulla scena di un pianeta
globalizzato.
Per quanto l’incidente sia stato ricucito sul piano
diplomatico, l’attribuzione all’islam di una strutturale tendenza alla violenza
bellica nel discorso tenuto dal pontefice nel settembre 2006 a Ratisbona
rientra in questo quadro.
Questa prospettiva ha ben presto rivelato tutta la sua
fragilità. Non solo perché si è scontrata con l’irriducibile tendenza dell’uomo
moderno all’emancipazione dalla tutela ecclesiastica nella strutturazione della
comunità politica. Soprattutto perché è apparsa sfasata rispetto al profilarsi
della post-modernità.
Come se la storia non esistesse
Per quanto sia arduo darne una definizione condivisa, la
possiamo considerare caratterizzata dalla rivendicazione della facoltà per ogni
individuo di autodeterminare le forme dell’esistenza non solo in relazione agli
assetti politici, sociali e culturali della vita collettiva, ma anche in
rapporto alle più profonde strutture antropologiche del soggetto (il corpo, la
nascita e la morte, l’identità sessuale ecc.).
In questa situazione, l’ammodernata neo-cristianità
proposta dal papa appariva del tutto obsoleta: il richiamo alla legge naturale,
lungi dal restituire capacità apostolica alla Chiesa, finiva per provocare un
ulteriore allontanamento degli uomini da essa. La crisi del paradigma di
aggiornamento adottato da Benedetto XVI è apparsa inevitabile.
Le dimissioni sono state il riconoscimento della sua
inadeguatezza. Non a caso la linea del successore fa perno sul recupero di
quella prospettiva di rinnovamento ecclesiale, incentrato sull’accettazione dei
segni dei tempi emergenti dalla storia, che il papato post-conciliare aveva
abbandonato.
Sotto questo profilo la rinuncia al governo della Chiesa
universale appare un atto di straordinaria lucidità e responsabilità. Si può
discutere se la concreta gestione dell’inedita funzione di “papa emerito” che
Ratzinger si è poi riservato sia stata coerente con questa decisione.
Gli interventi da lui compiuti in questa veste continuano
a rivelare quella sordità alla storia che è elemento costitutivo della sua
personalità intellettuale: la semplicistica attribuzione della pedofilia del
clero alla rivoluzione sessuale del Sessantotto ne è una delle più evidenti
testimonianze. Ma queste esternazioni non hanno certo impedito che al modello
ecclesiale della “cittadella assediata dal mondo moderno” si sostituisse ormai
quello “dell’ospedale da campo” all’interno della storia degli uomini.
Naturalmente riconoscere l’autonomia dell’uomo d’oggi,
offrendo la medicina della misericordia alle ferite che incontra nel suo
cammino storico, non garantisce il superamento della crisi cattolica. Ma le
dimissioni di Benedetto XVI hanno rivelato che la strada dell’ammodernamento
percorso fino a quel momento dal papato post-conciliare era un vicolo senza
uscita. Daniele Menozzi Sett.News 31
Tre encicliche in otto anni di pontificato: due dedicate
ad altrettante virtù teologali – l’amore e la speranza - e la terza alla
dottrina sociale della Chiesa - M.Michela Nicolais
Tre encicliche in otto anni di pontificato: due dedicate
ad altrettante virtù teologali – l’amore e la speranza – e la terza alla
dottrina sociale della Chiesa. La prima enciclica di Papa Benedetto, Deus
caritas est, è stata pubblicata il 25 gennaio 2006, dopo nove mesi di
pontificato, firmata esattamente un mese prima, nel Natale 2005 e annunciata –
in modo fino ad allora irrituale – il 18 gennaio 2006, nel corso dell’udienza
generale, in cui Benedetto XVI si soffermò sui concetti chiave della sua
enciclica sull’amore cristiano: eros ed agape, viste come due dimensioni
coessenziali dell’amore che si richiamano reciprocamente e che trovano la loro
espressione più profonda, rispettivamente, nella famiglia fondata sul
matrimonio e nelle relazioni fraterne che devono animare la società.
L’Enciclica è articolata in due grandi parti. La prima offre una riflessione
teologico-filosofica sull’”amore” nelle sue diverse dimensioni – eros, philia,
agape – precisando alcuni dati essenziali dell’amore di Dio per l’uomo e
dell’intrinseco legame che tale amore ha con quello umano. La seconda parte
tratta dell’esercizio concreto del comandamento dell’amore verso il prossimo. La
seconda enciclica di Benedetto XVI, Spe Salvi, è ispirata ad una frase di San
Paolo: “Nella speranza siamo stati salvati” (Rm 8,24). La speranza cristiana
non ha una dimensione solamente terrena, argomenta Benedetto: Gesù Cristo,
infatti, ci ha condotto all’“incontro con una speranza che era più forte delle
sofferenze della schiavitù e che per questo trasformava dal di dentro la vita e
il mondo”. La speranza cristiana, inoltre, non è in “qualcosa” ma in
“Qualcuno”: è la fonte della vera libertà, in contrapposizione con i falsi miti
del progresso e della scienza. Quest’ultima, in particolare “non redime
l’uomo”, scrive il Papa, anzi, se male utilizzata, “può anche distruggere
l’uomo e il mondo”. Quattro i luoghi della speranza indicati da Ratzinger: la preghiera,
in quanto Dio non nega mai il suo ascolto; l’azione che implica soprattutto il
lato altruistico della speranza, l’impegno affinché “il mondo diventi un po’
più luminoso e umano”; la sofferenza che “permette di maturare, di trovare
senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore” e il
giudizio di Dio, ovvero la giustizia divina finale che “revoca” la sofferenza
passata. Firmata il 29 giugno 2009, anche la terza enciclica, Caritas in
Veritate, è ispirata a una frase di San Paolo: “Agire secondo la verità nella
carità” (cfr Ef 4,15). La carità, spiega Benedetto XVI nell’introduzione, “è la
via maestra della dottrina sociale della Chiesa” e, dato “il rischio di
fraintenderla, di estrometterla dal vissuto etico”, va coniugata con la verità.
Ricordando il messaggio sempre attuale della Populorum progressio (1967) di
Paolo VI, Ratzinger si sofferma sul concetto di “bene comune”, messo in
pericolo da fenomeni degenerativi come la finanza speculativa, la cattiva
gestione dei flussi migratori, lo sfruttamento sregolato delle risorse della
terra, i tagli indiscriminati alle spese sociali. Per superare la crisi
economica globale e le disuguaglianze sociali sempre più evidenti, è necessario
rimettere al centro l’uomo, prima di tutto rispettando la vita umana dal
concepimento alla morte naturale e rigettando pratiche come l’aborto e
all’eutanasia. La stessa economia di mercato, se vuole umanizzarsi, deve
smettere di “contare solo su se stessa” e di essere un “luogo della
sopraffazione del forte sul debole”, riscoprendo, invece, la logica del dono.
Centrale, nella Caritas in veritate, è anche il concetto di “ecologia umana”,
che comporta il dovere di rispettare l’ambiente e usare in modo responsabile la
natura come dono di Dio. Sir 2
Ritratto.Benedetto XVI: inno alla coscienza
È l’immagine di un volto sereno e mite quella che apre il
ricordo di Benedetto XVI, uno sguardo che rifletteva la profondità
intellettuale e spirituale di un uomo di preghiera, di pensiero, di parola.
È l’immagine di un uomo che di buon mattino con passo
veloce e leggero attraversava piazza San Pietro per recarsi al palazzo della
Congregazione per la dottrina della fede. Lo si incrociava con il desiderio di
porgergli un saluto che ricambiava con amabilità interessandosi del lavoro di
chi lo stava salutando.
È l’immagine del Papa che alla Giornata Mondiale della
Gioventù a Colonia 2005, immerso nel fiume dei giovani, sembrava smarrito
mentre era affascinato da quella voglia di vivere e da quell’ attesa di una
parola nuova. E poi alla Gmg di Madrid 2011 quando un furioso temporale serale
lo costrinse a lasciare a malincuore il luogo ma non i giovani che lì si erano
radunati e con i quali il mattino dopo condivise la trepidazione per la notte
sotto la pioggia.
A queste immagini giornalistiche se ne affiancano altre
che richiamano momenti della vita, del pontificato, richiamano gesti di amore
alla Chiesa e parole intrise di passione per la Verità, per il colloquio tra la
ragione e la fede.
Il filo robusto di un’umiltà radicata nel Vangelo legava
immagini e parole che facevano trasparire nel suo sguardo la tenerezza di Dio.
E con questo filo si intrecciava quello della cura della coscienza, del luogo
in cui avvengono la ricerca della Verità, l’incontro con la Verità.
Quanta attualità e quanta profezia nelle riflessioni e
nel magistero di quegli anni!
La coscienza e la formazione della coscienza erano sempre
state al centro delle preoccupazioni di Joseph Ratzinger, ne parlava con un
linguaggio educativo che trasmetteva il senso, la fatica e la bellezza del
pensare e del pensare la fede. Rivolgendosi a una Conferenza internazionale di
studio nel 1994 ebbe a ricordare: che “alcuni dei maggiori crimini dei giorni
nostri sono stati perpetrati, e lo sono tuttora, proprio in nome della coscienza
individuale come se non esistesse una norma superiore. La coscienza non crea la
verità ma si limita a individuarla e attuarla. Come insegna san Bonaventura la
coscienza è come l’araldo e il messaggero di Dio, non impone le cose in nome
della propria autorità ma le impone in quanto provenienti dall’autorità
divina”.
L’inno alla coscienza accompagnò i suoi passi nel tempo,
si levò nei momenti più difficili come fu quello della scelta di ritirarsi. È
diventato la sua eredità
Un’eredità da coltivare e condividere perché l’uomo nella
tempesta della storia non smarrisca la direzione del cammino verso la felicità,
perché il cristiano sia pronto a testimoniare e annunciare la Verità, compagna
fedele e insostituibile della pace e della giustizia. Paolo Bustaffa, Sir 2
Benedetto XVI, il ricordo di don Pierluigi (Amburgo): rinuncia e alcuni
segni del pontificato
Amburgo – La morte di Papa Benedetto XVI richiama alla
mente, non tanto la sua figura di illuminato teologo già dai tempi del Concilio
Vaticano II, non quello di giovane Arcivescovo di Monaco e poi Prefetto della
Congregazione per la Dottrina della Fede, non quello di amante di Dio, dei
libri, della Musica (Mozart in particolare), dei gatti; ma la sua rinuncia al
Pontificato e alcuni segni avvenuti durante il suo Pontificato. L’ultimo papa
che si dimise fu 600 anni prima, Gregorio XII nel 1415, e prima ancora Celestino
V, nel 1294. È difficile delineare un ritratto di Benedetto XVI, forse quasi
impossibile, non per gli aspetti molteplici che hanno attraversato la sua
esistenza ma per il carico di complessità che la sua vita di teologo, uomo di
Chiesa e intellettuale ha sostenuto. Nel corso del suo pontificato, Benedetto
XVI, iniziò un percorso di riforme strutturali attuando sia in termini canonici
che morali il principio dell’ermeneutica della continuità ovvero la concezione
per cui il Concilio Vaticano II si deve porre in piena sintonia con la storia
della Chiesa e ne aggiorni la prassi e le pratiche ma non rivoluzioni quella
che è la tradizione liturgica. Per Benedetto XVI “conservare” non è chiudersi
ma continuare nel solco di una tradizione leggendo i tempi e cercando di
prestare fede alle Scritture. Ma ciò che va ricordato è che Benedetto XVI non
ha mai avuto ripensamenti sulla sua rinuncia. L’ultimo documentario pubblicato
proprio in Germania conferma una sensazione comune: Joseph Ratzinger non ha mai
tergiversato su quanto deciso nel 2013 e nonostante tutto ogni volta che l’ex
Papa prendeva una posizione in pubblico, il coro dei progressisti interveniva o
si agitava, a dispetto di quanto una televisione tedesca proprio due anni fa –
di questi tempi – decise di dedicare un video reportage di mezz’ora sul Papa
emerito mediante cui è stato possibile approfondire numerosi dettagli della
vita che Benedetto XVI. Un’esistenza fatta soprattutto di preghiera e letture.
E tra le note più rilevanti, c’è il virgolettato di monsignor Georg Gänswein,
suo fedele segretario, che affermò: “le dimissioni sono state una decisione
lunga, ben pregata e sofferta, di cui non si è mai pentito. Il Papa è
completamente in pace con sé stesso”. La vicenda, quindi, può non essere più
dibattuta. Per quanto il caso della rinuncia continui ad interessare le
cronache di chi cerca motivazioni differenti da quelle comunicate all’epoca dal
Santo Padre. La “ingravescentem aetatem” non ha ancora persuaso tutti. Ma
comunque la sua voce, nonostante l’età si è fatta sempre sentire. Ed ora
ricordiamo solo due episodi di fatti eclatanti accaduti nel suo pontificato, la
visita in Benin nel 2011 ed il fulmine che colpisce il Cupolone nel giorno
delle dimissioni. Erano circa 80 mila i fedeli presenti alla messa del Papa in
quella domenica di novembre del 2011 e tutti hanno potuto vedere insieme la
luna e il sole, evento rarissimo a quella latitudine. E alcuni parlarono di
“miracolo”. All’indomani della messa celebrata da Benedetto XVI nello Stadio de
l’Amitiè di Cotonou, anche i vescovi del Benin si sono interrogati sullo
straordinario fenomeno che ha consentito alle 8 del mattino agli 80 mila fedeli
presenti di vedere insieme la luna e il sole, un evento rarissimo in Africa a
quella latitudine, che ha suscitato grande stupore nella folla, come riferì ai
giornalisti il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, padre Federico
Lombardi. Tanto più che non pochi fedeli hanno dichiarato di aver visto anche
il sole muoversi e risplendere senza accecare, così da poterlo guardare a lungo
senza problemi. Un fenomeno interpretato dagli africani come un prodigio dovuto
alla presenza del Papa, ma che ha turbato anche gli operatori dei media e molti
vescovi, anche perché, a quanto si è appreso, non è stato un fatto isolato ma
si è ripetuto altre volte nel corso della visita. Monsignor Renè-Marie Ehuzu,
vescovo di Porto Novo e presidente della Commissione Pastorale Sociale della
Conferenza Episcopale del Benin, nonché responsabile organizzativo della visita
papale nel Paese, dichiarò all’Agi che “sabato pomeriggio, quando il Papa nel
tragitto verso la parrocchia di Santa Rita, alla periferia di Cotonou, si è
fermato per salutare e benedire gli ammalati dell’ospedale che si trova lì
vicino, si è verificato un fenomeno analogo, tanto che gli ospiti del nosocomio
hanno voluto recarsi nella Cappella per una preghiera di ringraziamento”. “Per
tutti e tre i giorni della visita – ha affermato il presule – ci sono
testimonianze su eventi simili e foto scattate con i cellulari dai testimoni,
in qualche caso sacerdoti. Personalmente non so dare una spiegazione ma escludo
che si tratti di un fenomeno di isteria collettiva”. “La luna è attualmente
molto vicina al sole (una piccola falce visibile prima dell’alba), perciò è
impossibile vederla insieme al sole, cioè quando questo è alto nel cielo. Se
era visibile, è evidente che il bagliore del sole era temperato, come appunto
dicono i testimoni”. Il Papa ha portato la luce di Cristo.
E poi la foto, che ha fatto il giro del mondo, e che non
è una fake ma semplicemente autentica per varie e fortunate coincidenze, oltre
a pazienza e bravura del fotografo: il fulmine la sera delle dimissioni di Papa
Benedetto XVI. Alla morte di San Giovanni Paolo II, quella sera piazza San
Pietro era gremita di gente, la sera delle dimissioni di Papa Benedetto XVI
piazza San Pietro era vuota e desolata, solo il temporale che si apprestava a
cadere su Roma e così fu ed i fulmini che squarciavano il cielo, tra cui quelli
che cadevano sulla Basilica e quello ripreso sul Cupolone.
Molti hanno interpretato questo accadimento così come
quello in Africa come dei segni del cielo. Ora lui certamente gode della
visione beatifica di Dio e dovrà continuare a pregare per noi così come noi per
la sua anima benedetta.
don Pierluigi Vignola, MCI Amburgo
Benedetto XVI: un magistero che ha fatto sentire ancora di più la Chiesa
vicina al popolo in cammino
Città del Vaticano – Da questa mattina sono migliaia i
fedeli da tutto il mondo che si sono messi in fila per rendere omaggio alla
salma del papa emerito Benedetto XVI esposta nella Basilica di San Pietro, in
Vaticano. Il Papa emerito è morto sabato 31 dicembre alle 0re 9,34. Poco prima,
intorno alle 3, le sue ultime parole pronunciate in italiano: “Gesù ti
amo”. Era presente solo un infermiere che non parla il tedesco e che ha sentito
le parole pronunciate da Ratzinger. “Benedetto XVI – ha raccontato il suo
segretario, il vescovo Georg Gänswein – con un filo di voce, ma in modo ben
distinguibile, ha detto, in italiano: ‘Signore ti amo!’ Io in quel momento non
c’ero, ma l’infermiere me l’ha raccontato poco dopo. Sono state le sue ultime
parole comprensibili, perché successivamente non è stato più in grado di
esprimersi”. Il Papa emerito è morto nel Monastero “Mater Ecclesia”, in Vaticano
dove abitava dal 2005 dopo la sua rinuncia al trono pontificio. Questa mattina
la traslazione, in forma privata, nella basilica Vaticana dove il primo a
rendergli omaggio è stato il presidente della Repubblica Italiana, Sergio
Mattarella. Benedetto XVI è vestito con paramenti liturgici rossi, la mitra del
vescovo, il rosario e una croce tra le mani. Ai piedi un paio di scarpe nere,
non quelle rosse che usava quando era il pontefice regnante. I funeral, in
forma sobria, giovedì 5 gennaio alle ore 9,30 presieduti da papa Francesco che
in questi giorni ha più volte ricordato il suo predecessore. Ricco il magistero
sul tema delle migrazioni durante il suo pontificato. Molti ricordano
alcuni incontri straordinari con il mondo della mobilità umana, come quello con
i rom e quello con lo spettacolo viaggiante. Otto i messaggi per la Giornata
Mondiale del Migrante e del Rifugiato dal 2006 al 2013: le migrazioni come un
‘segno dei tempi’ (2006), la famiglia migrante diversa (2007), la provocazione
dei giovani migranti (2008), il valore dell’ospitalità (2009), il dramma dei
minori migranti (2010), le migrazioni e l’unità della famiglia umana (2011), le
migrazioni e la nuova evangelizzazione (2012), le migrazioni come
pellegrinaggio di fede e di speranza (2013). E come dicevamo i due incontri per
il mondo dei rom (11 giugno 2011) e per la gente dello spettacolo viaggiante (1
dicembre 2012). Grazie papa Benedetto XVI per queste occasioni e per il suo
magistero che hanno fatto sentire ancora di più la Chiesa vicina al popolo
in cammino, tra le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce di questo
mondo. Raffaele Iaria, Migrantes 2
Benedetto XVI: liturgia, musica e Concilio
Musica, liturgia e Concilio Vaticano II, tre aspetti
fondamentali per Papa Benedetto XVI- Di Marco Mancini
CITTÀ DEL VATICANO. Benedetto XVI nella sua vita è sempre
stato un amante della musica. Nell’estate 2015 a Castel Gandolfo in
occasione del conferimento del dottorato honoris causa da parte della
Pontificia Università Giovanni Paolo II e dell’Accademia di Musica di Cracovia,
il Papa Emerito soffermò su tre parole chiave: musica, liturgia e Concilio
Vaticano II.
Nel corso del suo Pontificato, Papa Benedetto ha
sottolineato a più riprese l'importanza della liturgia. In occasione dell'udienza
ai partecipanti al Convegno promosso dal Pontificio Istituto Liturgico
Sant’Anselmo, nel 2011, aveva sottolineato come la celebrazione liturgica
realizzasse "contemporaneamente un'epifania del Signore e un'epifania
della Chiesa, due dimensioni che si coniugano in unità nell'assemblea
liturgica, ove il Cristo attualizza il Mistero pasquale di morte e di
risurrezione e il popolo dei battezzati attinge più abbondantemente alle fonti
della salvezza. Nell'azione liturgica della Chiesa sussiste la presenza attiva
di Cristo: ciò che ha compiuto nel suo passaggio in mezzo agli uomini, Egli
continua a renderlo operante attraverso la sua personale azione sacramentale,
il cui centro è costituito dall'Eucaristia". "La Liturgia cristiana –
aveva aggiunto Benedetto XVI - è la Liturgia della promessa compiuta in Cristo,
ma è anche la Liturgia della speranza, del pellegrinaggio verso la
trasformazione del mondo, che avrà luogo quando Dio sarà tutto in tutti".
"La liturgia - spiegava il Papa nell'udienza
generale del 3 ottobre 2012 - non è una specie di auto-manifestazione di una
comunità, ma è invece l’uscire dal semplice essere-se-stessi, essere chiusi in
se stessi, e l’accedere al grande banchetto, l’entrare nella grande comunità
vivente, nella quale Dio stesso ci nutre. La liturgia implica universalità e
questo carattere universale deve entrare sempre di nuovo nella consapevolezza
di tutti. La liturgia cristiana è il culto del tempio universale che è Cristo
Risorto, le cui braccia sono distese sulla croce per attirare tutti
nell’abbraccio dell’amore eterno di Dio. E’ il culto del cielo aperto. Non è
mai solamente l’evento di una comunità singola, con una sua collocazione nel
tempo e nello spazio. E’ importante che ogni cristiano si senta e sia realmente
inserito in questo noi universale, che fornisce il fondamento e il rifugio
all’io, nel Corpo di Cristo che è la Chiesa".
Nella musica e nella sua bellezza e armonia, Benedetto
XVI vedeva la bellezza e l'armonia della Chiesa stessa. In occasione - nel
corso del Viaggio in Baviera del 2006 - della benedizione del nuovo organo
della Basilica della Alte Kapelle di Ratisbona, il Papa usò la metafora
dell'organo per sottolineare come "le numerose canne e i registri devono
formare un'unità. Se più canne non sono più ben intonate, allora si hanno delle
stonature e la cosa comincia a divenire insopportabile. Anche le canne di
quest'organo sono esposte a cambiamenti di temperatura e a fattori di
affaticamento. È questa un'immagine della nostra comunità nella Chiesa. Come
nell'organo una mano esperta deve sempre di nuovo riportare le disarmonie alla
retta consonanza così dobbiamo anche nella Chiesa, nella varietà dei doni e dei
carismi, trovare mediante la comunione nella fede sempre di nuovo l'accordo
nella lode di Dio e nell'amore fraterno".
"La musica sacra - era ed è la convinzione di Papa
Benedetto espressa nel 2012 all'Associazione Italiana Santa Cecilia - può
favorire la fede e cooperare alla nuova evangelizzazione. La partecipazione
attiva dell’intero Popolo di Dio alla liturgia non consiste solo nel parlare,
ma anche nell’ascoltare, nell’accogliere con i sensi e con lo spirito la
Parola, e questo vale anche per la musica sacra".
Più volte, specialmente nell'Anno della Fede, Benedetto
XVI ha fatto riferimento alla costituzione del Concilio Vaticano II sulla
liturgia. Attraverso la musica sacra molte "persone sono state toccate nel
profondo dell’animo e si sono sentite nuovamente attirati verso Dio dalla
bellezza della musica liturgica". Musica e liturgia nella Chiesa sono
dunque per Benedetto due potenti strumenti di evangelizzazione, e non due
accessori facoltativi. Aci 2
Ratzinger e le dimissioni: gli intrighi, le pressioni. E a Napolitano
anticipò: «Non ne posso più»
Andrea Riccardi spiega cosa portò Benedetto XVI alle
dimissioni: «Capì di non riuscire più a governare e non voleva farsi
strumentalizzare. A Napolitano anticipò la sua decisione»
Stavo concludendo la biografia di Giovanni Paolo II ed
ebbi una conversazione in proposito con Benedetto XVI, il principale
collaboratore di Wojtyla.
Questi lo stimava molto: «È l’ultimo teologo del Vaticano
II», disse di lui.
Ratzinger, riconosciuto intellettuale europeo (faceva
parte dell’Académie Française), integrava con la sua dottrina le intuizioni
mistiche e carismatiche di Wojtyla.
Il cardinale lo ammirava: «Sollevava i continenti»,
scrisse di lui. Anche se non condivideva tutto, come la preghiera
interreligiosa di Assisi, ma anche gli ultimi tempi di pontificato, segnati da
una malattia vissuta di fronte al mondo.
Il mio colloquio con Ratzinger mi rivelò, ancora una
volta, il suo atteggiamento cordiale e paritario. Faceva domande e mostrava
grande capacità di ascolto, come chi sente di poter sempre imparare e di conoscere
poco la vita. Eppure era aggiornato. Lo vidi quando, a un pranzo di Sant’Egidio
con i poveri, incontrò gente di vari Paesi e ricordava a ciascuno la situazione
della propria patria.
Nel colloquio con lui, mi colpì, oltre i discorsi, la sua
gestione dei rapporti. Mi fece aspettare in anticamera più di mezz’ora. Non era
un problema per me. Però, quando entrai da lui, era turbato: si scusava
eccessivamente dell’attesa, accennando al cardinale in udienza prima di me,
come di uno un po’ invadente, che non rispetta gli orari.
Mi colpì: una persona, come il Papa, ha molti modi di
congedare. Ma non era facile, per lui, timido e mite, gestire i rapporti,
specie con i prepotenti o gli insensibili.
Quando, nel 1981, venne in Curia come prefetto della
dottrina della fede, condivideva un progetto con Wojtyla: «Uscire dalla crisi
della Chiesa, massima fedeltà al Vaticano II, proseguire la recezione del
Concilio». Mi disse: «No a una riforma strutturale, ma una riforma spirituale».
Ratzinger mi parlò del governo di Wojtyla, che talvolta
agiva fuori dai canali istituzionali, e della Segreteria di Stato: «C’è una
dialettica di sempre tra la persona e l’istituzione, anche con la Segreteria di
Stato, che pur stimava. Wojtyla veniva da fuori. Per Paolo VI e Pio XII era
diverso: venivano dalla Segreteria».
Anche Benedetto veniva dalla Curia. Ma non si sentiva un
curiale e conduceva una vita riservata.
Non ha mai avuto un governo extraistituzionale come
Wojtyla o, in altro modo, Francesco: si è servito della Curia, ma ne ha sentito
il peso.
Un papa malato come Wojtyla non si doveva dimettere? «In
una visione retrospettiva — disse Benedetto — vediamo che è stata una catechesi
del dolore. Era un tipo di governo. Si governa con la sofferenza. Ma non sempre
è possibile; si può solo dopo un pontificato così lungo. Dopo tanta vita attiva
era giusta una pausa di sofferenza. Anche in un mondo dove si nasconde la
sofferenza che, invece, è parte dell’essere umano».
L’omaggio dei fedeli a Benedetto XVI, in diretta
Benedetto non amava mostrare la malattia. Wojtyla, quando
si parlava di dimissioni, rispose: «Gesù non è sceso dalla croce». La scelta di
Ratzinger è in tutt’altro senso.
Non la spiegano i motivi di salute. Ha pesato molto — a
mio avviso — la coscienza di non essere più in grado di guidare la Chiesa,
anche perché sottoposto a varie pressioni.
Non voleva assolutamente che persone o ambienti gli
prendessero la mano in un governo che considerava sua responsabilità personale.
Così rimise il ministero ai cardinali e credeva che lo
Spirito avrebbe indicato il nuovo papa.
Il 4 febbraio 2013, al concerto in Vaticano, prevenne il
presidente Napolitano delle sue imminenti dimissioni. Di fronte a un presidente
perplesso e a qualche sua obiezione, sembra abbia concluso: «Non ne posso più».
Nel colloquio con Ratzinger, parlammo pure dell’origine
di Wojtyla e del suo messianismo polacco: «Era un patriottismo vero, che da un
popolo sofferente sviluppa la speranza». Wojtyla — aggiunse — «parlava di un
nuovo Avvento e di un tempo di gioia del cristianesimo». «L’ho visto
sofferente, ma non triste», concluse.
Benedetto XVI aveva in comune con Wojtyla la convinzione
che, se il cristianesimo avesse perduto l’Europa, sarebbe stato un dramma per
l’intera Chiesa nel mondo. Non è stato, come Francesco, un Papa che viene da
lontano. Tedesco, anzi bavarese, amante di Roma e dell’Italia, di cultura
francese, si muoveva a suo agio nei dibattiti politici e intellettuali del
continente.
Gli raccontai di un colloquio di molti anni prima con
Wojtyla. Gli avevo espresso l’idea che il Pci fosse diverso dai partiti
«fratelli». Wojtyla mi aveva guardato perplesso e critico. Benedetto sorrise e
sorprendentemente disse: «No, aveva ragione lei. Il Pci ha nella sua storia una
figura come Gramsci che lo ha reso diverso». E si mise a parlare
dettagliatamente di Gramsci.
Era un uomo forte, seppure timido, quasi
accondiscendente. Mi disse il segretario, don Georg: «Niente di più fermo della
decisione dei miti». Non aveva l’audacia di Wojtyla, che convocò le religioni
ad Assisi nel 1986: per Ratzinger ci furono «malintesi», ma c’erano anche
«intenzioni pure». Credeva però che «le religioni debbono essere strumenti di
pace». Infatti, per i venticinque anni della preghiera wojtyliana, tornò ad
Assisi per celebrarne l’anniversario. Tale era il suo senso di continuità e di
fedeltà alla storia della Chiesa.
Ratzinger è stato uomo di fede e un grande intellettuale,
un europeo complesso, contraddittorio e sfaccettato, nonostante la sua
linearità. Per questo, come si vede dopo la sua morte, nonostante i dieci anni
trascorsi nel silenzio, la sua figura interroga e interessa ancora. Andrea
Riccardi, CdS 2
Cei: messaggio in occasione della morte del Papa emerito Benedetto XVI
Roma – Pubblichiamo di seguito il Messaggio della
Presidenza della CEI per la morte del Papa emerito Benedetto XVI. Nel testo
vengono riportate anche alcune indicazioni liturgiche.
La Chiesa in Italia esprime profondo cordoglio per la
morte del Papa emerito Benedetto XVI. Ritornano le parole della “declaratio”
del 10 febbraio 2013, quando rinunciò al ministero petrino: «Per quanto mi
riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata
alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio». Anche nel momento della debolezza
umana, ha dimostrato la forza che viene dalla fede in Cristo (2Cor 12,10) e
l’importanza di una relazione profonda che nasce dalla preghiera nello Spirito
(Gd 20).
In queste ore risuona nel cuore di ciascuno di noi il suo
invito a «sentire la gioia di essere cristiano, perché Dio ci ama e attende che
anche noi lo amiamo». La sua vita fondata sull’amore è stata un riflesso della
sua relazione con Dio e, nell’ultimo tratto della sua esistenza, ha reso
visibile questa relazione con il Signore, custodendo il silenzio.
Ringraziamo il Signore per il dono della sua vita e del
suo servizio alla Chiesa: testimonianza esemplare di quella ricerca incessante
del volto del Signore (Sal 27,8), che oggi può finalmente contemplare faccia a
faccia (1Cor 13,12).
La Chiesa in Italia, in particolare, gli è riconoscente
per l’impulso dato alla nuova evangelizzazione: ricordiamo l’esortazione,
rivolta in occasione del Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona, a portare
«con rinnovato slancio a questa amata Nazione, e in ogni angolo della terra, la
gioiosa testimonianza di Gesù risorto, speranza dell’Italia e del mondo».
In questo momento, facciamo nostra la sua preghiera alla
Vergine di Loreto, a cui affidiamo la sua anima: «Proteggi il nostro Paese,
perché rimanga un Paese credente; perché la fede ci doni l’amore e la speranza
che ci indica la strada dall’oggi verso il domani. Tu, Madre buona, soccorrici
nella vita e nell’ora della morte».
Invitiamo le comunità locali a riunirsi in preghiera e a
celebrare la messa in suffragio del Papa emerito Benedetto XVI. È opportuno
utilizzare uno dei formulari proposti dal Messale Romano per le Messe dei
defunti «Per il Papa» (pp. 976-977). Nei testi si dovrà aggiungere la dicitura
«il Papa emerito Benedetto XVI». Precisiamo, inoltre, che nella colletta dello
schema B e nell’orazione sulle offerte dello schema A si dovrà dire «il tuo
servo, il Papa emerito Benedetto XVI».
La Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana
Bischof Peter Kohlgraf warnt vor
Hass-Dynamiken
Der Mainzer Bischof Peter
Kohlgraf zeigt sich besorgt über einen zunehmenden Hass im Ukraine-Krieg. Neben
allen Gräueltaten der russischen Angreifer sei zuletzt auch immer wieder von
Menschen aus der Ukraine die Reaktion „Wir werden euch nie vergeben“ zu
vernehmen gewesen, sagte Kohlgraf am Sonntag in einer Predigt in Worms.
Ihn lasse „eine solche
Aussage erschaudern“, betonte der Präsident der Friedensbewegung Pax Christi in
Deutschland anlässlich des Weltfriedenstages 2023.
Kein Anspruch auf Vergebung
Zwar gebe es „keinen Anspruch
auf Vergebung angesichts unbeschreiblicher Kriegsverbrechen“ gegen die
Zivilbevölkerung und die zivile Infrastruktur eines Landes. Doch müsse man sich
auch fragen, wie mit einer unversöhnlichen Haltung die Welt in den nächsten
Jahrzehnten gestaltet werden solle. „Wollen wir uns unsere Zukunft durch Hass
und den Gedanken der Rache vergiften lassen?“, fragte Kohlgraf. „Haben dann
nicht die Verbrecher gewonnen?“
Wie wollen wir in Zukunft
leben?
Der Pax-Christi-Präsident
prognostizierte: „Wir werden schwere Wege gehen, in Gegenwart und Zukunft.“
Denn angesichts zahlreicher Kriegsherde könne überall auf der Welt das Motto
„Wir werden euch nicht vergeben“ gelten. Papst Franziskus habe jüngst von einem
dritten Weltkrieg gesprochen. „Die Lage ist mehr als ernst“, betonte Kohlgraf.
Vergebung - keine Ignoranz
oder Vertuschung
Es werde in Zukunft Menschen
brauchen, „die sich nicht durch Rache und Hass bestimmen lassen, sondern durch
das Bemühen um Gerechtigkeit und Versöhnung“. Vom Evangelium her sei
dauerhafter Frieden eine Folge von Gerechtigkeit. Vergebung heiße dabei auch
nicht, den Mantel des Schweigens über Verbrechen zu decken. „Es entspricht dem
Evangelium, wenn Kriegsverbrecher Verantwortung übernehmen müssen für ihre
Taten, wenn den Opfern größtmögliche Gerechtigkeit widerfährt, wenn eine
internationale Gemeinschaft um die Einhaltung internationalen Rechts bemüht
ist“, fügte Kohlgraf hinzu. Vergebung bedeute nicht Vertuschung und nicht
Ignoranz.
(kna 15)
Papst: Gebet für Einheitswoche und
die Bischofssynode 2023
Papst Franziskus hat zur
Teilnahme an der Gebetswoche für die Einheit der Christen ermuntert, die
weltweit am 18. Januar startet. Beim Mittagsgebet kündigte er zugleich eine
ökumenische Gebetsvigil im September für die Bischofssynode zur Synodalität an.
Die Gebetswoche für die
Einheit der Christen 2023 steht unter dem Motto „Tut Gutes! Sucht das Recht“
(Jes 1,17), das aus dem ersten Kapitel des Buches Jesaja entnommen ist. Es
verweist darauf, dass Gott Recht und Gerechtigkeit von uns allen verlangt, und
zwar zu jeder Zeit und in allen Bereichen des Lebens.
„Danken wir dem Herrn, der
sein Volk treu und geduldig zur vollen Gemeinschaft führt, und bitten wir den
Heiligen Geist, uns mit seinen Gaben zu erleuchten und zu unterstützen“, sagte
der Papst beim Mittagsgebet über die Gebetswoche, die kommende Woche startet.
Franziskus schließt die Gebetswoche am 25. Januar selbst mit einer Vesper in
der römischen Basilika St. Paul vor den Mauern ab.
„Der Weg zur christlichen
Einheit und der Weg der Kirche zur synodalen Umkehr sind miteinander
verbunden“, fuhr der Papst am Sonntag fort und kündigte in diesem Zusammenhang
eine ökumenische Initiative an, bei der gemeinsam für die Bischofssynode zum
Thema Synodalität gebetet werden soll.
Ökumenische Gebetsvigil Ende
September
„Daher nutze ich die
Gelegenheit, um anzukündigen, dass am Samstag, dem 30. September, auf dem
Petersplatz eine ökumenische Gebetsvigil stattfinden wird, mit der wir Gott die
Arbeit der 16. ordentlichen Generalversammlung der Bischofssynode anvertrauen
werden.“
Für die teilnehmenden
Jugendlichen gebe es an diesem Wochenende im September „ein spezielles
Programm“, das von der Taizé-Gemeinschaft organisiert werde, so Franziskus
weiter. „Schon jetzt lade ich Brüder und Schwestern aller christlichen
Konfessionen ein, an dieser Versammlung des Volkes Gottes teilzunehmen.“
Abschluss der Weltsynode
Die erste Bischofssynode zum
Thema Synodalität soll im Oktober 2023, eine zweite dann im Jahr 2024 im
Vatikan stattfinden. Sie sind Zielpunkt der weltweit laufenden Weltsynode, die
sich aktuell in ihrer „kontinentalen Phase“ befindet.
Hier zum Hören
Live: Gebetswoche für die
Einheit der Christen
Ein Hinweis: Die Vesperfeier
in der römischen Basilika St. Paul vor den Mauern zum Abschluss der Gebetswoche
am 25. Januar mit Papst Franziskus übertragen wir live und mit deutschem
Kommentar auf unserer Homepage, Youtube und Facebook ab 17.30 Uhr. Am 25.
Januar feiert die katholische Kirche das Hochfest der Bekehrung des heiligen
Apostels Paulus. (vn 15)
Papst: „Wir brauchen das Genie
einer neuen Sprache“
Jesu
Botschaft freilegen und eine neue Sprache finden, um sie zu vermitteln – dazu
ruft Papst Franziskus im Vorwort zu einem neuen Jesusbuch auf, das an diesem
Samstag in Italien erscheint.
In
dem Buch „Una trama divina, Gesu nel controcampo“ begibt sich Antonio Spadaro
auf Spurensuche nach Jesus und seiner Botschaft. Der italienische Jesuit und
Autor ist Herausgeber der Zeitschrift „La Civiltà Cattolica“ und hat Papst
Franziskus bereits mehrere Male interviewt.
In
seinem siebenseitigen Vorwort zu Spadaros Buch regt Papst Franziskus dazu an,
Jesus in seiner Unangepasstheit und Authentizität wiederzuentdecken. Auf seine
Zeitgenossen habe der sanfte, doch bisweilen auch aufbrausende junge Mann, der
sich Kranken, Armen und Ausgegrenzten zuwandte, als Außenseiter gewirkt.
Zum
Hören: Papst Franziskus zu Jesus und dem Evangelium in einem Vorwort zum
Jesusbuch des Jesuiten Antonio Spadaro (Audio-Beitrag von Radio Vatikan)
„Gott
ist mit einer Geschichte, die erzählt werden kann, in das Netz der menschlichen
Angelegenheiten eingetreten.“
Jesu
Frage an seine Jünger „Ihr aber, für wen haltet ihr mich?“ (Mk 8,29) sei auch
heute ein Schlüssel, um in Kontakt zu treten mit dem Gottessohn, der „in das
Netz der menschlichen Angelegenheiten eingetreten“ sei, formuliert Papst
Franziskus.
Jesus
nicht zähmen oder verklären
„Wir
neigen dazu, Jesus zu zähmen, ihn liebenswert zu machen, aber auf eine Weise,
die seine Botschaft unnötig süß macht“, kritisiert Franziskus. Das Jesusbuch
„Una trama divina“ biete keine „erbauliche Geschichte“, sondern hebe das
„Hell-Dunkel, die Rauheit der Evangelien“ hervor, lobt der Papst. Bei der Suche
nach Jesus und seiner Botschaft öffne „eine gesunde, unbefriedigte Unruhe,
gepaart mit dem Erstaunen über das Neue (…) den Weg zur Kühnheit“, so
Franziskus, und er appelliert: „Wir dürfen das Feuer der Begegnung mit Jesus
nicht verlieren.“
„Ihr
aber, für wen haltet ihr mich? - Wir dürfen das Feuer der Begegnung mit Jesus
nicht verlieren.“
Laut
Franziskus muss Jesu Botschaft wieder neu entdeckt, ja geradezu freigeräumt
werden, wie er bildhaft beschreibt: „Lernen wir, den Staub, der sich auf den
Seiten des Evangeliums angesammelt hat, zu entfernen und seinen intensiven
Geschmack wiederzuentdecken.“ Wesentlich sei eine Jesuserfahrung mit allen
Sinnen, betont der Papst: „Man muss diesen Jesus ,sehen‘, seine Berührung auf
der Haut spüren, sonst wird der Gottessohn, der Meister, zu einer Abstraktion,
einer Idee, einer Utopie, einer Ideologie.“
Eine
Botschaft, die erschüttert
Der
Papst nimmt hierbei die Sprache in die Pflicht, auch die der Kirche, die sich
um eine Vermittlung von Jesu Botschaft bemüht. Das Evangelium dürfe nicht „in
Zuckerwatte“ gepackt oder abgemildert werden, warnt er: „Die Kirche muss sich
davor hüten, in die Falle einer banalen Sprache zu tappen, in Phrasen, die
mechanisch und müde wiederholt werden. Das Evangelium muss eine Quelle des
Glanzes und der Überraschung sein, die einen bis ins Mark erschüttern können.“
„Das
Genie einer neuen Sprache“
Gerade
angesichts der heutigen Krisenzeit brauche es „das Genie einer neuen Sprache“,
wendet sich Franziskus dann auch an Schriftsteller, Dichter und Künstler.
„Kraftvolle Geschichten und Bilder“ seien notwendig, um „die Botschaft des
Evangeliums in die Welt hinauszuschreien, um uns Jesus sehen zu lassen“,
appelliert der Papst in dem Vorwort zu dem Jesusbuch.
Zum
Buch
„Una
trama divina, Gesu nel controcampo“ von Antonio Spadaro SJ erscheint an diesem
Samstag beim italienischen Verlag Marsilio auf Italienisch. Der Titel kann ins
Deutsche etwa mit „Eine göttliche Geschichte, Jesus im Gegenschuss“ übersetzt
werden. Schuss und Gegenschuss sind eine Technik des Filmschnitts, die etwa zur
Darstellung von Dialogsituationen genutzt wird. (vn 14)
Franziskus: Gott bittet uns, den
Schwächsten zu dienen
Der
Papst hat Priester aufgerufen, den gegenwärtigen synodalen Prozess in der
Kirche „konkret mitzutragen“: Die Menschen von heute bräuchten Priester, die
fähig seien, ihnen zuzuhören und die Hoffnung Christi in ihnen neu zu entfachen,
und zwar mit ihrer Präsenz und ihrem Mitgefühl. Das sagte Franziskus an diesem
Samstagmorgen vor den Mitgliedern des Päpstlichen Nordamerikanischen Kollegs.
Mario Galgano – Vatikanstadt
Dialog,
Gemeinschaft und Mission: Das seien die drei wesentlichen Elemente für eine
lebendige Priesterausbildung. Papst Franziskus wies die Mitglieder des
Päpstlichen Nordamerikanischen Kollegs, die er im Vatikan empfing, auf diese
drei Schlagwörter hin. Das gelte insbesondere für die Priesteramtskandidaten,
die ihre Erfahrung des Studiums und der Unterscheidung im Glauben in Rom machen
würden.
Komm
und sieh
Einmal
mehr war es das Evangelium, das die Überlegungen des Papstes leitete: die
Begegnung zwischen Jesus und den Jüngern, die ihn zuerst suchen, dann befragen,
ihm folgen, bei ihm bleiben und schließlich andere mit ihrem Zeugnis anziehen.
Sie treten in einen Dialog mit dem Herrn, sie wollen ihn kennen lernen. „Komm
und sieh“, laute die Antwort des Meisters. Dazu der Papst:
„Im
Laufe eures Lebens und besonders während dieser Zeit der Seminarausbildung
tritt der Herr in einen persönlichen Dialog mit euch, indem er euch fragt: ,Was
sucht ihr?´, und euch einlädt, zu kommen und zu sehen, mit ihm zu sprechen,
indem ihr euer Herz öffnet und euch ihm vertrauensvoll im Glauben und in der
Liebe hingebt.“
In
Beziehung mit Jesus
Der
Papst forderte die Gäste auf, eine tägliche Beziehung zu Jesus zu pflegen, die
durch das Gebet, die Meditation des Wortes Gottes, die geistliche Begleitung
und das stille Hören vor dem Tabernakel genährt werde:
„Gerade
in diesen Momenten der familiären Beziehung zum Herrn können wir seine Stimme
am besten hören und entdecken, wie wir ihm und seinem Volk großzügig und von
ganzem Herzen dienen können.“
Bei
Gott bleiben
Man
müsse vom Hören auf die Gemeinschaft, „die aus dem Verbleiben beim Herrn“
entstehe, auf seine Worte und Gesten zugehen und lernen, „was der Vater“ zum
Verkünden brauche. Franziskus betonte, dass der priesterliche Weg eine ständige
Gemeinschaft mit Gott, aber auch mit der Kirche, einer im Leib Christi
vereinten Gemeinschaft, erfordere:
„Ich
lade Sie ein, die Augen offen zu halten sowohl für das Geheimnis der Einheit
der Kirche, die sich in ihrer legitimen Vielfalt manifestiert, aber in der
Einheit des Glaubens gelebt wird, als auch für das prophetische Zeugnis der
Nächstenliebe, das die Kirche, insbesondere hier in Rom, durch ihre konkreten
Taten des Teilens und der Hilfe für die Bedürftigen zum Ausdruck bringt.“
Solche
Erfahrungen der geschwisterlichen Liebe, so erklärte der Papst, befähigten
dazu, Gott in jedem Menschen zu sehen und so „die heilige Größe des Nächsten“
zu erfassen und die Mühen des Lebens gemeinsam zu ertragen.
„ie
Menschen von heute brauchen uns Priester, um ihre Fragen, ihre Ängste und ihre
Träume zu hören...“
Zeugen,
die anziehen
Die
Mission eines jeden Gläubigen entspringe aus dem Dialog und der Gemeinschaft
mit Jesus heraus: Die Jünger, so stellte Franziskus fest, seien
„hinausgegangen“, sobald sie berufen seien, „um andere mit ihrem Zeugnis
anzuziehen“:
„Wenn
Jesus Männer und Frauen beruft, dann tut er das immer, um sie auszusenden, vor
allem zu den Schwächsten und denen am Rande der Gesellschaft, denen wir nicht
nur dienen sollen, sondern von denen wir auch viel lernen können. Die Menschen
von heute brauchen uns, um ihre Fragen, ihre Ängste und ihre Träume zu hören,
damit wir sie besser zum Herrn begleiten können, der die Hoffnung neu entfacht
und das Leben aller erneuert.“
Deshalb,
so schloss der Papst, seien die Priester und Seminaristen aufgerufen, durch die
Ausübung von Werken der Barmherzigkeit, durch die verschiedenen Bildungs- und
Wohltätigkeitsapostolate Zeichen einer aufgeschlossenen Kirche zu sein, die
fähig sei, „die Gegenwart, das Mitgefühl und die Liebe Jesu zu teilen“. (vn 14)
Großes Afrika-Interview des
Papstes: Wider die Ausbeutungslogik
Der
Papst freut sich auf seine bevorstehende Afrikareise in den Kongo und Südsudan.
Das sagte er der spanischen Afrika-Zeitschrift „Mundo Negro“ in einem langen
Interview, das jetzt veröffentlicht wurde. Darin würdigt Franziskus den
geistigen Reichtum Afrikas und prangert die Logik der Ausbeutung, ideologische
Kolonalisierung und die europäische Abschottungspolitik an. Anne Preckel -
Vatikanstadt
Die
Zeitschrift „Mundo Negro“ veröffentlichte das bereits Mitte Dezember 2022
aufgezeichnete Gespräch am Freitag und mit Audio-Interviewausschnitten online,
wenige Tage vor Franziskus‘ Afrikareise in die Demokratische Republik Kongo und
den Südsudan. Der Papst hatte mehrfach den Wunsch geäußert, die beiden Länder
zu besuchen. Am 31. Januar tritt er die - ursprünglich für Juli geplante -
Reise an, die wegen seiner Knieprobleme verschoben worden war.
Zum
Nachhören - was der Papst sagte
Nächste
Afrikareise ein lang gehegter Traum
Die
Frage, ob er sich auf diese Reise „am meisten“ freue, beantwortet der Papst in
dem Interview mit „Ja“. Die Kirche der Demokratische Republik Kongo sei für ihn
wie ein „Bollwerk der Inspiration“, formuliert Franziskus, es sei „eine Kirche
mit Wurzeln“ und einer „eigenen Kultur“, was „beeindruckend“ sei, lobt der
Papst. Die kongolesische Gemeinschaft in Rom stehe ihm „sehr nahe“, ergänzt er.
Sie werde von einer charismatischen Ordensfrau geleitet, die er sehr schätze.
Dass
er im Kongo doch nicht Goma wie ursprünglich geplant besuchen werde, habe
nichts mit Angst um die eigene Sicherheit, sondern mit Sorge um die Menschen
vor Ort zu tun, erläutert Franziskus mit Verweis auf lokale Terrorgefahr: „Ich
lasse die Station nicht aus, weil ich Angst habe, mir wird nichts passieren,
aber bei einer solchen Atmosphäre und wenn ich sehe, was sie (die Guerilla,
Anm.) tun… sie werfen eine Bombe ins Stadion und töten viele Menschen. Wir
müssen uns um die Menschen kümmern.“
Der
Südsudan sei eine „leidende Gemeinschaft“, geht Franziskus auf die zweite
Reisestation ein. Dass er die Reise dorthin nun unternehmen kann, sei ein
„Traum“. Der Papst erinnert an den Friedenseinsatz für das Land, den er
gemeinsam mit dem Anglikaner-Primas Justin Welby und dem Delegierten der Kirche
von Schottland Jim Wallace seit Jahren vorantreibt. Bei einem Besuch der
verfeindeten politischen Führer des Südsudan 2019 im Vatikan hatte Franziskus
die Machthaber buchstäblich um Frieden „bekniet“ und ihnen die Füße geküsst.
Unvergessliche
Erfahrung in Bangui 2015
„Ich
schaue mir die Peripherie von innen an, nicht nur, weil sie mich intellektuell
interessiert.“
Seinen
„ersten intensiven Kontakt mit Afrika“ habe er in Bangui im Rahmen seiner Reise
in die Zentralafrikanische Republik (November 2015) gehabt, bekennt der Papst.
Sein Besuch sei in „eine Zeit des Übergangs“ gefallen, „in der die islamische
und die katholische Gemeinschaft sehr gespalten waren“, erinnert sich
Franziskus und lobt die wegweisenden Dialogbemühungen von Kardinal Dieudonné
Nzapalainga, dem evangelischen Pfarrer Nicolas Nguerekoyame und dem Imam Kobine
Layama: „Diese Erfahrung kann ich nicht vergessen“, so der Papst.
2015
ließ Franziskus in Bangui - an einem Ort der äußersten Peripherie aus
europäische Sicht - mit dem Öffnen der Heiligen Pforte das vom ihm ausgerufene
Heilige Jahr der Barmherzigkeit starten. Damals hatte der Papst gesagt: „Möge
Bangui die spirituelle Hauptstadt der Welt werden!" „Ich glaube, ich
habe mich schon immer für die Peripherie interessiert", so Franziskus
jetzt gegenüber „Mundo Negro“: „Ich schaue mir die Peripherie von innen an,
nicht nur, weil sie mich intellektuell interessiert.“
„Die
Vorstellung, dass Afrika existiert, um ausgebeutet zu werden, ist das größte
Unrecht, das es gibt, aber sie ist im kollektiven Unterbewusstsein vieler Menschen
verankert und muss geändert werden.“
Mit
deutlichen Worten verurteilt der Papst in dem Interview die seit der
Sklavenzeit kolportierte Vorstellung, dass Afrika vor allem ein
Ressourcen-Reservoir sei, das es auszubeuten gelte. „Die Vorstellung, dass Afrika
existiert, um ausgebeutet zu werden, ist das größte Unrecht, das es gibt, aber
sie ist im kollektiven Unterbewusstsein vieler Menschen verankert und muss
geändert werden.“
Logik
der Ausbeutung ablegen
Afrika
sei „ursprünglich“, zeigt sich Franziskus über den Kontinent und seine Menschen
beeindruckt. Jenseits der begehrten Bodenschätze bestehe Afrikas Schatz in
einem „geistigen Reichtum“, lenkt der Papst die Aufmerksamkeit auf die Menschen
und deren kulturelle und geistige Produktion. Und er verweist beispielhaft auf
die „beeindruckende Klarheit“ und „intuitive Intelligenz“, die ihm bei jungen
afrikanischen Studentinnen und Studenten aufgefallen sei. Bildung und der
„intellektuelle Fortschritt der Afrikaner“ seien „eine ernste Angelegenheit“,
betont er weiter die Bedeutung dieses Bereiches für den Fortschritt der
afrikanischen Gesellschaften.
Arbeitsmigranten
aus dem Süden seien oftmals eine Bereicherung für westliche Aufnahmeländer, in
denen es einen Mangel bestimmter Berufe gebe, wirft er einen Blick in die
Zielländer, in die Afrikaner:innen emigrieren. „Diese Menschen bieten ein
frisches Zeugnis für neue Kulturen, im Gegensatz zu älteren Kulturen oder
Kulturen, die im ,geschäftlichen‘ Sinne organisiert sind.“ Es sei eine Art
„Re-branding“, allerdings gebe es auch die Gefahr, dass diese Menschen „das
Gute, das sie bringen“ im neuen Lebensumfeld verlieren.
Kritik
übt der Papst an dem Zustand der „halben Unabhängigkeit“, in dem sich viele
afrikanische Staaten heute de facto befänden: „Ihnen wird wirtschaftliche
Unabhängigkeit von Grund auf gegeben, aber die anderen behalten den Untergrund,
um diesen auszubeuten. Wir sehen eine Ausbeutung durch andere Länder, die diese
Ressourcen nehmen“, kritisiert Franziskus.
Kritik
an Abschottungspolitik
Mit
Blick auf die Zurückdrängung von hilfsbedürftigen Migranten aus Afrika spricht
der Papst von „Verbrechen“ und kritisiert einmal mehr eine Politik, die in
Abschottung abdriftet. In Nordafrika gebe es „Konzentrationslager“, „eine ganze
Industrie, in der man Menschenfleisch vermarktet“, so Franziskus,
was „schwerwiegend“ sei. Er dürfte dabei an die verzweifelte Lage von
Flüchtlingen in Libyen gedacht haben, die eingesperrt, gefoltert und gehandelt
werden.
Afrika
zu helfen sei ohne einen Stopp der Ausbeutung des Kontinentes (bzw. dessen
Ressourcen und Menschen) nicht glaubwürdig, macht er weiter deutlich: „Ein
Regierungschef sagte einmal, dass das Problem der Migration in Afrika gelöst
werden muss, um Afrika zu helfen, immer unabhängiger zu werden. Und das ist
wahr. Tatsache ist jedoch, dass Afrika (in der allgemeinen Wahrnehmung, Anm.)
dazu da ist, geplündert zu werden“, so Franziskus‘ bittere Bestandsaufnahme.
Franziskus
bekräftigt in dem Interview seine mehrfach vorgebrachte Forderung, dass
Flüchtlinge und Migranten „aufgenommen, begleitet und integriert" werden
müssten. Er plädiert für eine Kultur der Aufnahme und eine geteilte
Verantwortung der Staaten. In Europa herrsche „eine sehr große
Ungerechtigkeit“, kritisiert der Papst: „Griechenland, Zypern, Italien, Spanien
und auch Malta sind die Länder, die am meisten Migranten aufnehmen.“ Diese
Länder müssten „mit allem fertig werden“ und stünden vor dem Dilemma,
Flüchtlinge in riskante Gegenden zurückzuschicken: „Das ist ein ernstes
Problem.“ Die Europäische Union sie hier „nicht hilfreich“, urteilt der Papst.
Harmonie
der Unterschiede statt Proselytismus
Klar
wendet sich der Papst in dem Gespräch mit „Mundo Negro“ gegen eine ideologische
oder kolonialistisch geprägte Verkündigung des christlichen Glaubens. Die
Missionstätigkeit der Kirche habe sich seit dem Zweiten Vatikanischen Konzil
„Gott sei Dank“ weiterentwickelt, betont der Papst. Evangelisierung dürfe
keinen kulturellen Reduktionismus oder eine Ideologisierung der Kulturen
beinhalten, erinnert er, sie bedeute Verkündigung „mit großem Respekt“ und eine
„Inkulturation des Glaubens“.
„Die
schwerste Sünde, die ein Missionar begehen kann, ist daher der Proselytismus.“
„Die
schwerste Sünde, die ein Missionar begehen kann, ist daher der Proselytismus.
Der Katholizismus ist kein Proselytismus.“ Ein Missionar respektiere „das, was
an jedem Ort vorhanden ist, und hilft, Harmonie zu schaffen, aber er
missioniert nicht ideologisch oder religiös, geschweige denn kolonialistisch“,
so der Papst, es gehe vielmehr um eine „Harmonie der Unterschiede“. Dialog sei
dabei „der Schlüssel“, so Franziskus über das Verhältnis zum Islam und zu den
traditionellen Religionen.
Ausbeutung
afrikanischer Ordensfrauen
Mit
Blick auf den Einsatz junger Missionare und von Ordensfrauen aus dem Süden in
westlichen Ländern rät der Papst zur Umsicht. „Diejenigen, die kommen, sollen
auch hier als Missionare tätig sein. Wir müssen sehr vorsichtig sein, wenn es
um die Freiheit der Evangelisierung und nicht um andere Interessen geht.“ Es
gebe etwa Fälle insbesondere von jungen Ordensschwestern, „die hierherkommen,
nicht vorbereitet sind, keine missionarische Berufung haben und auf der Straße
enden“, so Franziskus.
„Es
ist ein Zeichen der Zeit, das Weltlichkeit signalisiert, das ein
Entwicklungsniveau signalisiert, das Werte anderswo ansiedelt.“
Dass
in Europa und in der westlichen Welt die Zahl der Berufungen rapide sinkt, löst
beim Papst keine Panik aus, lässt er durchblicken und unterscheidet: „Es
beunruhigt mich nicht in dem Sinne, dass wir dahinschmelzen, es ist ein Zeichen
der Zeit, das Weltlichkeit signalisiert, das ein Entwicklungsniveau
signalisiert, das Werte anderswo ansiedelt. Es signalisiert Krisen, es gibt
Krisen, und Krisen müssen durchlebt und überwunden werden.“ (vn 14)
Franziskus an Augustiner: Begegnung
ist Voraussetzung für Synodalität
Vor
Isolation und Selbstreferentialität hat Papst Franziskus Ordensleute gewarnt.
Es gelte, die „Gemeinschaft zwischen den verschiedenen Kongregationen als
wahren Schatz zu bewahren“ und sich auch der Begegnung mit der umgebenden
Außenwelt nicht zu verschließen, so Franziskus an die Führungsspitze der
Konföderation der Augustiner Chorherren, die er an diesem Freitag in Audienz empfing.
Die
Augustiner halten sich derzeit für ihre Primatialratssitzung in Rom auf. Wie
Franziskus erinnerte, hatte der heilige Johannes XXIII. im Jahr 1959 die
„Konföderation der Augustiner Chorherren“ gegründet, damit die über die Welt
verteilten Kanonikerorden, die nach der Regel des heiligen Augustinus leben,
sich gegenseitig unterstützen und ihre Aktivitäten untereinander besser
koordinieren könnten. Der Hauptsitz der Konföderation ist in Rom, derzeitiger
Abtprimas ist der Abt von Saint-Maurice, Jean Scarcella.
Hier
der Beitrag zum Nachhören
Zwar
sei die Struktur der Konföderation keine juristische, so der Papst zu seinen
Gästen, aber dennoch sei sie wichtig, um „die Gemeinschaft zwischen den
Kongregationen zu fördern, die ihr angehören und das gleiche Charisma teilen.“
Dabei bleibe das Gleichgewicht zwischen der Autonomie, die die einzelnen
Kongregationen für sich beanspruchen, und einer „angemessenen Koordinierung“
gewahrt, die „in jedem Fall Unabhängigkeit und Isolation“ vermeide, würdigte
Franziskus den Geist des Zusammenschlusses:
„Isolation
ist gefährlich“
„Isolation
ist gefährlich. Es muss sehr darauf geachtet werden, die Krankheit der
Selbstreferenzialität zu vermeiden und die Gemeinschaft zwischen den
verschiedenen Kongregationen als wahren Schatz zu bewahren. Ihr wisst sehr
wohl, dass ihr alle im selben Boot sitzt und dass niemand die Zukunft aufbaut,
indem er sich absondert, noch allein aus eigenen Kräften, sondern indem er sich
mit der Wahrheit einer Gemeinschaft identifiziert, die sich immer öffnet für
die Begegnung, den Dialog, das Zuhören, die gegenseitige Hilfe und die uns vor
der Krankheit der Selbstbezogenheit bewahrt (vgl. Brief an alle Personen des
geweihten Lebens zum Jahr des geweihten Lebens, 21. November 2014, II, 3).“
„Das
geweihte Leben ist wie das Wasser: Wenn es nicht fließt, verdirbt es, es
verliert seinen Sinn“
Insbesondere
die Begegnung sei eine „wesentliche Voraussetzung für gelebte Synodalität in
der Kirche“, unterstrich Franziskus in diesem Zusammenhang.
„Wie
jede andere Form des gottgeweihten Lebens muss sich auch die Ihre den
Gegebenheiten der Zeit, der verschiedenen Orte, an denen Sie sich aufhalten,
und der Kulturen anpassen, immer im Licht des Evangeliums und Ihres eigenen
Charismas. Das geweihte Leben ist wie das Wasser: Wenn es nicht fließt,
verdirbt es, es verliert seinen Sinn; es ist wie das Salz, das seinen Geschmack
verliert, es wird unbrauchbar (vgl. Mt 5,13).“
Es
gelte, sich das Gedächtnis an die Wurzeln zu erhalten, sich aber nicht damit zu
begnügen, um nicht zu „Museumsstücken“ zu werden, wiederholte der Papst seine
des Öfteren geäußerte Mahnung, in gewissem Sinn „mit der Zeit“ zu gehen und
nicht einer vermeintlich glorreichen Vergangenheit nachzutrauern. Leitfaden für
das in die Zukunft gerichtete Wirken der Ordensleute in der Nachfolge Christi
müsse das Evangelium sein, betonte Franziskus.
„Lass
das Evangelium dein Vademecum sein“
„Lass
das Evangelium dein Vademecum sein, damit es für dich immer Geist und Leben
bleibt, ohne der Versuchung zu erliegen, es auf Ideologie zu reduzieren. Das
Evangelium erinnert uns ständig daran, Christus in den Mittelpunkt unseres
Lebens und unserer Sendung zu stellen.“ Das gottgeweihte Leben sei „in
der Kirche geboren“, wachse „mit der Kirche“ und bringe „als Kirche Frucht“, so
der Papst, der in diesem Zusammenhang auch den heiligen Augustinus zitierte,
nach dem in der Kirche der ganze Christus zu entdecken sei.
Verschiedene
Wege einer einzigen Suche
Die
„Hauptbeschäftigung“ als Regularkanoniker sei die „ständige und tägliche Suche“
nach dem Herrn, fuhr Franziskus fort. Dazu dienten das gemeinschaftliche Leben,
das Studium der Bibel und die Liturgie, doch auch die gewöhnliche pastorale
Arbeit: „Sucht ihn auch in den Realitäten unserer Zeit, in dem Wissen, dass uns
nichts Menschliches fremd sein kann und dass wir, frei von aller Weltlichkeit,
die Welt mit dem Sauerteig des Reiches Gottes beleben können.“
Dies
seien die „verschiedenen Wege einer einzigen Suche“, die den „Weg der
Innerlichkeit, der Erkenntnis und der Liebe zum Herrn“ voraussetze, wie es der
Schule des heiligen Augustinus entspreche, demzufolge die Wahrheit „im Inneren
des Menschen“ wohne, schloss Franziskus seine Ausführungen, bevor er seinen
Gästen für ihren Dienst in der Kirche dankte und sie dazu einlud, bei dieser Begegnung
in Rom ihr „Charisma zu überdenken und die Gemeinschaft des Lebens nach dem
Vorbild der apostolischen Urgemeinde zu stärken“. (vn 13)
Weihbischof Lohmann zur Räumung des
Weilers Lützerath
Angesichts
der Räumung des Weilers Lützerath erklärt Weihbischof Rolf Lohmann (Münster),
der in der Deutschen Bischofskonferenz für Umwelt- und Klimafragen zuständig
und Vorsitzender der Arbeitsgruppe für ökologische Fragen der Kommission für
gesellschaftliche und soziale Fragen ist:
„Im
Zuge des Braunkohletagebaus leiden viele Menschen schon seit Jahren unter
Umsiedlungen und dem damit verbundenen Verlust ihrer Heimat. Der Abriss des
Weilers Lützerath und die Abbaggerung dieses Gebietes sind deswegen und
angesichts der weltweit drastischen Entwicklungen des Klimas und der Umwelt
symbolisch hoch aufgeladen. Die Meinungs- und die Demonstrationsfreiheit sind
hohe Güter, die es unbedingt zu achten und konsequent zu schützen gilt.
Unerlässlich für ein demokratisches Gemeinwesen ist aber zugleich, dass
ausnahmslos alle Beteiligten auf die Anwendung von Gewalt verzichten und die
Rechtsstaatlichkeit achten.
Die
Bewahrung der Schöpfung ist ein Kernbestandteil des christlichen Glaubens. Von
daher sind Maßnahmen in Politik, Wirtschaft und Gesellschaft, die zum Klima-
und Umweltschutz oder zum Erhalt der Artenvielfalt beitragen, dringend
notwendig und zu unterstützen. Zugleich ist möglichst alles zu unterlassen, was
dem Klima, der Umwelt oder der Biodiversität schadet. Zu einer guten
Klimapolitik gehört daher ein zügiger Ausstieg aus den fossilen Energien.
Deswegen sollte auch der weitere Abbau und Verbrauch fossiler Ressourcen sehr
sorgfältig geprüft und diskutiert sowie gegebenenfalls in rechtsstaatlichen
Verfahren von Behörden und Gerichten überprüft werden. Das ist schon geschehen
und geschieht weiter.
Außerdem
ist die ökologische Transformation sozial gerecht zu gestalten. Die
Versorgungssicherheit insgesamt und die sozialen Auswirkungen steigender
Strompreise sind im Blick zu behalten. Für die detaillierte Ausgestaltung der
Klimapolitik liegt die Verantwortung bei der Politik. Bundestag und Bundesrat
haben den Ausstieg aus der Kohleverstromung bis spätestens 2038 beschlossen,
die Landesregierung von Nordrhein-Westfalen hat Eckpunkte für einen
Kohleausstieg 2030 vereinbart.“ Dbk 13
Bischof Feige zur Weltsynode:
Kirche braucht Streitkultur
Die
katholische Kirche ist mit Blick auf eine Streitkultur noch „am Anfang" -
dies hat der Magdeburger Bischof Gerhard Feige am Mittwochabend betont. Die
Kirche müsse es „noch einüben", Spannungen zwischen bewahrenden und
reformorientierten Gruppen auszuhalten, so Feige bei einer Online-Veranstaltung
des Bistums Magdeburg zum weltweiten synodalen Prozess, den Papst Franziskus
gestartet hat.
Lesen
Sie auch
Die
Dialogveranstaltungen des weltweiten synodalen Prozesses sollen nach dem Willen
des Kirchenoberhaupts einen konstruktiven Umgangsstil in der Kirche fördern.
Feige betonte, die bereits vorliegenden Stellungnahmen aus verschiedenen Regionen
zeigten, dass kirchliche Reformfragen weltweit und nicht nur beim Reformdialog
der katholischen Kirche in Deutschland, dem Synodalen Weg, auf der Tagesordnung
stehen.
Über
die Grenzen eigener Erfahrungen blicken
Die
kirchlichen Stellungnahmen aus anderen Ländern ermöglichten für die Kirche in
Deutschland eine „Blickweite über die Grenzen der eigenen Erfahrungen", so
der Bischof des Bistums Magdeburg weiter. Nun bestehe die Kunst darin, den
Synodalen Weg in Deutschland mit den Debatten in anderen Ländern zu verbinden.
Im
Rahmen der von Papst Franziskus auf den Weg gebrachten Weltsynode, die sich in
mehrere Phasen gliedert, findet vom 5. bis 12. Februar 2023 in Prag das
kontinentale europäische Vorbereitungstreffen statt. (kna/vn 12)
Woche für das Leben 2023 stellt
Sinnsuche und Ängste junger Menschen in den Mittelpunkt
Begleitung
und Hilfe anbieten – Hoffnung vermitteln
Die
ökumenische Woche für das Leben vom 22. bis 29. April 2023 stellt unter dem
Motto „Generation Z(ukunft). Sinnsuche zwischen Angst und Perspektive“ die
Sorgen junger Menschen im Alter zwischen 15 und 30 Jahren in den Mittelpunkt.
Die Zeiten der Isolation in den vergangenen Jahren sowie die Verunsicherung
durch sich ständig verändernde Lebenssituationen mit kaum vorhersehbaren
Zukunftsprognosen prägen diese Generation nachhaltig. Die Pandemie, der Krieg
in der Ukraine sowie der Klimawandel sind nur drei Faktoren, die in einer entscheidenden
Lebensphase zu tiefgreifenden Zukunftsängsten führen können, die existenzielle
Krisen bis hin zu Suizidgedanken auslösen. In solchen Situationen brauchen
junge Menschen Begleitung, Hilfe und Hoffnung. Das Themenheft, Plakate und
weitere Materialien der Woche für das Leben sind ab sofort verfügbar und können
für die Vorbereitung von vielfältigen Veranstaltungen zur Initiative genutzt
werden.
Im
Vorwort zum Themenheft schreiben der Vorsitzende der Deutschen
Bischofskonferenz, Bischof Dr. Georg Bätzing, und die Ratsvorsitzende der
Evangelischen Kirche in Deutschland (EKD), Präses Dr. h. c. Annette
Kurschus: „Die Pandemie ist noch nicht besiegt, der Klimawandel und seine
Folgen beschäftigen nicht nur die junge Generation stärker denn je und nicht zuletzt
schüren kriegerische Auseinandersetzungen bisher unbekannt gewesene Ängste und
Verunsicherungen. Uns wird mit aller Deutlichkeit vor Augen geführt, dass wir
es nicht immer selbst in der Hand haben, jeder Ursache für eine mögliche
Lebenskrise eigenständig vorbeugen zu können. (…) Gerade als Christen muss es
unsere Aufgabe sein, diese Menschen in ihrer Verletzlichkeit und Sinnsuche zu
begleiten.“ Präses Kurschus und Bischof Bätzing betonen, dass es gelte, jungen
Menschen zuzuhören, sie ernst zu nehmen und ihnen bei der Suche nach Sinn und
Perspektiven Gefährtin und Gefährte zu sein und dabei neue Hoffnung zu
schenken. Ganz so, wie es die beiden Jünger auf dem Weg nach Emmaus mit dem
zunächst von ihnen unerkannten Jesus erlebt haben, der sie in ihrer Verzweiflung
begleitete und unterstützte.
Das
Themenheft enthält verschiedene Beiträge aus medizinischer, soziologischer,
pädagogischer und sozialpastoraler Perspektive. Zudem werden spirituelle,
beraterische und seelsorglich-diakonische Angebote zur Unterstützung und
Begleitung mit und von jungen Menschen vorgestellt. Darüber hinaus werden in
einer Ideenwerkstatt Bausteine für Gottesdienste und Gemeindearbeit für eine
praxisnahe Anwendung zur Verfügung gestellt. Erstmals gibt es im Jahr 2023 eine
Kooperation der Woche für das Leben mit dem Ökumenischen Jugendkreuzweg – ein
Stationsbild des Kreuzweges greift das Sinnbild vom Weg nach Emmaus für die
Woche für das Leben auf.
Der
bundesweite Auftakt der Woche für das Leben wird am 22. April 2023 im
Osnabrücker Dom stattfinden, wo die EKD-Ratsvorsitzende Annette Kurschus und
der Jugendbischof der Deutschen Bischofskonferenz, Weihbischof Johannes Wübbe
(Osnabrück), sowie Regionalbischof Friedrich Stelter vom Sprengel Osnabrück der
Evangelisch-lutherischen Landeskirche Hannover um 17.00 Uhr gemeinsam einen
ökumenischen Gottesdienst feiern. Im Rahmen der Auftaktveranstaltung der Woche
für das Leben organisieren die Kirchen vor Ort am Nachmittag außerdem ein
Begleitprogramm, das insbesondere Jugendliche ansprechen soll.
Hintergrund.
Die Woche für das Leben findet zum 28. Mal statt. Seit 1994 ist sie die
ökumenische Initiative der katholischen und der evangelischen Kirche in
Deutschland zur Anerkennung der Schutzwürdigkeit und Schutzbedürftigkeit des
menschlichen Lebens in all seinen Phasen. Die Aktion, die immer zwei Wochen
nach Karsamstag beginnt und eine Woche dauert, will jedes Jahr Menschen in
Kirche und Gesellschaft für die Würde des menschlichen Lebens sensibilisieren.
Hinweise:
Über die Internetseite www.woche-fuer-das-leben.de können ab sofort
Informationen und Materialien zur Woche für das Leben kostenfrei bestellt
werden. Verfügbar sind das Themenheft, Motivplakate in DIN A3, DIN A4 und eine
Plakatvariante mit Freifeld zum Eindrucken von Veranstaltungshinweisen. Alle
Materialien stehen auch als Download bereit. Das Stationsbild der Woche für das
Leben zum Ökumenischen Jugendkreuzweg mit SharePics für Social Media und
weiteren Infos ist dort ebenfalls verfügbar sowie auch unter
https://jugendkreuzweg-online.de/woche-f%C3%BCr-das-leben. Zur zentralen
Eröffnung der Woche für das Leben am 22. April 2023 wird es zu einem späteren
Zeitpunkt noch eine eigene Presseeinladung geben. Dbk 11
Sinnsuche ist Thema der „Woche für
das Leben“
Die
Sinnsuche und Sorgen junger Menschen stehen im Zentrum der diesjährigen
ökumenischen „Woche für das Leben“ der beiden großen deutschen Kirchen. Sie
haben ein Themenhelft zu der im April stattfindenden Aktionswoche
herausgegeben.
„Generation
Z(ukunft). Sinnsuche zwischen Angst und Perspektive“ lautet das Motto der
Themenwoche, die vom 22.-27. April stattfinden soll. Sie will junge Leute im
Alter von 15 bis 30 Jahren in den Blick nehmen, die unter der Isolation während
der Corona-Pandemie, dem Klimawandel und unsicheren Zukunftsprognosen besonders
gelitten haben und leiden.
Diese
Herausforderungen könnten „existenzielle Krisen bis hin zu Suizidgedanken
auslösen“, zeigen sich die Kirchenvertreter besorgt. Es brauche hier eine
besondere „Begleitung, Hilfe und Hoffnung“: „Gerade als Christen muss es unsere
Aufgabe sein, diese Menschen in ihrer Verletzlichkeit und Sinnsuche zu
begleiten“, bekräftigen der Vorsitzende der Deutschen Bischofskonferenz,
Bischof Georg Bätzing, und die Ratsvorsitzende der Evangelischen Kirche in
Deutschland (EKD), Präses Annette Kurschus, im Vorwort zum Themenheft für die
„Woche für das Leben“.
Das
Themenheft und weitere Materialien der „Woche für das Leben“ sind ab sofort
verfügbar und können für die Vorbereitung der Initiative genutzt werden. Der
bundesweite Auftakt der Aktionswoche soll am 22. April im Osnabrücker Dom mit
einem ökumenischen Gottesdienst gemacht werden. (pm 11)
Papst: Tue Du den ersten Schritt
Papst
Franziskus hat die katholische Kirche dazu aufgerufen, auf andere Menschen
zuzugehen und die Liebe Jesu durch ihr Verhalten zu bezeugen. So könnten auch
andere Leute der Kirche nahe kommen und die Anziehungskraft Jesu spüren.
Wichtig sei: „Jesus kommunizieren, nicht sich selbst", betonte das
Kirchenoberhaupt diesen Mittwoch bei seiner Generalaudienz im Vatikan. Stefanie
Stahlhofen – Vatikanstadt
Papst
Franziskus eröffnete bei seiner Generalaudienz eine neue Katechesereihe
darüber, wie die Leidenschaft für die Neuevangelisierung wiedergewonnen werden
kann. Besonders ging er zum Start der Reihe auf das „Feuer des apostolischen
Eifers" ein. Als geradezu emblematisches Beispiel dazu sieht Papst
Franziskus die Stelle im Matthäus-Evangelium (Vgl. Mt 9,9-13), an der der
Apostel selbst über seine Berufung berichtet:
„Alles
beginnt mit Jesus, der „sah“ – so heißt es im Text - „einen Menschen“. Nur
wenige sahen Matthäus so, wie er war. Sie kannten ihn als den, der „am Zoll“
saß (V. 9). Er war tatsächlich ein Zöllner, also einer der für das römische
Reich, das Palästina besetzt hatte, die Abgaben eintrieb. Mit anderen Worten:
Er war ein Kollaborateur, ein Volksverräter. Wir können uns vorstellen, welche
Verachtung das Volk für ihn empfand: Er war ein Zöllner, so hieß das damals.
Aber in den Augen Jesu war Matthäus ein Mensch, mit seinen Schwächen und
Stärken."
„Alles
beginnt mit diesem Blick, den Jesus uns lehrt“
Die
Berufung des Apostels beginnt also damit, dass Jesus ihn mit dem Blick der
Liebe ansieht, betonte der Papst und rief alle Christen auf, diesem Beispiel zu
folgen:
„Dieser
Blick ist der Beginn der Leidenschaft der Neuevangelisierung. Alles beginnt mit
diesem Blick, den Jesus uns lehrt. Wir können uns fragen: Wie ist unser Blick
auf die anderen? Wie oft sehen wir die Fehler der Menschen und nicht ihre
Bedürfnisse; wie oft stecken wir die Menschen in eine Schublade für das, was
sie tun oder denken! Auch als Christen sagen wir uns: Ist er einer von uns oder
nicht? Das ist nicht der Blick Jesu: er schaut immer alle mit Barmherzigkeit
und mit noch mehr Liebe an. Und die Christen sind gerufen, wie Christus zu
handeln: Wie er die Menschen zu sehen, besonders die so genannten
,Fernen`. Tatsächlich endet die Erzählung der Berufung des Matthäus mit
den Worten Jesu, der sagt: ,Ich bin nicht gekommen, Gerechte zu rufen, sondern
Sünder` (V.13)."
Papst
Franziskus mahnte an dieser Stelle, sich nicht als Gerechte zu sehen. Jesus
komme zu den Menschen mit all ihren Schwächen, Grenzen und Nöten, um sie
zu heilen. Neben dem barmherzigen, liebevollen Blick Jesu hob Papst Franziskus
eine weitere Lehre aus dem Matthäusevangelium hervor, nämlich das Zugehen auf
andere:
„Es
ist nicht christlich, zu sagen: ,Also, mögen sie kommen, ich bin hier, mögen
sie zu mir kommen.` Nein, tu Du den ersten Schritt, suche die anderen“
„Das
Erste, was Jesus tut, ist Matthäus von seiner Machtposition zu lösen: vom
Sitzen und die anderen empfangen bringt er ihn dazu, eine Bewegung zu den
anderen hin zu machen, er empfängt nichts mehr von den anderen, sondern geht zu
den anderen, Jesus bringt ihn dazu, eine Position der Überlegenheit aufzugeben,
um ihn gleichzustellen mit den Brüdern und ihm den Horizont des
Dienens zu eröffnen. Dies tut er und dies ist fundamental für die
Christen: Wir Jünger Jesu, wir Kirche, sitzen wir da und warten darauf, dass
die Menschen zu uns kommen oder sind wir in der Lage, aufzustehen, den anderen
entgegenzugehen, die anderen zu suchen? Es ist nicht christlich, zu sagen:
,Also, mögen sie kommen, ich bin hier, mögen sie zu mir kommen.` Nein, tu du
den ersten Schritt, suche die anderen."
Die
anderen gelte es übrigens nicht irgendwo weit weg zu suchen, sondern im eigenen
Umfeld, führte der Papst, ebenfalls anhand der Berufung des Matthäus,
aus:
„Unsere
Verkündigung beginnt heute, dort wo wir leben. Und sie beginnt nicht, indem wir
versuchen, andere zu überreden“
„Sein
Feuer des apostolischen Eifers beginnt nicht an einem neuen Ort, der rein und
ideal ist, oder weit weg, sondern da, wo er lebt, mit den Leuten, die er kennt.
Das ist die Botschaft für uns: Wir müssen nicht darauf warten, perfekt zu sein
und einen langen Weg in der Nachfolge Jesu hinter uns haben um ihn zu bezeugen
- Nein! Unsere Verkündigung beginnt heute, dort wo wir leben. Und sie beginnt
nicht, indem wir versuchen, andere zu überreden, überreden, Nein! Tagtäglich
die Schönheit der Liebe bezeugen, die uns angeschaut und aufgerichtet hat. Und
diese Schönheit wird es sein, diese Schönheit kommunizieren, das wird die
Menschen überzeugen, nicht wir, sondern der Herr selbst. Wir sind die, die den
Herrn verkünden, wir verkünden nicht uns selbst, noch eine politische Partei,
eine Ideologie - Nein! Jesus"
„Wir
sind die, die den Herrn verkünden, wir verkünden nicht uns selbst, noch eine
politische Partei, eine Ideologie - Nein! Jesus“
Papst
Franziskus rief daher alle auf, sich zu fragen, ob sie dem liebevollen Blick
Jesu und seiner Aufbruchsbewegung folgten, um die Menschen anzuziehen und der
Kirche nahezubringen. (vn 11)
Vatikan: Regierungschefin Meloni
beim Papst
Papst
Franziskus hat erstmals offiziell die neue italienische Regierungschefin in
Audienz empfangen. Giorgia Meloni war an diesem Dienstag im Vatikan. Wie das
vatikanische Presseamt mitteilte, dauerte die Begegnung unter vier Augen etwa
35 Minuten.
Die
angespannte soziale Lage in Italien sowie das Thema Migration standen im
Mittelpunkt der Unterredungen der italienischen Regierungschefin Meloni mit den
Spitzen des vatikanischen Staatssekretariats. Wie das vatikanische Presseamt
mitteilte, ging es bei den an die Begegnung mit Papst Franziskus anschließenden
Gesprächen Melonis mit Kardinalstaatssekretär Pietro Parolin sowie dem
vatikanische „Außenminister“ Erzbischof Paul Gallagher um die „soziale
Situation in Italien“, insbesondere den Kampf gegen die Armut, die Lage der
Familien, den Geburtenrückgang und die Erziehung der Jugendlichen.
Auf
internationalem Gebiet habe man über Europa, den Krieg in der Ukraine und das
Thema Migration gesprochen. Das Klima der Gespräche im Staatssekretariat wurde
als „herzlich“ bezeichnet, man habe die guten Beziehungen zwischen Italien und
dem Heiligen Stuhl betont.
Tochter
und Lebenspartner dabei
Die
italienische Regierungschefin war in Begleitung ihrer Tochter und ihres
Lebenspartners beim Papst. Inoffiziell hatte Meloni Papst Franziskus bereits
beim Begräbnis von Benedikt XVI. im Vatikan getroffen. Der gesamte
Vatikan-Aufenthalt Melonis dauerte rund eine Stunde.
Ihre
Partei „Fratelli d´Italia“, die als „postfaschistische Partei“ bezeichnet wird,
hatte am 24. September 2022 die Wahlen in Italien gewonnen und regiert seitdem
in einem Mitte-Rechts-Büdnis mit der Lega-Partei von Matteo Salvini und der
christdemokratischen „Forza Italia“ von Silvio Berlusconi. Meloni ist die erste
Ministerpräsidentin Italiens.
Geschenke
Die
Regierungschefin, die ihre katholischen Wurzeln immer wieder öffentlich betont
hat, schenkte dem Papst unter anderem einen Engel aus ihrer privaten Sammlung.
Ferner ein Buch aus dem Jahr 1955, in dem Maria Montessori (1870-1952) die alte
lateinische Messe für Kinder erklärt. Das in den 1930er Jahren erstmals
erschienene Buch war unter anderem auf Englisch und Italienisch bis in die
1960er Jahre ein in vielen Auflagen gedruckter Bestseller.
Die
Ärztin und Pädagogin Montessori verließ Italien 1939, nachdem das Mussolini-Regime
den Druck auf die von ihr gegründeten Schulen erhöht hatte. Von 1924 bis 1934
war der Faschistenführer Benito Mussolini zunächst ein Bewunderer und aktiver
Förderer der Montessori-Pädagogik im italienischen Schulsystem. (vn/kap 10)
Papst zum Weltkrankentag: Für eine
Kultur der Fürsorge
Papst
Franziskus hat zu einer weltweiten Kultur der Fürsorge und zum Einsatz für eine
Gesundheitsversorgung für alle aufgerufen. Not und Einsamkeit der Leidenden und
der Kranken seien ein Aufruf an die Gemeinschaft, betont er in seiner Botschaft
zum diesjährigen Weltkrankentag.
Die
Papstbotschaft zum kommenden 31. Weltkrankentag am 11. Februar trägt den Titel
„Sorge für ihn - Mitgefühl als synodale Übung der Heilung“ und wurde wie üblich
vorab vom Vatikan veröffentlicht. Situationen der Gebrechlichkeit und Krankheit
böten Gemeinschaft und Gesellschaft die Gelegenheit, Nähe, Mitgefühl und
Zärtlichkeit zu praktizieren, erinnert der Papst in dem an diesem Dienstag
veröffentlichten Text. Dies sei der „Stil Gottes“, den es gemeinsam einzuüben
gelte, um einer „Kultur des Wegwerfens“ entgegenzuwirken.
Sorge
für ihn! - Mitgefühl und Heilung
Das
Kirchenoberhaupt bezieht sich in der Botschaft auf das Gleichnis vom
barmherzigen Samariter, das er bereits in seiner Enzyklika „Fratelli tutti“ als
Sinnbild einer Haltung der Geschwisterlichkeit vorschlägt. Der Samariter
kümmert sich nicht nur selbst um das Opfer, sondern aktiviert auch sein Umfeld,
es ihm gleichzutun. Diesen Aufruf richtet der Papst an Kirche, Politik und
Gesellschaft gleichermaßen, indem er alle zum Einsatz für eine Kultur der
Heilung und Fürsorge aufruft.
Die
Not der Kranken sei „ein Appell, der die Gleichgültigkeit aufbricht und die
Schritte derer bremst, die so weitergehen, als hätten sie keine Schwestern und
Brüder“, schreibt der Papst zum diesjährigen Weltkrankentag. Es brauche Gebet
und mehr Nähe zu den Leidenden, Mitgefühl und eine gemeinsame Aufmerksamkeit für
die Schwächsten. Stattdessen würde Markt- und Machtprinzipien Vorrang
eingeräumt, kritisiert der Papst, der die Einsamkeit und das Verlassensein der
Kranken und Schwächsten in seiner Botschaft als „Erbarmungslosigkeit“
bezeichnet.
Gesundheit
für alle
In
einer Kultur der Fürsorge und Geschwisterlichkeit darf sich Mitgefühl laut
Papst Franziskus aber nicht allein in sozialen Netzen und der Solidarität
Einzelner ausdrücken, die der Papst ausdrücklich lobt. Franziskus drängt auf
systemische Anstrengungen und Verbesserungen, um Gesundheit für alle möglich zu
machen. Die Covid-Pandemie habe „die strukturellen Grenzen der bestehenden
Sozialsysteme aufgezeigt“, hält er fest. Das müsse dazu führen, dass nun „in
jedem Land aktiv nach Strategien und Mitteln gesucht wird, um jedem Menschen
den Zugang zur Behandlung und das Grundrecht auf Gesundheitsversorgung zu
garantieren“, so der Papst. (vatican news 10)
Das
23. Internationale Bischofstreffen im Heiligen Land findet vom 14. bis 19.
Januar 2023 in Jordanien statt. Vertreter von zwölf nationalen
Bischofskonferenzen und der Anglikanischen Kirche werden sich vor Ort über die
Rolle und Bedeutung christlichen Lebens in Jordanien informieren. Die Deutsche
Bischofskonferenz wird durch den Vorsitzenden der Arbeitsgruppe Naher und
Mittlerer Osten der Kommission Weltkirche, Weihbischof Dr. Udo Bentz (Mainz),
vertreten.
Im
Laufe der Tage werden die Bischöfe eine Reihe katholischer Pfarreien besuchen
und sich die pastoralen und sozialen Angebote der Kirche vorstellen lassen. Im
Zentrum steht dabei die Arbeit für Geflüchtete, die in großen Zahlen aus dem
Irak und aus Syrien in Jordanien Zuflucht gefunden haben. Gespräche mit
Vertretern des auch für Jordanien zuständigen Lateinischen Patriarchats von
Jerusalem, mit christlichen Politikern und Diplomaten sollen zu einem
vertieften Verständnis der gesellschaftlichen Situation der Kirche und der
politischen Lage beitragen.
Auch
die Erwartungen und Besorgnisse, die sich mit der neu gebildeten israelischen
Regierung verbinden, werden bei dem Bischofstreffen eine Rolle spielen. Nicht
zuletzt durch die enge Verbindung vieler Palästinenser zu Jordanien wirkt die
israelische Politik auf die Verhältnisse im Nachbarland zurück. „Jordanien ist
aus guten Gründen Teil des kanonischen Territoriums des Lateinischen
Patriarchats von Jerusalem. Es bildet gleichsam eine Diözese mit Israel und
Palästina. Mit der Entscheidung, in diesem Jahr nach Jordanien zu reisen,
drücken wir aus, dass wir die gemeinsame kulturelle Prägung der Katholiken im
Heiligen Land und auch die politischen Verflechtungen zwischen Israel und
Jordanien wahrnehmen“, erklärt Weihbischof Dr. Udo Bentz. „Angesichts der neuen
Regierung in Israel ist es den Bischöfen besonders wichtig, sich den Christen
in Jordanien zuzuwenden, die als eine zahlenmäßig kleine Gruppe von den
politischen Wetterlagen in besonderer Weise betroffen sind. Obwohl sie nur
wenige sind, leisten die Christen und die Kirchen für das Land eine wichtige
Arbeit. Sie kümmern sich seit vielen Jahren intensiv um die Geflüchteten, die
aufgrund der Bürgerkriege in der Region hier Schutz gesucht haben. Mit unserem
Besuch möchten wir all denen, die sich für eine gutes Zusammenleben einsetzen,
unsere Solidarität ausdrücken.“
An
der Konferenz werden neben Weihbischof Dr. Udo Bentz folgende Bischöfe
teilnehmen: Bischof Nicolo Anselmi (Rimini, Italienische Bischofskonferenz),
Bischof em. Pierre Bürcher (Rejkjavik, Skandinavische Bischofskonferenz),
Bischof William Crean (Cloyn, Irische Bischofskonferenz), Bischof em. Michel
Dubost (Evry-Corbeil-Essone, Französische Bischofskonferenz), Bischof Martin
Hayes (Kilmore, Irische Bischofskonferenz), Weihbischof Nicholas Hudson (London,
Bischofskonferenz von England und Wales), Bischof David Malloy (Rockford,
Bischofskonferenz der USA), Erzbischof William Nolan (Glasgow, Schottische
Bischofskonferenz), Bischof em. Paul Terrio (St. Paul in Alberta, Kanadische
Bischofskonferenz), Erzbischof Joan Enric Vives Sicilia (Urgell, Spanische
Bischofskonferenz), Erzbischof Cyril Vasil (Kosice, Slowakische
Bischofskonferenz) und Bischof Christopher Chessun (Southwark, Anglikanische
Kirche) sowie Rev. Peter John Pearson (Cape Town, Südafrikanische
Bischofskonferenz).
Hintergrund.
Das Internationale Bischofstreffen verfolgt das Ziel, Christen und Kirchen im
Heiligen Land in ihrem Einsatz für Gerechtigkeit, Frieden und Verständigung
zwischen den Völkern und Religionsgemeinschaften zu stärken und die Verbindung
der Weltkirche mit ihnen zu festigen. Die Bischöfe besuchen während ihres
Treffens als Pilger die Heiligen Stätten und feiern dort Gottesdienste. So
sollen auch die Gläubigen in ihren Heimatländern zu Pilgerreisen ermutigt
werden. dbk 10
Vatikan lädt zu Online-Kurs über
Synodalität
Das
Synodensekretariat im Vatikan lädt alle Interessierten zu einem
Gratis-Online-Kurs über „Geschichte, Theologie und Praxis der Synodalität“ ein.
Es brauche mehr Vertiefung, Unterscheidung und Ausbildung, um das Bewusstsein
und die Praxis einer synodalen Kirche zu fördern, begründeten die Organisatoren
der Weltsynode das Angebot.
Die
Synode zur Synodalität, die im Oktober 2021 eröffnet wurde, habe ihre
kontinentale Phase erreicht, erinnern die Synoden-Organisatoren in einer
Mitteilung. Die Stimmen der Ortskirchen auf der ganzen Welt, die in der ersten
Diözesanphase gehört wurden, seien in dem Arbeitsdokument für die kontinentale
Phase zusammengefasst worden.
„In
diesem Sinne laden wir mit großer Freude dazu ein, am zweiten
interkontinentalen Massive Online Course (MOOC) zum Thema Geschichte, Theologie
und Praxis der Synodalität teilzunehmen. Dieser Kurs wird im Februar 2023
virtuell durchgeführt und Teilnehmerinnen und Teilnehmer aus der ganzen Welt
kostenlos angeboten“, heißt es in der Mitteilung. Der Kurs ist vielsprachig und
kann zeitversetzt besucht werden. Er besteht aus aufgezeichneten Vorlesungen,
die Interessierte auf Englisch, Spanisch, Portugiesisch, Französisch und
Italienisch ansehen können.
Ins
Leben gerufen wurde der Kurs von den lateinamerikanischen Mitgliedern der
Theologischen Kommission des Generalsekretariats der Synode und dem „Grupo
Iberoamericano de Teología“. Das Angebot wird von katholischen Universitäten
auf der ganzen Welt unterstützt und von der Abteilung für Weiterbildung der
School of Theology and Ministry des Boston College koordiniert. Unterstützung
wirken darüber hinaus der Lateinamerikanische Bischofsrat (CELAM), die
Lateinamerikanische Konföderation der Ordensleute (CLAR), die Europäische
Bischofskonferenz (CCEE), die Föderation der Asiatischen Bischofskonferenzen
(FABC), die Internationale Vereinigung der Generaloberinnen (UISG) und ihr
Gegenstück, die Union der Generaloberen (USG), sowie weitere kirchliche
Partnerorganisationen.
Mit
dem letzten Kurs zum Thema Synodalität habe man etwa 100.000 Menschen aus allen
Kontinenten erreicht, hieß es in der Mitteilung. Diese Fortbildung richte sich
an pastorale Mitarbeiterinnen und Mitarbeiter, Ordensleute, Laien, Priester,
Bischöfe und andere, die auf einfache, aber fundierte Weise erfahren wollen,
worum es bei der Synodalität geht. Referentinnen und Experten aus verschiedenen
Kulturen und Ortsgemeinden würden ihr Wissen und ihre Erfahrungen weitergeben.
Jedes Thema werde aus einer interkontinentalen und interkulturellen Perspektive
präsentiert, „um uns zu helfen, die vielfältigen Möglichkeiten des Kircheseins
zu entdecken. Wir laden Sie ein, sich die Kirche des dritten Jahrtausends
vorzustellen und sie aufzubauen“, so die Mitteilung.
Informationen
für die Anmeldung zum Synodalitäts-Kurs hier: https://formaciononline.bc.edu/es/register-home/
(vatican news 9)
Papst Franziskus: Große Polit-Rede
zum Jahresbeginn
Papst
Franziskus hat an diesem Montag vor Diplomaten ein düsteres Bild der
gegenwärtigen Weltlage gezeichnet. Beim Neujahrsempfang für das beim Heiligen
Stuhl akkreditierte Diplomatische Corps wies er erneut darauf hin, dass ein
„Dritter Weltkrieg in Teilen“ im Gang sei und warnte eindringlich vor einem
nuklearen Konflikt. Stefan von Kempis – Vatikanstadt
Es
ist üblich, dass der Papst bei der Neujahrsaudienz für Diplomaten aus aller
Welt eine große Polit-Rede hält. So auch diesmal: Franziskus bedankte sich für die
Anteilnahme am Tod seines Vorgängers Benedikt XVI., den er am letzten
Donnerstag zu Grabe getragen hat, und lobte die Verlängerung des provisorischen
Abkommens über Bischofsernennungen zwischen dem Vatikan und China. Vor allem
aber warnte er vor den Gefahren eines Atomkriegs.
Zum
Nachhören - was der Papst bei der Audienz sagte
Schon
der hl. Papst Johannes XXIII. habe im Oktober 1962 während der Kuba-Krise
eindringlich vor der Selbstauslöschung der Menschheit durch die Bombe gewarnt.
„Leider wird auch heute noch die nukleare Bedrohung heraufbeschworen, wodurch
die Welt in Angst und Schrecken versetzt wird. Ich kann hier nur wiederholen,
dass der Besitz von Atomwaffen unmoralisch ist… Bei der Bedrohung durch
Atomwaffen sind wir alle immer Verlierer!“
Ruf
nach schneller Lösung für Atomstreit mit Iran
Es
war bemerkenswert, dass Franziskus in diesem Zusammenhang zunächst auf das
iranische Atomprogramm zu sprechen kam und die Blockade der Verhandlungen über
ein Wieder-Inkraftsetzen des Atomabkommens mit dem Iran beklagte; er hoffe auf
eine baldige „konkrete Lösung“.
Erst
an zweiter Stelle ging der Papst auf den Ukraine-Krieg ein. „Ich kann am
heutigen Tag meinen Appell zur sofortigen Beendigung dieses sinnlosen Konflikts
nur erneuern, dessen Auswirkungen im Bereich der Energie und der
Nahrungsmittelproduktion auf ganze Gebiete, auch außerhalb Europas, vor allem
in Afrika und im Nahen Osten, zu spüren sind.“
Ukraine:
Angriffe auf Infrastruktur sind ein Verbrechen
Der
Ukraine-Krieg säe Tod und Zerstörung, reiße Familien auseinander und treffe vor
allem die Schwächsten, so Franziskus. Die Angriffe auf die ukrainische
Infrastruktur ließen Menschen vor Hunger und Kälte sterben. „Diesbezüglich
stellt die pastorale Konstitution Gaudium et spes fest: ‚Jede Kriegshandlung,
die auf die Vernichtung ganzer Städte oder weiter Gebiete und ihrer Bevölkerung
unterschiedslos abstellt, ist ein Verbrechen gegen Gott und gegen den Menschen,
das fest und entschieden zu verwerfen ist‘ (Nr. 80).“
Mit
Sorge blickte der Papst in seiner weltpolitischen tour d’horizon dann auf den
weiterschwelenden Krieg in Syrien und auf die Härten, die die internationalen
Sanktionen für die ohnehin leidgeprüfte Bevölkerung im Land bedeuteten. Er rief
Israel und Palästinenser dazu auf, den Mut zu neuen Friedensverhandlungen
aufzubringen, und bedachte eine Reihe weiterer Konflikte, darunter im Kongo, im
Jemen und auf der koreanischen Halbinsel, mit mahnenden Worten.
Mehr
Engagement für Abrüstung
„Mit
besonderer Aufmerksamkeit verfolge ich auch die Lage in Myanmar, wo es seit
zwei Jahren Gewalt, Schmerz und Tod gibt. Ich rufe die internationale
Gemeinschaft auf, sich dafür einzusetzen, dass der Versöhnungsprozess
Wirklichkeit wird, und ich fordere alle beteiligten Parteien auf, auf den Weg
des Dialogs zurückzukehren, um den Menschen in diesem geliebten Land wieder
Hoffnung zu geben.“
Angesichts
all der Kriege und Konflikte in der Welt forderte Franziskus eine Abkehr vom
Waffenhandel und neue Schritte zur Abrüstung, „da kein Frieden möglich ist,
wenn die Werkzeuge des Todes so weit verbreitet sind“. Zu den Bausteinen, um
den Frieden in der Welt aufzubauen und zu stärken, gehöre die Förderung von
Frauen, die leider „auch heute noch in vielen Ländern als Bürger zweiter Klasse
angesehen“ würden.
„Nein
zur Abtreibung, Nein zur Todesstrafe“
„Sie
sind Gewalt und Missbrauch ausgesetzt und ihnen wird die Möglichkeit
verweigert, zu studieren, zu arbeiten, ihre Talente zu entfalten, Zugang zu
medizinischer Versorgung oder sogar Nahrung zu erhalten. Wo die Menschenrechte
für alle uneingeschränkt anerkannt werden, können Frauen stattdessen ihren
unersetzlichen Beitrag zum gesellschaftlichen Leben leisten und zu den
wichtigsten Verbündeten des Friedens werden.“ Franziskus nannte es
„inakzeptabel“, dass Frauen in Afghanistan von höherer Bildung ausgeschlossen
werden.
Entscheidend
für den Frieden sei die Achtung des Lebens. Der Papst bemerkte, es gebe kein
„Recht auf Abtreibung“ („Niemand kann ein Recht auf das Leben eines anderen
Menschen beanspruchen, schon gar nicht, wenn er wehrlos ist“), münzte das aber
nicht explizit auf die entsprechenden Debatten in den USA.
Sorge
über Schwäche der Demokratien
„Das
Recht auf Leben ist auch dort bedroht, wo die Todesstrafe weiterhin praktiziert
wird, wie es dieser Tage im Iran der Fall ist, nachdem die jüngsten
Demonstrationen mehr Respekt für die Würde der Frauen gefordert haben. Die
Todesstrafe kann nicht für eine angebliche staatliche Gerechtigkeit herhalten,
da sie weder abschreckt noch den Opfern Gerechtigkeit verschafft, sondern nur
den Durst nach Rache schürt.“
Des
weiteren warb der Papst um mehr Investitionen im Bildungsbereich weltweit, sah
mit Sorge eine „Schwächung der Demokratie“ in vielen Teilen der Welt und rief
zu mehr Anstrengungen gegen den Klimawandel und für den Artenschutz auf. Er
bekräftigte das Recht auf Religionsfreiheit („eine der Mindestvoraussetzungen
für ein Leben in Würde“), wobei er seine Sicht unterstrich, dass die Religionen
„nicht ein Problem sind, sondern Teil der Lösung für ein harmonischeres
Zusammenleben“. Ausdrücklich forderte er ein europäisches Regelwerk für den
Umgang mit Migranten und Asylsuchenden sowie eine Reform der UNO.
Für
eine Reform der UNO
„Der
derzeitige Konflikt in der Ukraine hat die Krise, in der sich das multilaterale
System seit langem befindet, noch deutlicher gemacht und es bedarf
tiefgreifender Überlegungen, um angemessen auf die Herausforderungen unserer
Zeit antworten zu können. Dies erfordert eine Reform der Organe, die ihre
Arbeit ermöglichen, damit sie wirklich die Bedürfnisse und Anliegen aller
Völker repräsentieren und Abläufe vermieden werden, die einigen zum Nachteil
anderer mehr Gewicht verleihen. Es geht also nicht darum, Blöcke von Allianzen
zu bilden, sondern darum, Gelegenheiten für einen Dialog aller zu schaffen.“
Der
Heilige Stuhl unterhält derzeit mit 183 Staaten diplomatische Beziehungen;
hinzu kommen die EU und der Souveräne Malteserorden. Die Botschafter von 89
Staaten beim Heiligen Stuhl haben ihren Sitz in Rom. Ebenfalls einen römischen
Sitz haben die Vertreter beim Vatikan von der EU, dem Malteserorden, der
Arabischen Liga, der Weltmigrationsbehörde sowie des UNO-Flüchtlingshilfswerks
UNHCR. (vn 9)
Deutschland erneut zweitgrößter
Spender für Flüchtlingshilfswerk
Das
Flüchtlingshilfswerk der Vereinten Nationen (UNHCR) hat Deutschlands Einsatz
für den internationalen Flüchtlingsschutz gewürdigt. Im vergangenen Jahr habe
die Bundesrepublik mit fast 537 Millionen US-Dollar (mehr als 507 Millionen
Euro) ihren bisher größten finanziellen Beitrag zur weltweiten Arbeit des UNHCR
geleistet, sagte Katharina Lumpp, Vertreterin von UNHCR in Deutschland, am
Sonntag in Berlin.
Deutschland
sei damit erneut nach den USA weltweit der zweitgrößte Geber für das
Flüchtlingshilfswerk. „Deutschland ist ein wichtiges Land für den
Flüchtlingsschutz, ein zuverlässiger humanitärer Geber in akuten Notlagen und
langanhaltenden Krisen sowie ein großes Aufnahmeland für Flüchtlinge“, fügte Lumpp
hinzu. Die Bundesrepublik ermögliche es dem UNHCR, einen großen Teil dieser
Gelder flexibel zu nutzen. Somit könnten die Ressourcen besonders effektiv
eingesetzt werden.
Lumpp
erläuterte, der Krieg gegen die Ukraine habe zu der größten Fluchtbewegung weltweit
geführt; ihr Ausmaß und ihre Geschwindigkeit seien ohne Beispiel seit dem
Zweiten Weltkrieg. „Mehr als 7,9 Millionen Menschen sind aus dem Land geflohen,
weitere 5,9 Millionen sind innerhalb der Ukraine vertrieben. Die Solidarität
bei der Unterstützung von Flüchtlingen und Binnenvertriebenen ist groß und hält
unvermindert an“, sagte sie. Auch auf die Situation von Vertriebenen in anderen
Regionen und Ländern der Welt habe der Krieg in der Ukraine gravierende
Auswirkungen.
Vor
dem Hintergrund des gewachsenen Bedarfs hatte UNHCR im vergangenen Jahr einen
Haushalt von 10,7 Milliarden Dollar veranschlagt, der nur zu knapp sechs
Milliarden (56 Prozent) gedeckt wurde. Gut drei Viertel davon kamen von
Regierungen, einschließlich der Europäischen Union. Mit 21 Prozent war der
Anteil der privaten Spender höher als je zuvor und überstieg mit 1,17
Milliarden Dollar zum ersten Mal die Milliardengrenze. (kap 8)
Papst: Mit jungen Menschen ein
„Friedensarsenal“ schaffen
Franziskus
hat den Mitgliedern des Jugendmissionsdienstes SERMIG, die an diesem Samstag
bei der Audienz im Vatikan anwesend waren, dazu ermutigt, sich weiter für den
Frieden auf der Welt einzusetzen. In Bezug auf die 1964 in Turin gegründete
Vereinigung unterstrich der Papst die Bedeutung der Idee eines „Arsenals des
Friedens“, bei dem junge Menschen die Erfahrung der Geschwisterlichkeit, des
Dialogs und der Aufnahme machen könnten, die die Welt heute so dringend
brauche. Mario Galgano - Vatikanstadt
SERMIG
sei „eine Art großer Baum, der aus einem kleinen Samen gewachsen ist“. So
definierte es der Papst, als er an diesem Samstagmorgen in dem vatikanischen
Clementina-Saal mit rund 300 Mitgliedern zusammentraf und sie aufforderte, die
Arbeit für den Frieden fortzusetzen. Dies sei wichtig, in einer Zeit, in der
„Kriegsherren so viele junge Menschen dazu zwingen, gegen ihre Brüder und
Schwestern zu kämpfen“.
Nicht
nur Aktivismus
Zu
Beginn der Audienz richtete der Gründer des Jugendmissionsdienstes Ernesto
Olivero einige Grußworte an den Papst. Mit Blick auf das kleine Samenkorn sagte
Franziskus: „So sind die Lebenswahrheiten des Reiches Gottes“, und erinnerte
daran, wie in den 1960er Jahren „verschiedene Erfahrungen des Dienstes und des
Gemeinschaftslebens in der Kirche entstanden sind, ausgehend vom Evangelium“,
und dass viele von ihnen „gewachsen sind, um den Zeichen der Zeit zu
entsprechen“.
SERMIG,
der Jugendmissionsdienst, sei einer von ihnen, erinnerte der Papst weiter. Sie
entstand in Turin aus einer Gruppe junger Menschen. An den Früchten könne man
deutlich erkennen, dass es bei SERMIG keinen bloßen Aktivismus gegeben habe,
sondern dass man Gott „Raum gegeben“ habe, „um zu ihm zu beten, um ihn in den
Kleinen und Armen zu erkennen, um ihn in den Ausgegrenzten aufzunehmen“, zählte
der Papst auf. Denn Gott sei immer da und schaue jede und jeden an.
Das
„Arsenal des Friedens“, Frucht von Gottes Traum
Von
den zahlreichen Aktivitäten, die SERMIG ins Leben gerufen habe, hob Papst
Franziskus eine hervor, die, wie er sagte, „in diesem Moment der Geschichte mit
außerordentlicher Kraft hervorsticht“ und mit einer Botschaft, die „leider
dramatisch aktuell“ sei. Es sei das „Arsenal des Friedens“, das aus der
Umwandlung des Turiner Militärarsenals hervorgegangen ist. Franziskus erinnerte
daran, dass diese Arbeit „ein Zeichen des Evangeliums“ sei, „die Frucht des
Traums Gottes“, und dass es nicht „Zahlen sind, die den Einsatz
quantifizieren“. Und er zitierte die Worte des Propheten Jesaja:
„Sie
werden ihre Schwerter zerbrechen und Pflüge daraus machen, / aus ihren Speeren
werden sie Sensen machen; / ein Volk wird das Schwert nicht mehr erheben /
gegen ein anderes Volk, / sie werden die Kriegskunst nicht mehr lernen.“
Dies
sei der Traum Gottes, den der Heilige Geist in der Geschichte durch sein treues
Volk verwirkliche. So sei es auch für SERMIG-Mitglieder: durch den Glauben und
den guten Willen sei aus dem Traum vieler junger Menschen eine Wirklichkeit
geworden, die Projekte und Aktionen anregte und in der Umwandlung eines Waffenarsenals
in ein Arsenal des Friedens konkret geworden sei.
Ein
Ort, an dem junge Menschen Geschwisterlichkeit erleben
Die
Begegnung, der Dialog und die Aufnahme, so Papst Franziskus weiter, seien die
„Waffen des Friedens“, die in dem von SERMIG angestrebten Arsenal gebaut
würden, und dort könnten junge Menschen lernen, sich zu begegnen und in Dialog
zu treten, „ganz im Gegensatz zu dem, was sie anderswo erleben“, so der Papst:
„Während
Kriegsherren so viele junge Menschen dazu zwingen, gegen ihre Brüder und
Schwestern zu kämpfen, brauchen wir Orte, an denen Geschwisterlichkeit gelebt
werden kann. Hier ist das Wort: Geschwisterlichkeit. SERMIG wird auch als
,Bruderschaft der Hoffnung´ bezeichnet. Man kann aber auch das Gegenteil sagen,
nämlich ,die Hoffnung auf Geschwisterlichkeit´. Der Traum, der die Herzen der
Freunde von SERMIG beseelt, ist die Hoffnung, die Hoffnung auf eine
geschwisterliche Welt. Es ist der ,Traum´, den ich in der Kirche und in der
Welt durch die Enzyklika Fratelli tutti wiederbeleben wollte.“
„Jeder
Mann und jede Frau guten Willens kann in den Arsenalen des Friedens, der
Hoffnung, der Begegnung und der Harmonie arbeiten..“
Stätten
des Friedens und der Hoffnung auch für Nicht-Gläubige geöffnet
Neben
dem „Arsenal des Friedens“ hat der Jugendmissionsdienst weitere „Arsenale“ in
Brasilien, in Jordanien und in Pecetto Torinese eingerichtet. Es seien
„Baustellen, die im Zeichen des Friedens, der Hoffnung, der Begegnung und der
Harmonie stehen, alles Realitäten, die“, so der Papst, „nur durch den Heiligen
Geist, den Geist Gottes, aufgebaut werden können“:
„Er
ist es, der Frieden, Hoffnung, Begegnung und Harmonie schafft. Und Baustellen
gehen vorwärts, wenn diejenigen, die an ihnen arbeiten, sich vom Geist
einarbeiten lassen. Ihr werdet zu mir sagen: Und was mit denjenigen, die nicht
glauben, und was ist mit jenen, die keine Christen sind? Das mag für uns ein
Problem sein, aber sicher nicht für Gott. Er, sein Geist, spricht zu den Herzen
derer, die zuzuhören wissen. Jeder Mann und jede Frau guten Willens kann in den
Arsenalen des Friedens, der Hoffnung, der Begegnung und der Harmonie arbeiten.“
Geht
hinaus und haltet das Feuer von Jesus am Brennen
Der
Papst betonte auch, dass es „jemanden braucht, dessen Herz fest im Evangelium
verwurzelt ist“, eine Gemeinschaft, die das von Jesus mitgebrachte Feuer für
alle am Brennen halte. Er schloss daher mit Worten des Dankes für das Treffen
im Vatikan und vor allem, so sagte er, „für Ihr Zeugnis und Ihr Engagement.
Macht weiter so!“ (vn 7)
Drei Könige. Papst beim Angelus:
Rausgehen aus der Komfortzone
Zur
unaufhörlichen Gottsuche hat Papst Franziskus beim Angelusgebet am Hochfest der
Heiligen Drei Könige aufgerufen. „Gott ruft uns durch unsere Sehnsüchte und
größten Wünsche“, sagte er am Petersplatz. Stefan von Kempis – Vatikanstadt
„Wir
sind aufgerufen, uns nicht zufrieden zu geben, sondern den Herrn zu suchen,
indem wir aus unserer Komfortzone heraustreten, mit anderen auf ihn zugehen und
in die Wirklichkeit eintauchen. Denn Gott ruft jeden Tag, hier und heute, in
unserer Welt.“
Franziskus
führte damit einen Gedanken fort, den er zuvor in seiner Predigt bei der Messe
zum Hochfest Epiphanie im Petersdom geäußert hatte. Wie damals bei den
Sterndeutern, die den neugeborenen König der Juden suchten, sei es auch für uns
wichtig, uns nicht mit dem Erstbesten zufriedenzugeben, sondern auf der Suche
nach Gott wachsam und aufmerksam weiterzugehen, sagte er nun beim Angelus.
„Weihnachtsgrüße
an orthodoxe Christen“
„Wie
wichtig ist es, das Ziel des Lebens von den Versuchungen auf dem Weg
unterscheiden zu können! … Zu wissen, wie man auf das verzichtet, was verführt,
aber auf einen schlechten Weg bringt, und dies, um Gottes Wege zu verstehen und
zu wählen!“
Nach
seinem Angelusgebet gratulierte Franziskus auch allen – zumeist orthodoxen –
Christen der Ostkirchen, die am 7. Januar ihr Weihnachtsfest feiern. In diesem
Zusammenhang erwähnte er auch besonders die Ukraine. Er hoffe, dass den
Menschen dort das Weihnachtsfest Trost und Hoffnung vermittle und dass es
endlich zu konkreten Schritten für ein Ende des Blutvergießens komme.
Auf
die Beisetzungsfeierlichkeiten für den verstorbenen Benedikt XVI., die er am
Donnerstag geleitet hatte, ging Franziskus an diesem Freitag nicht ein. Bei der
Messe in St. Peter zitierte er allerdings in seiner Predigt einen Gedanken
seines deutschen Vorgängers.
Wortlaut:
Ansprache zum Angelus
„Liebe
Brüder und Schwestern, guten Tag und frohes Fest!
Heute,
am Hochfest der Erscheinung des Herrn, erzählt uns das Evangelium von den
Sterndeutern, die, in Bethlehem angekommen, ihre Schatullen öffnen und Jesus
Gold, Weihrauch und Myrrhe als Gaben darbrachten (vgl. Mt 2,11). Die Weisen aus
dem Morgenland sind berühmt für die Gaben, die sie brachten, aber wenn wir ihre
Geschichte betrachten, könnten wir sagen, dass vor allem sie selbst drei Gaben
erhalten haben…: drei wertvolle Geschenke, die auch uns betreffen…
Die
erste ist die Gabe des Rufs. Die Sterndeuter haben den Ruf nicht vernommen, als
sie die Schrift lasen oder eine Vision von Engeln hatten, sondern als sie die
Sterne betrachteten. Das sagt uns etwas Wichtiges: Gott ruft uns durch unsere
Sehnsüchte und größten Wünsche. Die Sterndeuter ließen sich von der Neuheit des
Sterns verwundern und beunruhigen und machten sich auf den Weg zu dem, was sie
nicht kannten.
Gebildet
und weise, waren sie mehr von dem fasziniert, was sie nicht wussten, als von
dem, was sie wussten... Sie fühlten sich berufen, weiter zu gehen... Das ist
auch für uns wichtig: Wir sind aufgerufen, uns nicht zufrieden zu geben,
sondern den Herrn zu suchen, indem wir aus unserer Komfortzone heraustreten,
mit anderen auf ihn zugehen und in die Wirklichkeit eintauchen. Denn Gott ruft
jeden Tag, hier und heute…, in unserer Welt.
Die
Sterndeuter erzählen uns dann von einer zweiten Gabe: der Unterscheidung. Da
sie einen König suchen, gehen sie nach Jerusalem, um mit König Herodes zu
sprechen, der jedoch ein machtgieriger Mann ist und sie benutzen will, um das
Messiaskind zu beseitigen. Aber die Sterndeuter sind nicht dumm, sie lassen
sich von Herodes nicht täuschen. Sie wissen zu unterscheiden zwischen dem Ziel
der Reise und den Versuchungen auf dem Weg dorthin. Sie hätten auch dort am Hof
bleiben können, in Ruhe, aber nein: Sie gehen weiter. Sie verlassen den Palast
des Herodes und werden, auf Gottes Zeichen achtend, nicht zu ihm zurückkehren,
sondern auf einem anderen Weg heimziehen (vgl. V. 12). Wie wichtig ist es, das
Ziel des Lebens von den Versuchungen auf dem Weg unterscheiden zu können! … Zu
wissen, wie man auf das verzichtet, was verführt, aber auf einen schlechten Weg
bringt, und dies, um Gottes Wege zu verstehen und zu wählen! Die Unterscheidung
ist eine große Gabe, und man darf nie müde werden, sie im Gebet zu erbitten.
Bitten wir um diese Gnade! Herr, gib uns die Fähigkeit zu unterscheiden – Gut
und Böse, das Bessere und das weniger Gute.
Schließlich
berichten die Sterndeuter noch von einer dritten Gabe: der Überraschung. Nach
einer langen Reise, was finden diese Männer von hohem gesellschaftlichem Rang
da vor? Einen Säugling mit seiner Mutter (vgl. V. 11): eine Szene, die
sicherlich zärtlich ist, aber nicht verblüffend! Sie sehen keine Engel wie die
Hirten, sondern begegnen Gott in Armut. Vielleicht erwarteten sie einen
mächtigen und gewaltigen Messias, doch sie finden ein Baby. Aber sie glauben
dennoch nicht, dass sie sich geirrt haben, sie wissen, wie sie ihn erkennen
können. Sie lassen sich von Gott überraschen und leben ihre Begegnung mit Ihm
in Staunen und Anbetung: In der Kleinheit erkennen sie das Antlitz Gottes.
Menschlich gesehen neigen wir alle dazu, nach Größe zu streben, aber es ist ein
Geschenk, zu wissen, wie man sie wirklich findet: zu wissen, wie man Größe in
der Kleinheit findet, die Gott so liebt. Denn so begegnet man dem Herrn: in der
Demut, in der Stille, in der Anbetung, in den Kleinen und in den Armen.
Brüder
und Schwestern, wir alle sind von Jesus gerufen, wir alle können seine
Gegenwart unterscheiden…, wir alle können seine Überraschungen erleben... Heute
wäre es schön, sich an diese Gaben zu erinnern, die wir bereits erhalten
haben…: zu denken an die Zeit, in der wir einen Ruf Gottes in unserem Leben
gespürt haben; oder daran, wie wir, vielleicht nach großer Anstrengung, seine
Stimme wahrnehmen konnten; oder auch an eine unvergessliche Überraschung, die
Er uns geschenkt hat und die uns in Erstaunen versetzt hat. Möge die
Gottesmutter uns helfen, uns an die Geschenke, die wir erhalten haben, zu
erinnern und sie in Ehren zu halten.“ (vn 6)
Mit
einer feierlichen Zeremonie wurde der emeritierte Papst Benedikt XVI. an diesem
Donnerstag auf dem Petersplatz in seine letzte Ruhestätte verabschiedet. Mehr
als 50.000 Menschen hatten sich auf dem Petersplatz eingefunden, um ihm die
letzte Ehre zu erweisen.
Es
zelebrierte der Dekan des Kardinalskollegiums, Kardinal Giovanni Battista Re,
während Papst Franziskus der etwa 90-minütigen Feier vorstand und die Predigt
hielt. Im Wesentlichen entsprach die Feier der Liturgie, die für das Begräbnis
eines amtierenden Papstes vorgesehen ist, auch wenn das liturgische Amt einige
Anpassungen vorgenommen hatte.
Bereits
am Mittwochabend, nachdem der letzte Pilger den Petersdom verlassen hatte,
erfolgte der Ritus der Sargschließung, wobei auch die rituellen Grabbeigaben
(wie die Münzen und Medaillen aus dem Pontifikat Benedikts, sein Pallium und
die „Rogitum“ genannte Pontifikatsurkunde) hinzugefügt wurden. Verlesen wurde
das „Rogitum“ durch den Zeremoniar Diego Ravelli.
Nebel,
Fahnen, Emotionen
Am
Donnerstag um 8.50 Uhr wurde dann unter aufbrandendem Applaus der Zypressensarg
mit den sterblichen Überresten des emeritierten Papstes auf den Vorplatz des
Petersdoms getragen und weithin sichtbar aufgestellt. Überwältigend war die
Anteilnahme von Kirchenvertretern: So waren nicht nur mehr als 120 Kardinäle
und 400 Bischöfe anwesend, sondern auch rund 4.000 konzelebrierende Priester.
Noch während des Rosenkranzgebetes, das dem eigentlichen Requiem voranging,
strömten bei nebligem Wetter zahlreiche weitere Pilger auf den Platz.
Schätzungen zufolge fanden sich mehr als 50.000 Menschen ein.
Auch
aus der bayerischen und deutschen Heimat des Verstorbenen waren viele Menschen
angereist; ganz in der Nähe des Altars hatten uniformierte Gebirgsschützen Aufstellung
genommen. Unter den offiziellen Gästen waren Bundespräsident Frank-Walter
Steinmeier, Bundeskanzler Olaf Scholz und Bayerns Ministerpräsident Markus
Söder. Der Vorsitzende der deutschen Bischofskonferenz, Bischof Georg Bätzing,
sowie die beiden deutschen Kardinäle Reinhard Marx (München) und Rainer Maria
Woelki (Köln) zählten zu den Konzelebranten.
Dem
Wunsch des emeritierten Papstes entsprechend, handelte es sich um eine
einfache, aber würdige Feier. Wie zuletzt 2005 beim Requiem für Johannes Paul II.
lag ein aufgeschlagenes Evangelienbuch auf dem Sarg des Verstorbenen.
Benedikts
Sarg wird auf den Petersplatz getragen
Papst
Franziskus meditiert über Hingabe und Gebet
In
seiner Predigt ging Franziskus auf die Hingabe ein, mit der Jesus seinen Dienst
bis zum Ende angenommen habe. „Vater, in deine Hände lege ich meinen Geist“: Um
diese letzten Worte Jesu, die das Lukasevangelium (Lk 23, 39-46) überliefert,
kreisten die Ausführungen des Papstes. Franziskus verzichtete darauf, ein
weiteres Mal zu einer Würdigung des verstorbenen bayerischen Papstes
auszuholen, und meditierte stattdessen über Lebenshingabe, Sanftmut, Gebet.
„,Vater,
in deine Hände lege ich meinen Geist‘ - so lautet die Einladung und das
Lebensprogramm, das der Herr einhaucht und welches das Herz des Hirten wie ein
Töpfer (vgl. Jes 29,16) formen will, bis sich in ihm die Gesinnung Christi Jesu
regt (vgl. Phil 2,5). Dankbare Hingabe im Dienst für den Herrn und sein Volk,
die sich aus der Annahme einer gänzlich ungeschuldeten Gabe ergibt… Betende
Hingabe, die sich still zwischen den Kreuzungspunkten und Widersprüchen, denen
sich der Hirte stellen muss (vgl. 1 Petr 1,6-7), und der vertrauensvollen
Aufforderung, die Herde zu hüten (vgl. Joh 21,17) herausbildet und verfeinert…
Betendes und anbetendes Vertrauen, das den Hirten verstehen lässt, was zu tun
ist und sein Herz und seine Entscheidungen den Zeiten Gottes anpasst (vgl. Joh
21,18)…“
„Benedikt,
du treuer Freund des Bräutigams, möge deine Freude vollkommen sein, wenn du
seine Stimme endgültig und für immer hörst!“
Die
ganze kirchliche Gemeinschaft vertraue an diesem Tag „unseren Bruder den Händen
des Vaters an“. „Mögen diese Hände der Barmherzigkeit seine mit dem Öl des
Evangeliums brennende Lampe vorfinden, das er während seines Lebens verbreitet
und bezeugt hat (vgl. Mt 25,6-7). Das gläubige Volk Gottes versammelt sich, es
begleitet das Leben dessen, der sein Hirte war, und vertraut es dem Herrn an.“
Alle
hier Versammelten wollten dem verstorbenen Papst „noch einmal die Liebe
erweisen, die nicht vergeht“, so Franziskus.
„Wir
wollen dies mit derselben Salbung und Weisheit, mit demselben Feingefühl und
derselben Hingabe tun, die er uns im Laufe der Jahre zu schenken wusste. Wir
wollen gemeinsam sagen: ‚Vater, in deine Hände übergeben wir seinen Geist‘.
Benedikt, du treuer Freund des Bräutigams, möge deine Freude vollkommen sein,
wenn du seine Stimme endgültig und für immer hörst!“
„Santo
Subito“-Rufe
Nach
dem Requiem: der Ritus der Aussegnung und Verabschiedung. Um 10.48 Uhr hoben
Träger den Sarg von Benedikt XVI. auf und trugen ihn in die Basilika, zur
endgültigen Bestattung in den Vatikanischen Grotten. Franziskus betete noch
einen Moment am Sarg, berührte ihn und verneigte sich davor.
Hinter
dem Sarg schritt Erzbischof Georg Gänswein, der engste Weggefährte Benedikts.
Und wie beim Requiem für Johannes Paul II. erschollen Rufe „Santo Subito“
(„Heiligsprechung sofort“), auch ein Schriftband mit diesen Worten war zu
sehen. Bayern- und Deutschland-Fahnen wurden geschwenkt, „Danke Papst Benedikt“
stand auf einem Transparent. (vn – div 5)
Die Predigt von Papst Franziskus
zur Beerdigung von Benedikt XVI.
Wir
dokumentieren die Predigt von Papst Franziskus bei der Totenmesse für Benedikt
XVI. an diesem Donnerstag auf dem Petersplatz in der amtlichen deutschen
Übersetzung. Nachlesen können Sie diese und andere Texte in den verschiedenen
Übersetzungen auch auf vatican.va, der offiziellen Internetseite des Vatikans.
»Vater,
in deine Hände lege ich meinen Geist« (Lk 23,46). Dies sind die letzten Worte
des Herrn am Kreuz; sein letzter Seufzer - so könnte man sagen -, der das zu
bestätigen vermag, was sein ganzes Leben kennzeichnete: ein ständiges
Sich-Hingeben in die Hände seines Vaters. In diese Hände der Vergebung und des
Mitgefühls, der Heilung und der Barmherzigkeit, diese Hände der Salbung und des
Segens, die ihn dazu brachten, sich dann auch in die Hände seiner Brüder und
Schwestern zu geben. Der Herr ließ sich in Offenheit für die Geschehnisse, die
ihm auf seinem Weg begegneten, vom Willen Gottes fein bearbeiten, indem er alle
Konsequenzen und Schwierigkeiten des Evangeliums auf seine Schultern nahm, bis
seine Hände die Wundmale seiner Liebe zeigten: »Sieh meine Hände«, sagte er zu
Thomas (Joh 20,27) und er sagt dies zu einem jedem von uns. Verwundete Hände,
die sich uns entgegenstrecken und immerfort darreichen, damit wir Gottes
Liebe zu uns erkennen und an sie glauben (vgl. 1 Joh 4,16).[1]
„„Du
gehörst mir ... du gehörst zu ihnen“, flüstert der Herr“
»Vater,
in deine Hände lege ich meinen Geist« - so lautet die Einladung und das
Lebensprogramm, das der Herr einhaucht und welches das Herz des Hirten wie ein
Töpfer (vgl. Jes 29,16) formen will, bis sich in ihm die Gesinnung Christi Jesu
regt (vgl. Phil 2,5). Dankbare Hingabe im Dienst für den Herrn und sein Volk,
die sich aus der Annahme einer gänzlich ungeschuldeten Gabe ergibt: „Du gehörst
mir ... du gehörst zu ihnen“, flüstert der Herr; „du stehst unter dem Schutz
meiner Hände. Du stehst unter dem Schutz meines Herzens. Du bist behütet in
meinen schützenden Händen, und gerade so befindest du dich in der Weite meiner
Liebe. Bleib in meinen Händen und gib mir die deinen“.[2] Die Nachsicht
Gottes und seine Nähe ermöglichen es ihm, sich in die schwachen Hände seiner
Jünger zu legen, um sein Volk zu speisen und mit dem Herrn zu sagen: Nehmt und
esst, nehmt und trinkt, das ist mein Leib, der für euch hingegeben wird (vgl.
Lk 22,19).
Betende
Hingabe, die sich still zwischen den Kreuzungspunkten und Widersprüchen, denen
sich der Hirte stellen muss (vgl. 1 Petr 1,6-7), und der vertrauensvollen
Aufforderung, die Herde zu hüten (vgl. Joh 21,17) herausbildet und verfeinert.
Wie der Meister trägt er auf seinen Schultern die ermüdende Last des Eintretens
für andere und die Zermürbung der Salbung für sein Volk, vor allem dort, wo das
Gute zu kämpfen hat und die Brüder und Schwestern in ihrer Würde bedroht werden
(vgl. Hebr 5,7-9). In dieser Begegnung der Fürsprache bringt der Herr die
Sanftmut hervor, die fähig ist, zu verstehen, anzunehmen, zu hoffen und alles
zu wagen – über das Unverständnis, das dies hervorrufen kann, hinaus. Es ist
eine unsichtbare und unbegreifliche Fruchtbarkeit, die entsteht, wenn man weiß,
in wessen Hände man sein Vertrauen gelegt hat (vgl. 2 Tim 1,12). Betendes und
anbetendes Vertrauen, das den Hirten verstehen lässt, was zu tun ist und sein
Herz und seine Entscheidungen den Zeiten Gottes anpasst (vgl. Joh 21,18):
»Weiden heißt lieben, und lieben heißt auch, bereit sein zu leiden. Und lieben
heißt: den Schafen das wahrhaft Gute zu geben, die Nahrung von Gottes Wahrheit,
von Gottes Wort, die Nahrung seiner Gegenwart«.[3]
„Weiden
heißt lieben, und lieben heißt auch, bereit sein zu leiden“
Eine
Hingabe, die vom Trost des Geistes getragen wird, der ihm bei seiner Sendung
immer vorausgeht: in dem leidenschaftlichen Bestreben, die Schönheit und die
Freude des Evangeliums zu vermitteln (vgl. Apostolisches Schreiben Gaudete et
exsultate, 57), im fruchtbaren Zeugnis derer, die wie Maria in vielerlei
Hinsicht beim Kreuz bleiben, in jenem schmerzvollen, aber starken Frieden, der
weder angreift noch unterdrückt, und in der hartnäckigen, aber geduldigen
Hoffnung, dass der Herr seine Verheißung erfüllen wird, wie er es unseren
Vätern und seinen Nachkommen für immer verheißen hat (vgl. Lk 1,54-55).
Auch
wir, die wir fest mit den letzten Worten des Herrn und dem Zeugnis, das sein
Leben geprägt hat, verbunden sind, möchten als kirchliche Gemeinschaft in seine
Fußstapfen treten und unseren Bruder den Händen des Vaters anvertrauen: Mögen
diese Hände der Barmherzigkeit seine mit dem Öl des Evangeliums brennende Lampe
vorfinden, das er während seines Lebens verbreitet und bezeugt hat (vgl. Mt
25,6-7).
„Er
zeigte Feingefühl und Hingabe“
Der
heilige Gregor der Große lud am Ende seiner Pastoralregel einen Freund dazu ein
und forderte ihn auf, ihm diese geistliche Weggemeinschaft zuteilwerden zu
lassen: »Inmitten der Stürme meines Lebens tröstet mich die Zuversicht, dass du
mich auf der Planke deiner Gebete über Wasser hältst, und dass du mir, wenn die
Last meiner Fehler mich niederzieht und demütigt, die Hilfe deiner Verdienste
leihst, um mich emporzuholen«. Dies ist das Bewusstsein des Hirten, dass er
nicht allein tragen kann, was er in Wirklichkeit nie allein tragen könnte, und
deshalb weiß er sich dem Gebet und der Fürsorge des Volkes zu überlassen, das
ihm anvertraut wurde.[4] Das gläubige Volk Gottes versammelt sich,
es begleitet das Leben dessen, der sein Hirte war und vertraut es dem Herrn an.
Wie im Evangelium die Frauen am Grab, so sind wir hier mit dem Wohlgeruch der
Dankbarkeit und der Salbung der Hoffnung, um ihm noch einmal die Liebe zu
erweisen, die nicht vergeht; wir wollen dies mit derselben Salbung und
Weisheit, mit demselben Feingefühl und derselben Hingabe tun, die er uns im
Laufe der Jahre zu schenken wusste. Wir wollen gemeinsam sagen: „Vater, in
deine Hände übergeben wir seinen Geist.“
Benedikt,
du treuer Freund des Bräutigams, möge deine Freude vollkommen sein, wenn du
seine Stimme endgültig und für immer hörst!
[1] Vgl. Benedikt XVI., Enzyklika Deus caritas est, 1.
[2]
Vgl. Ders., Homilie in der Chrisam-Messe, 13. April 2006.
[3]
Ders., Homilie in der Hl. Messe zur Amtseinführung, 24. April 2005.
[4]
Ebd. (VN 5)
Liebe
Sternsingerinnen und Sternsinger, danke für das Kommen und danke für eure guten
Wünsche für das Bundeskanzleramt und all die Männer und Frauen, die hier arbeiten.
Über 300 000 Sternsinger sind unterwegs.
Es
ist natürlich heute etwas ganz Besonderes, dass wir hier zusammenkommen. Denn
ich komme gerade aus Rom zurück, wo wir heute von Papst Benedikt XVI.
Abschied genommen haben. Er war eine prägende Figur der katholischen Kirche und
ein bedeutender Theologe. Es war sehr berührend, heute zu sehen, wie viel
dieser Papst den Gläubigen weltweit bedeutet hat, gerade wenn man auch die
große Zahl derjenigen wahrnehmen und sehen konnte, die es bis nach Rom
geschafft hatten, um daran teilzunehmen.
Papst
Benedikt war schon als Kind sehr engagiert in der Kirche, so, wie ihr alle es
seid. Die Idee des Sternsingens stammt von Kindern. Im Mittelalter baten als
Könige verkleidete Kinder um Spenden, allerdings meistens noch für sich selbst.
Ihr Sternsinger heute sammelt Geld für andere Kinder. Ihr macht euch für die
Gemeinschaft
stark. Das finde ich gut und wichtig.
Der
Aufruf, Kinder zu stärken und sie zu schützen, könnte nicht aktueller sein. Überall
auf der Welt, so, wie ihr es eben auch gesagt habt, erleiden Kinder Gewalt.
Kinder sind Krieg und all den Zerstörungen, die damit verbunden sind,
ausgesetzt. Jeden Abend sehen wir alle im Fernsehen und verfolgen im Internet
die schrecklichen Folgen des Krieges, der jetzt in unserer Nähe, in der
Ukraine, stattfindet. Immer wieder sind gerade Kinder die Opfer zum Beispiel
von Raketenangriffen. Viele Kinder sind deshalb auf der Flucht, ganz allein.
Das alles muss man wissen. Deshalb ist es ganz, ganz wichtig, was ihr tut, und
deshalb ist euer Engagement so bedeutend.
Natürlich
bedrückt es, dass Kinder Gewalt auch an Orten erleben, die ihnen Geborgenheit
bieten sollten, manchmal im eigenen Elternhaus oder im Verein ‑ so
etwas kommt auch vor ‑ oder in Gemeinden. Deshalb ist es ganz, ganz
wichtig, dass das Prinzip von allen sehr stark verstanden wird und alle sagen:
Der Schutz von Kindern, das steht vor allem, und darauf kommt es an. ‑
Darauf macht ihr aufmerksam. Das finde ich ganz, ganz wichtig.
Ich
wünsche euch, dass ihr viele offene Türen und viele Menschen findet, die euch
zuhören und die für euren guten Zweck auch spenden. Ich finde auch besonders
gut, dass ihr ein Partnerland, um das ihr euch kümmern wollt, gewählt habt, das
auch gerade die Welt versammelt hatte.
Indonesien
war das Land, in dem die 20 wichtigsten Wirtschaftsnationen der Welt in
diesem Jahr zusammengekommen sind. Ich war deshalb auch da. Dass ihr dort ganz
konkret mit denjenigen, die sich vor Ort einsetzen, zusammenarbeitet, spricht dafür,
dass eure Spendensammlung besonders erfolgreich sein sollte.
Auch
ich will gern eine Spende überreichen. Pib 5
Papst bei Generalaudienz: Ein
Plädoyer für die geistliche Begleitung
Zu
Gott geht man nicht allein: Das betonte Papst Franziskus in seiner letzten
Katechese zur spirituellen Unterscheidung an diesem Mittwoch. Dabei sei die
Hilfe eines spirituellen Begleiters äußerst wertvoll. Auch an die „gemarterte
Ukraine“ erinnerte der Papst am Ende seiner Generalaudienz. Christine Seuss -
Vatikanstadt
Mit
der Katechese an diesem Mittwoch hat Papst Franziskus seine Katechesenreihe zur
geistlichen Unterscheidung abgeschlossen. Nachdem er in feinfühligen Worten
seines gerade verstorbenen Vorgängers im Papstamt gedacht hatte, ging er auf
die Hilfsmittel ein, die bei der geistlichen Unterscheidung nützlich sein
können. Eines davon, so Franziskus, sei die geistliche Begleitung, die vor
allem für die Selbsterkenntnis als „unabdingbare Voraussetzung“ für die
geistliche Unterscheidung wichtig sei. In diesem Zusammenhang warnte Franziskus
vor einer einsamen Nabelschau: „Sich allein im Spiegel zu betrachten hilft
nicht immer, denn einer kann fantasieren über das Bild. Hingegen sich im
Spiegel mit der Hilfe eines anderen anzusehen hilft sehr, denn der andere sagt dir
die Wahrheit - wenn er wahrhaftig ist - und so hilft er dir.“
In
diesem Vertrauensverhältnis dürfe man auch keine Angst haben, sich vor dem
anderen zu entblößen und sich in seiner Schwäche und Zerbrechlichkeit zu
zeigen, mahnte Franziskus.
„Denn
in Wahrheit ist unsere Zerbrechlichkeit unser wahrer Reichtum“
„Denn
in Wirklichkeit ist unsere Zerbrechlichkeit unser wahrer Reichtum. Ein
Reichtum, den wir respektieren und annehmen müssen. Denn wenn wir ihn Gott
anbieten, befähigt er uns zu Zärtlichkeit, Barmherzigkeit und Liebe. Vorsicht
vor Menschen, die sich nicht zerbrechlich fühlen: sie sind hart, diktatorisch.
Hingegen die Menschen, die mit Demut ihre Zerbrechlichkeiten anerkennen, haben
mehr Verständnis für andere. Die Zerbrechlichkeit, das kann ich sagen, macht
uns menschlich.“
Wenn
sie von der Fügsamkeit gegenüber dem Heiligen Geist getragen sei, helfe die
geistliche Begleitung dabei, auch schwere Missverständnisse in unserer
Selbsteinschätzung und unserer Beziehung zum Herrn aufzudecken, gab Franziskus
weiter zu bedenken. So lege uns auch das Evangelium verschiedene Beispiele für
klärende und befreiende Gespräche vor, die Jesus geführt habe, erinnerte der
Papst mit Blick auf die Samariter, Zachäus oder die Emmausjünger: „Menschen,
die Jesus wirklich begegnen und keine Angst haben, ihm ihr Herz zu öffnen und
ihre Schwäche, die eigene Unzulänglichkeit, die eigene Zerbrechlichkeit zu
zeigen. Auf diese Weise machen sie die Erfahrung des Heils und der
unentgeltlich empfangenen Vergebung.“
Ob
Priester oder Laie, Mann oder Frau - die geistliche Begleitung ist wichtig
Mit
dem geistlichen Begleiter, sei er männlich oder weiblich, Priester oder Laie,
über die Dinge, die uns beschäftigten oder auch quälten zu sprechen, helfe
dabei, falsche oder giftige Gedanken zu entlarven, riet Franziskus weiter. Doch
dabei trete der Begleitende keineswegs an die Stelle des Herrn: „Er verrichtet
nicht die Arbeit der begleiteten Person, sondern geht an ihrer Seite und
ermutigt sie, das zu verstehen, was ihr Herz bewegt: der Ort, an dem der Herr
zu uns spricht.“ Ihm selbst gefalle es nicht, von einem spirituellen „Direktor“
zu sprechen, wie es teils üblich sei, sondern er ziehe das Wort „Begleiter“
vor, gestand Franziskus ein:
„Diese
Begleitung kann fruchtbar sein, wenn wir die Erfahrung der Kindschaft und der
geistigen Geschwisterlichkeit gemacht haben. (…) Wir sind nicht allein,
wir sind Menschen eines Volkes, einer Nation, einer Stadt, die unterwegs ist,
einer Kirche, einer Pfarrei, dieser Gruppe... eine Gemeinschaft auf dem Weg.
Man geht nicht allein zum Herrn. Das geht nicht.“
„Man
geht nicht allein zum Herrn. Das geht nicht“
Dabei
könnten auch wir selbst zum Beistand für andere werden, wichtig sei jedoch die
Erfahrung der Geschwisterlichkeit, sonst könne die Begleitung zu „unrealistischen
Erwartungen, Missverständnissen und Formen der Abhängigkeit führen, die den
Menschen in einem infantilen Zustand belassen“.
Das
Beispiel der Gottesmutter
Als
wahre „Meisterin der Unterscheidung“ würdigte Franziskus die Gottesmutter
Maria: „Sie spricht wenig, hört zu und bewahrt alles in ihrem Herzen“. Doch die
wenigen Male, die sie spreche, setze sie „ein Zeichen“, weise immer auf
Christus hin. Unterscheidungskraft sei überhaupt eine Kunst, die man „lernen
kann und die ihre eigenen Regeln hat“, betonte Franziskus, doch dabei dürfe man
sich nicht zum „Experten“ aufschwingen, der sich selbst genüge. Vielmehr müsse
man den Herrn um die Gnade bitten, zu unterscheiden, und um die Person, die
einem bei der Unterscheidung helfe. Es gelte, auf die Stimme des Herrn zu
vertrauen, die sich immer zu erkennen gebe und die sowohl beruhigt als auch
Trost spendet, betonte Franziskus:
„
,Fürchtet euch nicht‘ sagt der Herr auch heute zu uns: ,Fürchtet euch nicht‘.
Wenn wir seinem Wort vertrauen, werden wir das Spiel des Lebens gut spielen und
anderen helfen können. Wie der Psalm sagt, ist sein Wort unserem Fuß eine
Leuchte, ein Licht für unsere Pfade (vgl. 119,105). Danke.”
Gebet
für die Ukraine
Auch
die Ukraine war wieder in den Gedanken des Kirchenoberhauptes: Man dürfe im
Gebet für die leidenden Menschen in der Ukraine und um Frieden nicht
nachlassen, so Franziskus zum Schluss seiner Generalaudienz in den Grüßen an
die italienischsprachigen Pilger. (vn 4)
Erzbischof Gänswein über Benedikts
Erbe: „Ein Schatz, der bleibt“
Wenn
es jemanden gibt, der Benedikt XVI. in seinen letzten Jahren und Stunden nahe
war, dann heißt diese Person Georg Gänswein. Der Erzbischof kam an diesem
Mittwoch für ein Interview über die letzten Momente mit dem emeritierten Papst
in die Redaktion von Radio Vatikan.
Silvia
Kritzenberger: Wie haben Sie den emeritierten Papst in den letzten Tagen erlebt
und was waren seine letzten Worte?
Erzbischof
Georg Gänswein: Am Montag, den 26. Dezember, also am Stephanustag, habe ich ihn
noch mit dem Rollstuhl begleitet, wie regelmäßig in den letzten zwei Jahren.
Ich habe ihn von seinem Arbeitszimmer oder wo er auch immer war ins Esszimmer
geschoben, wo die Memores mit uns gegessen haben. Am Dienstag dann habe ich
allerdings nur die Pasta gegessen, weil ich zum Flughafen musste. Ich hatte ihm
gesagt, dass ich gerne zwei Tage nach Hause gehen würde, meine Geschwister und
meine Tanten und einige Freunde grüßen. „Gehen Sie, gehen Sie“, hat er gesagt.
Ich habe auch Doktor Polisca gefragt, ob das möglich ist, und der meinte,
selbstverständlich sei es möglich…
Sofortiger
Rückflug nach Rom
Ich
bin dann ganz normal nach Hause geflogen, kam abends an und habe geschlafen.
Und dann kam sehr früh morgens ein Telefonat, das war eine der Memores und sie
sagte, es gehe ihm nicht gut. „Wie, es geht ihm nicht gut?“, fragte ich. „Nein,
die Nacht war miserabel. Doktor Polisca ist schon da“. Ich habe darum gebeten,
ihn ans Telefon zu holen und sagte, dass ich sofort kommen und den ersten Flug
nehmen würde.
Und
bin dann also Mittwoch um ein Uhr schon wieder da gewesen. Ich bin sofort
natürlich an sein Bett getreten und dann bin ich richtig erschrocken, weil er
ganz schwer geatmet hat. Offensichtlich gab es da Schwierigkeiten mit der
Lunge, mit den Bronchien. Er wurde medizinisch betreut und der Tag über war
nicht einfach. Das war auch der Tag, an dem Papst Franziskus am Ende der
Audienz zum Gebet aufgerufen hat. Er kam dann ja, ich war noch gar nicht da,
aber Franziskus kam dann nach der Generalaudienz sofort hoch und hat gebetet
und ihn auch gesegnet.
Eine
unerwartete Verbesserung
Ja,
und dann kam ich, und der Mittwochabend war dann schwierig. Und ich fragte den
Arzt, wird er es denn schaffen? Der sagte: „Vom Gesichtspunkt eines Arztes kann
ich Ihnen keine Antwort geben, ja oder nein. Wir müssen warten.“
Und
am Morgen, am Donnerstag war es dann also wider Erwarten viel, viel besser. Ich
frage dann den Arzt danach, und der meinte, er hätte keine Erklärung: „Ich kann
es Ihnen nicht sagen. Ich weiß es nicht.“
Dann
hat es sich am Donnerstag über Tag etwas verschlechtert. Ich habe dann sofort
gesagt „Heiliger Vater, ich spende Ihnen die heilige Krankensalbung, und
nachher werden wir die heilige Messe hier feiern.“ Da war er noch ganz klar,
gerne wollte er das. Er hat bei der Messe nicht konzelebriert, sondern lag im
Bett. Ich habe ihm nachher die heilige Kommunion mit einem kleinen Löffel sub
specie sanguinis gereicht, also das Blut Christi, ganz wenig, weil er schon
zwei Tage nichts mehr essen konnte. Und das hat er alles noch realisiert.
Bis
zum Schluss präsent
Und
die Nacht von Donnerstag auf Freitag ging einigermaßen, und in der letzten
Nacht, die er gelebt hat, nämlich vom Freitag auf den Samstag, vom 30. auf den
31. Dezember, da war ich nicht präsent, sondern es war eine Pflegekraft
präsent, da waren die letzten Worte, die er verständlich aussprechen konnte,
auf Italienisch: „Signore ti amo“, auf Deutsch: „Herr, ich liebe dich“. Das war
das Letzte. Und das hat mir, als ich am Morgen in sein Zimmer kam, die
Pflegekraft sofort unter großen Tränen gesagt. Ich habe das nicht selbst
gehört. Nachts gegen drei, ich weiß jetzt nicht genau, ob es um 2:50 Uhr war
oder um 3:10 Uhr, auf Italienisch, „Signore ti amo“, „Herr, ich liebe dich“.
Ja,
und dann kam dann der 31., und da war es dann so, dass man sagen kann, dass er
innerhalb von drei Stunden einen freien Fall erlitt. Die Agonie hat Gott sei
Dank nicht so lange gedauert, das war wohl eine gute Dreiviertelstunde. Der
Arzt sagte, das kann man nicht hundertprozentig genau sagen. Man hat nur
gesehen und ich habe es so empfunden, dass er auf der Zielgeraden war. Ja, und
dann ist er um 9.34 Uhr gestorben.
„Und
dann eben das letzte Wort vom damaligen Dekan Ratzinger, Johannes Paul II.
sieht uns vom Haus des Vaters, und die Bitte: segne uns. Das ist mir unvergesslich.
Ich war auf dem Petersplatz, neben dem Altar. Unvergesslich.“
Als
ich seine letzten Worte „Herr, ich liebe dich“ hörte, musste ich an die Predigt
denken, die der damalige Kardinaldekan Ratzinger bei der Beerdigung von
Johannes Paul II. am 8. April 2005 gehalten hatte. Als er gepredigt hat über
Johannes 21, die dreimalige Frage des Herrn: „Liebst du mich?" Und dann,
auf das Ja, und die Aufforderung: „Folge mir nach". Und dann eben das
letzte Wort vom damaligen Dekan Ratzinger, Johannes Paul II. sieht uns vom
Haus des Vaters, und die Bitte: „Segne uns". Das ist mir unvergesslich.
Ich war auf dem Petersplatz, neben dem Altar. Unvergesslich.
Das
ist mir eingefallen, als der Pfleger mir sagte: „Signore ti amo“. Weil es die
gleichen Worte in Italienisch damals waren. Ja, und jetzt hat er es geschafft…“
Ein
Schatz, der bleibt
Silvia
Kritzenberger: Was hat Ihnen Joseph Ratzinger für Ihr Leben mitgegeben? Was
werden Sie am meisten vermissen?
Erzbischof
Georg Gänswein: Natürlich seine Person, seine Liebenswürdigkeit, seinen festen
Glauben, seine Klarheit seinen Mut und seine Fähigkeit, für den Glauben auch zu
leiden. Man sagt „Via crucis“, das ist ja auch nicht nur ein schönes Wort für
die Kunstgeschichte, sondern das ist ein Wort aus der tiefen Schatzkiste der Spiritualität
des Glaubens.
Aber
es wird auch bleiben, dieses unvergessliche Wort „Gioia“, also Freude, dass der
Glauben eben Freude schenkt. Also auch nach Johannes eben: Ich bin gekommen,
damit ihr die Freude in Fülle habt.
Das
ist das Schöne, dass menschlich auch das Leben weitergeht und dass ich aus
diesen Bildern, aus diesen tiefen Schatzgruben, doch immer wieder für mich
etwas herausnehmen kann und ich hoffe auch andere Menschen für sich etwas
herausnehmen und graben dürfen.
Silvia
Kritzenberger: Ich danke Ihnen für das Gespräch und auch herzlichen Dank, dass
Sie unseren Joseph Ratzinger, unseren Papst Benedikt, so lange und so treu
begleitet haben.
Erzbischof
Georg Gänswein: Vergelt’s Gott, danke! (vn 4)
Nuntius Eterovic: Benedikt blickte
bis zuletzt auf deutsche Kirche
Der
verstorbene frühere Papst Benedikt XVI. hat sich bis zuletzt besonders für die
Lage der Kirche in seiner Heimat Deutschland interessiert. Das sagte der
päpstliche Nuntius in Berlin, Erzbischof Nikola Eterovic, in einem Interview
für die kroatische Wochenzeitung „Glas koncila“ (Mittwoch). Er habe Benedikt
jährlich im Vatikan getroffen, zuletzt am 10. September zu einer rund
einstündigen Begegnung, so der Vatikandiplomat.
Damals
habe sich Benedikt besonders nach dem „Synodalen Weg“ erkundigt. Der
Reformprozess der katholischen Kirche in Deutschland habe „viel Lebendigkeit,
aber auch Spaltungen in den Kirchengemeinden gebracht“, so Eterovic in dem
Interview.
Benedikt
sei in den vergangenen Jahren altersbedingt körperlich zusehends geschwächt
gewesen, berichtete der aus Kroatien stammende Erzbischof, der im achtjährigen
Pontifikat Benedikts XVI. Generalsekretär der Weltbischofssynode war. „Aber
sein Geist war immer frisch und offen für alle gesellschaftlichen und
kirchlichen Fragen.“ Bei persönlichen Begegnungen sei Benedikt XVI. stets „sehr
einfach, freundlich und einladend“ aufgetreten. „Er hatte einen guten Sinn für
Humor.“
„Er
hatte einen guten Sinn für Humor“
Eterovic
nannte Joseph Ratzinger/Benedikt XVI. im Gespräch mit „Glas koncila“ „einen der
größten Theologen unserer Zeit“. Der verstorbene Papst werde für seine
Überzeugung in Erinnerung bleiben, „dass das Christentum nicht die Begegnung
mit einer Idee ist, sondern mit einer Person, nämlich Jesus Christus“.
Als
Generalsekretär der Bischofsynode war Eterovic maßgeblich für die Planung,
Durchführung und Nachbereitung der fünf großen Weltbischofssynoden zuständig,
die während der Amtszeit von Benedikt XVI. stattfanden: die Synoden über
Eucharistie (2005), das Wort Gottes (2010) und Neuevangelisierung (2012) sowie
zwei Sondersynoden über die Kirche in Afrika (2009) und den Nahen Osten (2012).
Benedikt
habe zu Beginn seines Pontifikats Vorschläge zur Weiterentwicklung der
Bischofssynode vorgelegt, „die erfolgreich umgesetzt wurden“, so Eterovic. So
sei es dem Papst damals wichtig gewesen, zum Abschluss der täglichen
Bischofsberatungen Raum für Diskussionen unter den Synodenteilnehmern zu
ermöglichen. „Diese Tatsache zeigt deutlich, wie Benedikt XVI. auch den innerkirchlichen
Dialog förderte“, so der Nuntius. (kap 4)
Kardinal Bertone: Erinnerung an
einen sanften Menschen
Er
war lange Zeit einer der engsten Mitarbeiter des verstorbenen Benedikt XVI.:
Kardinal Tarcisio Bertone. Zunächst arbeitete er mit dem damaligen Kardinal
Joseph Ratzinger in der Glaubenskongregation zusammen, während des Pontifikats
von Benedikt (2005-13) diente er ihm dann als Kardinalstaatssekretär. Hier sind
seine Erinnerungen an den Verstorbenen.
Dies
ist die gekürzte Fassung eines Artikels, den Bertone unter dem Titel: „Der Mann
und der Papst“ in der italienischen Ausgabe der Vatikanzeitung „L’Osservatore
Romano“ veröffentlicht hat. Kardinal Tarcisio Bertone – Vatikanstadt
Meine
Bekanntschaft mit Joseph Ratzinger begann zur Zeit des Zweiten Vatikanischen
Konzils, als er ein sehr junger deutscher Theologe war, einer der schärfsten
Köpfe der vorkonziliaren theologischen Szene. Obwohl er weder Mitglied noch
offizieller Experte war, gehörte er dennoch zu den aktivsten Beratern der
Konzilsväter und wurde auch außerhalb des deutschen Kreises angesprochen. Yves
Congar erinnerte sich an ihn wie folgt: „Zum Glück gab es Ratzinger. Er ist
vernünftig, bescheiden, uneigennützig, eine gute Hilfe“.
Als
Student habe ich während meiner Doktorarbeit häufig die Konzilsaula betreten,
um den Reden zuzuhören, und ich bin ihm zufällig begegnet, ohne ihn jedoch
näher zu kennen. Stattdessen begann ich, ihn häufiger zu besuchen, nachdem ich
zum Berater der Glaubenskongregation ernannt worden war, deren Präfekt Ratzinger
(inzwischen Kardinal) war.
„Das
gegenseitige Verständnis und die Wertschätzung waren unmittelbar“
Das
gegenseitige Verständnis und die Wertschätzung waren unmittelbar. Er rief mich
oft in sein Büro, um über spezifische Probleme zu reden. Nach meiner Ernennung
zum Sekretär der Glaubenskongregation 1995 intensivierten sich die Beziehungen,
auch weil wir im selben Gebäude an der „Piazza della Città Leonina“ wohnten.
Das Vertrauen reichte vom Austausch über Arbeitsprobleme bis hin zur
Geselligkeit beim gemeinsamen Essen, auch mit den Schwestern des Hauses oder
einigen Familienmitgliedern.
Aus
der Einfachheit und Vertrautheit, die sich zwischen uns entwickelte, ist eine
echte Freundschaft entstanden, die über die Zeit hinweg stabil geblieben ist –
auch in den schwierigen Zeiten, die folgten. Gerade die Freundschaft mit einem
diskreten Ton, der aber auch den einen oder anderen Witz oder die eine oder
andere spitzfindige Bemerkung nicht scheute, war ein Charakteristikum Joseph
Ratzingers.
„Er
war kein Panzerkardinal“
Diejenigen,
die ihn stereotyp als strengen, unflexiblen Mann, als Panzerkardinal usw.
beurteilt haben, haben offenbar nicht seine milde Seite wahrgenommen, wenn es
darum ging, den anderen, die Gründe des anderen zu verstehen, selbst in
Konfrontationen und Gesprächen, die über wichtige Lehrfragen stattfanden. Wenn
er bei der Lektüre der Protokolle der Korrespondenz zwischen der
Glaubenskongregation und Bischöfen oder Theologen einen harten Ausdruck fand,
korrigierte er ihn und empfahl, die Ausdrücke „abzumildern“, um die
Gesprächspartner nicht zu verletzen und ihre Aufgabe zu respektieren, wobei er
in aller Aufrichtigkeit dem besonderen Amt der Übermittlung des Glaubensgutes
treu blieb. Eine Treue, die ihm bei manchen heftige Kritik und Beleidigung eingebracht
hat, aber auch die Wertschätzung und Dankbarkeit vieler auch außerhalb des
katholischen Kreises.
Präfekt
Joseph Ratzinger sagte oft, dass es seine Aufgabe sei, den Glauben der Kleinen
zu schützen, der Demütigen, die nicht über das kulturelle Rüstzeug verfügen, um
den Fallstricken der zunehmend entchristlichten und säkularisierten Welt zu
begegnen.
„Frühstück
mit der Ex-Hausmeisterin“
Diese
Sanftmut gegenüber den Menschen durchdrang das gesamte Netz seiner Beziehungen.
Oft ging er am Donnerstagmorgen zum Frühstück zu der früheren Hausmeisterin der
Glaubenskongregation, die sich nach Gesellschaft sehnte. Als er Papst wurde,
kümmerte er sich weiterhin um sie und ihre Gesundheit und setzte sich für ihre
Aufnahme in einem Altersheim ein. Die Wertschätzung für den Präfekten, Kardinal
Ratzinger, war unter den Mitarbeitern der von ihm geleiteten Behörde einhellig,
nicht nur wegen der Weisheit seiner Beiträge, sondern auch wegen der
Freundlichkeit und Aufmerksamkeit, die er allen entgegenbrachte.
Als
Papst zeigte er auch gegenüber seinem Kammerdiener Paolo Gabriele nach der
traurigen und verworrenen Affäre, die unter dem Namen „Vatileaks“ bekannt
wurde, seine Barmherzigkeit: Er machte sich Sorgen um Gabrieles Familie und
Arbeit und empfahl ihm, eine Unterkunft und eine Beschäftigung außerhalb des
Vatikans zu suchen.
„Er
las die Zeichen der Zeit“
In
der nicht seltenen Komplexität und Dramatik der Jahre seines Amtes (zunächst
als Präfekt der Glaubenskongregation, dann als Papst), das er mit der Klarheit
eines tiefen Glaubens und einer großen Kultur ausübte, zeichnete sich Joseph
Ratzinger auch durch seine bescheidene Einfachheit des Lebens und seinen
häufigen Aufruf zur Freude aus; Freude, die er oft in seinen Reden oder
Predigten erwähnte und die er aus einfachen, alltäglichen Dingen schöpfte: die
Schönheit der Natur, die Zuneigung von Kindern oder Menschen, denen er auf der
Straße begegnete, als er im „Borgo Pio“ spazieren ging und noch nicht Papst
war, das Leben mit seiner Schwester Maria… In der Weihnachtszeit konnte man
erleben, wie er staunend wie ein Kind vor der Krippe stand.
Joseph
Ratzinger hat uns als Lehrer des katholischen Glaubens ein umfangreiches
theologisches Werk geschenkt, angefangen mit der berühmten „Einführung in das
Christentum“ (1968) und später, gegen Ende, mit der Trilogie über Jesus von
Nazareth. Außerdem hat er uns als Papst in seinem, wenn auch kurzen, Pontifikat
drei Enzykliken von großem Wert geschenkt. Sie zeigen uns heute die Modernität
von Benedikt XVI. und seine Fähigkeit, die Zeichen der Zeit zu lesen.
„Er
fragte auch mal nach Fußballergebnissen“
Jeden
Montag habe ich in meiner Zeit als Staatssekretär mit ihm zu Mittag gegessen.
Bevor er die Tagesordnung ansprach, tauschten wir Neuigkeiten aus, und manchmal
fragte er mich nach den Ergebnissen von Fußballspielen, da er meine
Leidenschaft für Sport kannte.
Nur
ein einziges Mal habe ich eine schmerzhafte Meinungsverschiedenheit erlebt: als
er mir im Frühjahr 2012 seine über einen langen Zeitraum im Gebet gereifte
Entscheidung anvertraute, auf das Papstamt zu verzichten. Vergeblich versuchte
ich, ihn davon abzubringen und ihm die Bestürzung zu erklären, die das für die
gesamte kirchliche Gemeinschaft und darüber hinaus bedeuten würde. Die
darauffolgende Zeit war für mich voller Sorgen und Ängste (ich habe versucht,
ihn dazu zu bewegen, die Ankündigung so lange wie möglich hinauszuzögern), aber
gleichzeitig beeindruckten mich die Ruhe, mit der er als Papst weiterhin die
Kirche führte, und seine innere Überzeugung, den Willen Gottes zu tun.
„Nur
ein einziges Mal habe ich eine schmerzhafte Meinungsverschiedenheit erlebt“
Bei
dieser Gelegenheit (seinem Rücktritt) hat sich der Papst mehr denn je als ein
Mann Gottes erwiesen. Mit evangeliumsgemäßer Geradlinigkeit erklärte er der
ganzen Welt, die den Sinn seines Verzichts wissen wollte, der Herr rufe ihn,
auf den Berg zu steigen, um sich noch mehr dem Gebet und der Betrachtung zu
widmen. Aber das bedeute nicht, dass er die Kirche im Stich lasse, im
Gegenteil.
Der
emeritierte Papst war mit seinem Nachfolger Franziskus durch den Dienst und das
Band des Gebets eng verbunden. Ich hatte das Privileg, bei meinen Besuchen in
seiner Residenz im Kloster Mater Ecclesiae diese Gestimmtheit seiner Seele aus
nächster Nähe zu erleben. Es waren immer intensive Momente; und es zeigte sich,
dass er, solange es seine Kräfte zuließen, den Weg der Kirche liebevoll
begleitete. (osservatore romano/vn 3)
Benedikt XVI. – die zehn Jahre nach
dem Pontifikat
Am
28. Februar 2013 um 20 Uhr hörte Papst Benedikt XVI. auf, Papst zu sein. Danach
lebte er bis zu seinem Tod zurückgezogen in einem kleinen Kloster in den
Vatikanischen Gärten. Öffentlich war er nur noch selten zu sehen und zu lesen –
manchmal aber doch. Gudrun Sailer – Vatikanstadt
Als
„einfacher Pilger, der die letzte Etappe seines Weges auf dieser Erde geht“
hatte sich Benedikt XVI. in seiner letzten öffentlichen Ansprache von den
Gläubigen verabschiedet. Zum Ort für dieses stille Pilgerdasein erwählte sich
der emeritierte Papst das Klausurkloster „Mater Ecclesiae“ in den vatikanischen
Gärten. Hier lebte Benedikt in seinen letzten Jahren als Emeritus und Eremit
umgeben von vier treusorgenden Schwestern, die ihm schon im Apostolischen
Palast den Haushalt geführt hatten, und mit seinem bewährten Privatsekretär
Erzbischof Georg Gänswein.
Benedikt
entschied, auch als emeritierter Papst seine weiße Soutane zu behalten,
einschließlich des Scheitelkäppchens, doch abzüglich des Schultermantels. Auch
die roten Schuhe legte er ab. Als freundlichen und gebeugten alten Professor in
Weiß und mit Sandalen erlebten ihn die Gäste, die ihn besuchten, Männer und
Frauen, die er schon lange kannten; manch Foto entstand und wurde stolz auf sozialen
Medien geteilt.
Einige
öffentliche Auftritte
Anfangs
trat der emeritierte Papst zu seltenen Anlässen auch öffentlich in Erscheinung,
und zwar immer zusammen mit Papst Franziskus und auf dessen Einladung hin. So
nahm Benedikt teil an der feierlichen Messe zur Heiligsprechung von Johannes
Paul II. und Johannes XXIII. am 27. April 2014. Ein großes Anliegen war dem
Emeritus offenbar auch das von seinem Nachfolger ausgerufene Heilige Jahr der
Barmherzigkeit. Nicht genug, dass er zur Eröffnungszeremonie am 8. Dezember
2015 im Vatikan präsent war: Benedikt durchschritt als zweiter, hinter
Franziskus, die Heilige Pforte der Barmherzigkeit im Petersdom. Seit ihm das
Gehen zunehmend Schwierigkeiten machte und Benedikt zunächst auf einen
Rollator, dann auf einen Rollstuhl angewiesen war, wurden diese Ausflüge in die
Öffentlichkeit selten und blieben schließlich ganz aus.
Worte
am Mikrofon
Hin
und wieder ergriff Benedikt in den Jahren nach seiner Abdankung auch am
Mikrofon das Wort. Im Juli 2015 empfing er in Castel Gandolfo eine
Ehrendoktorwürde aus Polen, genauer von der katholischen Universität und dem
Konservatorium von Krakau. Sein Leben lang hatte der emeritierte Papst
klassische Musik geliebt, und so sprach er an jenem Sommertag in den Albaner
Bergen über Musik, Schönheit und Glaube. Drei Ursprünge der Musik machte er
aus: die Erfahrung der Liebe, die Erfahrung der Trauer und die Begegnung mit
dem Göttlichen. „Wir wissen nicht, wie es mit unserer Kultur und mit der
Kirchenmusik weitergeht“, schloss Benedikt mit einer kulturkritischen Note,
„aber eines ist klar: Wo wirklich Begegnung mit dem in Christus auf uns
zugehenden lebendigen Gott geschieht, wächst auch immer wieder Antwort, deren
Schönheit aus der Wahrheit selber kommt.“
Die
Nachbarschaft zweier Päpste: neu in der Geschichte
Denkwürdig
auch die kleine Feier im Apostolischen Palast zum 65. Jahrestag der
Priesterweihe für Joseph Ratzinger – Papst Benedikt. Sowohl der Jubilar als
auch der amtierende Papst nahmen daran teil, beide hielten eine kleine
Ansprache. „Sie, Heiligkeit, mögen fortfahren können, die Hand des barmherzigen
Gottes zu spüren, der Sie trägt“, sagte Franziskus zu seinem emeritierten
Vorgänger. „Mögen Sie die Liebe Gottes erfahren und bezeugen!“ und Benedikt
sprach ein fast kindliches Dankeschön an Franziskus aus:
„Danke
vor allen Ihnen, Heiliger Vater! Vom ersten Moment Ihrer Wahl an, in jedem
Moment meines Lebens hier beeindruckt mich Ihre Güte, sie trägt mich wirklich,
in meinem Innersten. Mehr als die Vatikanischen Gärten mit ihrer Schönheit ist
Ihre Güte der Ort, an dem ich wohne: ich fühle mich behütet. Danke auch für die
Worte des Dankes, für alles. Und hoffen wir, dass Sie mit uns allen auf diesem
Weg der Göttlichen Barmherzigkeit fortschreiten können und uns so den Weg Jesu
zeigen, den Weg zu Jesus, zu Gott.“
Eine
harmonische Nachbarschaft führten sie, Franziskus und Benedikt, der amtierende
und der abgedankte Papst. Sie wohnten nur wenige hundert Meter voneinander
entfernt, auf demselben Hügel, im selben Staat, und waren einander
freundschaftlich verbunden – ein Novum in der Kirchengeschichte. Franziskus
suchte oft den Rat seines Vorgängers, kam vor Reisen, zu Weihnachten und zu
Ostern auf einen Sprung vorbei. Auch an Benedikts Sterbebett eilte Franziskus.
Einige
Interviews und Texte
Aktiver,
als viele nach seinem Rücktritt dachten, war Benedikt indessen mit seinen
schriftlichen Äußerungen. So erschien 2016 der Interviewband „Letzte Gespräche“
mit Peter Seewald. Der bayerische Journalist hatte bereits zuvor zwei
vielbeachtete Gesprächsbücher mit dem - damals amtierenden - Papst
veröffentlicht. In den „letzten Gesprächen“ nun erteilte der Emeritus offen
Auskunft über seinen Rücktritt, über Details seiner Biografie, über seine
angeschlagene Gesundheit und seine Sicht auf Entwicklungen der Kirche. In einem
weiteren Interview, das der Emeritus seinem Biografen Elio Guerriero gewährte,
erwähnte er das „wunderbar väterlich-brüderliche Verhältnis“ zu Papst
Franziskus.
Über
die Gemeinschaft des Glaubens, die sich nicht selbst schafft, sprach Benedikt
in einem theologisch profunden Interview mit dem Jesuiten Jacques Servais. In
einem Brief an den betagten, im Vatikan lebenden Kardinal Walter Brandmüller
verteidigte Benedikt mit klaren Worten den Schritt seines Amtsverzichts, den
sein bayerischer Landsmann öffentlich kritisiert hatte.
Die
Missbrauchskrise erreicht den emeritierten Papst
Streitbar
und kritisch trat der emeritierte Papst auch in einem langen Text vom
Jahresbeginn 2019 auf, in dem er die Missbrauchskrise der Kirche analysierte.
Benedikt machte dafür die 68-er Bewegung und einen Niedergang der katholischen
Moraltheologie zwischen den 1960-er und 1980-er Jahren verantwortlich.
Erzbischof Gänswein versicherte, Benedikt habe den rund 16 Seiten langen Brief
selbst verfasst.
Die
Missbrauchskrise in Deutschland erfasste den hochbetagten Emeritus ein Jahr vor
seinem Tod direkt: Er sei als Erzbischof von München und Freising (1977-1982)
nicht gegen einen Täter im Priesterstand vorgegangen, lautete eine konkrete
Anschuldigung aus einem Gutachten der Anwaltskanzlei Westpfahl Spilker
Wastl zu Fällen sexualisierter Gewalt im Erzbistum München und Freising.
Benedikt bat in einer persönlichen Antwort Betroffene von Missbrauch in der
katholischen Kirchen um Verzeihung, Vertuschungsvorwürfe gegen sich wies er
aber entschieden zurück.
Gebet
und Anteilnahme bis zuletzt
An
den Sitzungen seines Ratzinger-Schülerkreises, die ihm noch als Papst viel
Freude gemacht hatten, nahm Benedikt als Emeritus nicht mehr teil, doch empfing
er seine ehemaligen Schüler noch auf Jahre hinaus im Kloster „Mater Ecclesiae“.
Am häufigsten kam ihn dort sein Bruder Georg besuchen. Benedikts physischer
Radius schränkte sich mehr und mehr ein. Doch sein Gebet und seine Anteilnahme
am Geschick der Kirche blieben wach bis zuletzt. (vn 2)
Benedikts schönste Predigt: „Wer
glaubt, ist nie allein“
Er
war ein Mann des Wortes: Der verstorbene Benedikt XVI. hat viele bewegende
Betrachtungen und Reden gehalten. Aber seine schönste Predigt war wohl die von
2006, zuhause in Regensburg…
Auf
dem Islinger Feld feierte der bayerische Papst die Heilige Messe. Dabei
predigte er über den Glauben: „Wer glaubt, ist nie allein“. Was ihn lebenslang
bewegt hat – etwa das Verhältnis von Glaube und Vernunft –, das fasste er bei
dieser Gelegenheit in einfache Worte. Es war eine Sternstunde dieses
Pontifikats.
Jetzt,
nach dem Tod des emeritierten Papstes, wollen wir Ihnen noch einmal die
schönsten Auszüge aus dieser Predigt präsentieren – nicht nur als Text, sondern
auch im Originalton Benedikts, aus unserem Radio-Vatikan-Archiv.
Predigt
„Wer
glaubt, ist nie allein. … Zu einem Fest des Glaubens haben wir uns versammelt.
Aber da steigt nun doch die Frage auf: Was glauben wir denn da eigentlich? Was
ist das überhaupt, Glaube? Kann es das eigentlich noch geben in der modernen
Welt? Wenn man die großen Summen der Theologie ansieht, die im Mittelalter
geschrieben wurden, oder an die Menge der Bücher denkt, die jeden Tag für und
gegen den Glauben verfasst werden, möchte man wohl verzagen und denken, das sei
alles viel zu kompliziert. Vor lauter Bäumen sieht man am Ende den Wald nicht
mehr. Und es ist wahr: Die Vision des Glaubens umfasst Himmel und Erde;
Vergangenheit, Gegenwart, Zukunft, die Ewigkeit und ist darum nie ganz
auszuschöpfen.
Zum
Nachhören: Die schönste Predigt Benedikts XVI. (Regensburg 2006) - Radio
Vatikan
Und
doch ist sie in ihrem Kern ganz einfach. Der Herr selber hat ja zum Vater
darüber gesagt: „Den Einfachen hast du es offenbaren wollen – denen, die mit
dem Herzen sehen können“ (vgl. Mt 11, 25). Die Kirche bietet uns ihrerseits
eine ganz kleine Summe an, in der alles Wesentliche gesagt ist: das sogenannte
Apostolische Glaubensbekenntnis. Es wird gewöhnlich in zwölf Artikel eingeteilt
– nach der Zahl der zwölf Apostel – und handelt von Gott, dem Schöpfer und
Anfang aller Dinge, von Christus und seinem Heilswerk bis hin zur Auferstehung
der Toten und zum ewigen Leben. Aber in seiner Grundkonzeption besteht das
Bekenntnis nur aus drei Hauptstücken, und es ist von seiner Geschichte her
nichts anderes als eine Erweiterung der Taufformel, die der auferstandene Herr selber
den Jüngern für alle Zeiten übergeben hat, als er ihnen sagte: „Geht hin, lehrt
die Völker und tauft sie auf den Namen des Vaters, des Sohnes und des Heiligen
Geistes“ (vgl. Mt 28, 19).
„Der
Glaube ist einfach“
Wenn
wir das sehen, zeigt sich zweierlei: Der Glaube ist einfach. Wir glauben an
Gott – an Gott, den Ursprung und das Ziel menschlichen Lebens. An den Gott, der
sich auf uns Menschen einlässt, der unsere Herkunft und unsere Zukunft ist. So
ist Glaube immer zugleich Hoffnung, Gewissheit, dass wir Zukunft haben und dass
wir nicht ins Leere fallen. Und der Glaube ist Liebe, weil Gottes Liebe uns
anstecken möchte. Das ist das Erste: Wir glauben einfach an Gott, und das
bringt mit sich auch die Hoffnung und die Liebe.
„Das
Glaubensbekenntnis ist nicht eine Summe von Sätzen“
Als
zweites können wir feststellen: Das Glaubensbekenntnis ist nicht eine Summe von
Sätzen, nicht eine Theorie. Es ist ja verankert im Geschehen der Taufe – in
einem Ereignis der Begegnung von Gott und Mensch. Gott beugt sich über uns
Menschen im Geheimnis der Taufe; er geht uns entgegen und führt uns so
zueinander. Denn Taufe bedeutet, dass Jesus Christus uns sozusagen als seine
Geschwister und damit als Kinder in die Familie hinein adoptiert. So macht er
uns damit alle zu einer großen Familie in der weltweiten Gemeinschaft der
Kirche. Ja, wer glaubt, ist nie allein. Gott geht auf uns zu. Gehen auch wir
Gott entgegen, dann gehen wir aufeinander zu! Lassen wir keines der Kinder
Gottes allein, so weit es in unseren Kräften steht!
„Wir
glauben, dass das ewige Wort, die Vernunft am Anfang steht und nicht die
Unvernunft“
Wir
glauben an Gott. Das ist unser Grundentscheid. Aber nun noch einmal die Frage:
Kann man das heute noch? Ist das vernünftig? Seit der Aufklärung arbeitet
wenigstens ein Teil der Wissenschaft emsig daran, eine Welterklärung zu finden,
in der Gott überflüssig wird. Und so soll er auch für unser Leben überflüssig
werden. Aber sooft man auch meinen konnte, man sei nahe daran, es geschafft zu
haben – immer wieder zeigt sich: Das geht nicht auf. Die Sache mit dem Menschen
geht nicht auf ohne Gott, und die Sache mit der Welt, dem ganzen Universum,
geht nicht auf ohne ihn. Letztlich kommt es auf die Alternative hinaus: Was
steht am Anfang: die schöpferische Vernunft, der Schöpfergeist, der alles wirkt
und sich entfalten lässt oder das Unvernünftige, das vernunftlos
sonderbarerweise einen mathematisch geordneten Kosmos hervorbringt und auch den
Menschen, seine Vernunft. Aber die wäre dann nur ein Zufall der Evolution und
im letzten also doch auch etwas Unvernünftiges. Wir Christen sagen: Ich glaube
an Gott, den Schöpfer des Himmels und der Erde – an den Schöpfer Geist. Wir
glauben, dass das ewige Wort, die Vernunft am Anfang steht und nicht die
Unvernunft. Mit diesem Glauben brauchen wir uns nicht zu verstecken, mit ihm
brauchen wir nicht zu fürchten, uns auf einem Holzweg zu befinden. Freuen wir
uns, dass wir Gott kennen dürfen, und versuchen wir, auch anderen die Vernunft
des Glaubens zugänglich zu machen, wie es der heilige Petrus den Christen
seiner Zeit und so auch uns ausdrücklich in seinem ersten Brief aufgetragen
hat. (1 Petr 3, 15).
„Gott
lässt uns nicht im Dunklen tappen“
Wir
glauben an Gott. Das stellen die Hauptteile des Glaubensbekenntnisses heraus,
und das betont besonders der erste Teil davon. Aber nun folgt sofort die zweite
Frage: An welchen Gott? Nun, eben an den Gott, der Schöpfergeist ist,
schöpferische Vernunft, von der alles kommt und von der wir kommen. Der zweite
Teil des Glaubensbekenntnisses sagt uns mehr. Diese schöpferische Vernunft ist
Güte. Sie ist Liebe. Sie hat ein Gesicht. Gott lässt uns nicht im Dunklen
tappen. Er hat sich gezeigt als Mensch. So groß ist er, dass er es sich leisten
kann, ganz klein zu werden. „Wer mich sieht, sieht den Vater“, sagt Jesus (Joh
14, 9). Gott hat ein menschliches Gesicht angenommen. Er liebt uns bis dahin,
dass er sich für uns ans Kreuz nageln läßt, um die Leiden der Menschheit zum
Herzen Gottes hinaufzutragen. Heute, wo wir die Pathologien und die
lebensgefährlichen Erkrankungen der Religion und der Vernunft sehen, die
Zerstörungen des Gottesbildes durch Hass und Fanatismus, ist es wichtig, klar
zu sagen, welchem Gott wir glauben und zu diesem menschlichen Antlitz Gottes zu
stehen. Erst das erlöst uns von der Gottesangst, aus der letztlich der moderne
Atheismus geboren wurde. Erst dieser Gott erlöst uns von der Weltangst und von
der Furcht vor der Leere des eigenen Daseins. Erst durch das Hinschauen auf
Jesus Christus wird die Freude an Gott voll, wird zur erlösten Freude. Richten
wir in dieser festlichen Feier der Eucharistie unseren Blick auf den Herrn der
hier am Kreuz vor uns aufgerichtet ist, und bitten wir ihn um die große Freude,
die er in seiner Abschiedsstunde den Jüngern verheißen hat (Joh 16, 24).
„Der
Glaube will uns nicht angst machen,aber er will uns zur Verantwortung rufen“
Der
zweite Teil des Bekenntnisses schließt mit dem Ausblick auf das Letzte Gericht
und der dritte mit dem der Auferstehung der Toten. Gericht – wird uns da nicht
doch wieder Angst gemacht? Aber wollen wir nicht alle, dass einmal all den
ungerecht Verurteilten, all denen, die ein Leben lang gelitten haben und aus
einem Leben voller Leid in den Tod gehen mussten, dass ihnen allen
Gerechtigkeit widerfährt? Wollen wir nicht alle, dass am Ende das Übermaß an
Unrecht und Leid, das wir in der Geschichte sehen, sich auflöst; dass alle am
Ende froh werden können, dass das Ganze Sinn erhält? Diese Herstellung des
Rechts, diese Zusammenfügung der scheinbar sinnlosen Fragmentstücke der
Geschichte in ein Ganzes hinein, in dem die Wahrheit und die Liebe regieren:
das ist mit dem Weltgericht gemeint. Der Glaube will uns nicht angst
machen,aber er will uns zur Verantwortung rufen. Wir dürfen unser Leben nicht
verschleudern, nicht missbrauchen, es nicht einfach für uns selber nehmen;
Unrecht darf uns nicht gleichgültig lassen, wir dürfen nicht seine Mitläufer
oder sogar Mittäter werden. Wir müssen unsere Sendung in der Geschichte
wahrnehmen und versuchen, dieser unserer Sendung zu entsprechen. Nicht Angst,
aber Verantwortung – Verantwortung und Sorge um unser Heil, um das Heil der
ganzen Welt ist notwendig. Jeder muss seinen Teil dazu beitragen. Wenn aber
Verantwortung und Sorge zu Angst werden möchten, dann erinnern wir uns an das
Wort des heiligen Johannes: „Meine Kinder, ich schreibe euch dies, damit ihr
nicht sündigt. Wenn aber einer sündigt, haben wir einen Anwalt beim Vater:
Jesus Christus, den Gerechten“ (1 Joh 2, 1). „Wenn unser Herz uns auch
verurteilt – Gott ist größer als unser Herz, und er weiß alles“ (1 Joh 3, 20). (vatican
news 3)
Das geistliche Testament des
emeritierten Papstes Benedikt XVI.
Wir
veröffentlichen hier das geistliche Testament des verstorbenen, emeritierten
Papstes Benedikt XVI. auf Deutsch. 29. August 2006. Mein geistliches Testament
Wenn
ich in dieser späten Stunde meines Lebens auf die Jahrzehnte zurückschaue, die
ich durchwandert habe, so sehe ich zuallererst, wieviel Grund ich zu danken
habe. Ich danke vor allen anderen Gott selber, dem Geber aller guten Gaben, der
mir das Leben geschenkt und mich durch vielerlei Wirrnisse hindurchgeführt hat;
immer wieder mich aufgehoben hat, wenn ich zu gleiten begann, mir immer wieder
neu das Licht seines Angesichts geschenkt hat. In der Rückschau sehe und
verstehe ich, daß auch die dunklen und mühsamen Strecken dieses Weges mir zum
Heile waren und daß Er mich gerade da gut geführt hat.
Ich
danke meinen Eltern, die mir in schwerer Zeit das Leben geschenkt und unter
großen Verzichten mir mit ihrer Liebe ein wundervolles Zuhause bereitet haben,
das als helles Licht alle meine Tage bis heute durchstrahlt. Der hellsichtige
Glaube meines Vaters hat uns Geschwister glauben gelehrt und hat als Wegweisung
mitten in all meinen wissenschaftlichen Erkenntnissen standgehalten; die
herzliche Frömmigkeit und die große Güte der Mutter bleiben ein Erbe, für das
ich nicht genug danken kann. Meine Schwester hat mir selbstlos und voll gütiger
Sorge über Jahrzehnte gedient; mein Bruder hat mir mit der Hellsicht seiner
Urteile, mit seiner kraftvollen Entschiedenheit und mit der Heiterkeit des
Herzens immer wieder den Weg gebahnt; ohne dieses immer neue Vorausgehen und
Mitgehen hätte ich den rechten Weg nicht finden können.
Von
Herzen danke ich Gott für die vielen Freunde, Männer und Frauen, die er mir
immer wieder zur Seite gestellt hat; für die Mitarbeiter auf allen Stationen
meines Weges; für die Lehrer und Schüler, die er mir gegeben hat. Sie alle
vertraue ich dankbar seiner Güte an. Und danken möchte ich dem Herrn für die
schöne Heimat im bayerischen Voralpenland, in der ich immer wieder den Glanz
des Schöpfers selbst durchscheinen sehen durfte. Den Menschen meiner Heimat
danke ich dafür, daß ich bei ihnen immer wieder die Schönheit des Glaubens
erleben durfte. Ich bete darum, daß unser Land ein Land des Glaubens bleibt und
bitte Euch, liebe Landsleute: Laßt euch nicht vom Glauben abbringen. Endlich
danke ich Gott für all das Schöne, das ich auf den verschiedenen Stationen
meines Weges, besonders aber in Rom und in Italien erfahren durfte, das mir zur
zweiten Heimat geworden ist.
Alle,
denen ich irgendwie Unrecht getan habe, bitte ich von Herzen um Verzeihung.
Was
ich vorhin von meinen Landsleuten gesagt habe, sage ich nun zu allen, die
meinem Dienst in der Kirche anvertraut waren: Steht fest im Glauben! Laßt euch
nicht verwirren! Oft sieht es aus, als ob die Wissenschaft – auf der einen
Seite die Naturwissenschaften, auf der anderen Seite die Geschichtsforschung (besonders
die Exegese der Heiligen Schriften) – unwiderlegliche Einsichten vorzuweisen
hätten, die dem katholischen Glauben entgegenstünden. Ich habe von weitem die
Wandlungen der Naturwissenschaft miterlebt und sehen können, wie scheinbare
Gewißheiten gegen den Glauben dahinschmolzen, sich nicht als Wissenschaft,
sondern als nur scheinbar der Wissenschaft zugehörige philosophische
Interpretationen erwiesen – wie freilich auch der Glaube im Dialog mit den
Naturwissenschaften die Grenze der Reichweite seiner Aussagen und so sein
Eigentliches besser verstehen lernte. Seit 60 Jahren begleite ich nun den Weg
der Theologie, besonders auch der Bibelwissenschaften, und habe mit den
wechselnden Generationen unerschütterlich scheinende Thesen zusammenbrechen
sehen, die sich als bloße Hypothesen erwiesen: die liberale Generation
(Harnack, Jülicher usw.), die existenzialistische Generation (Bultmann usw.),
die marxistische Generation. Ich habe gesehen und sehe, wie aus dem Gewirr der
Hypothesen wieder neu die Vernunft des Glaubens hervorgetreten ist und
hervortritt. Jesus Christus ist wirklich der Weg, die Wahrheit und das Leben –
und die Kirche ist in all ihren Mängeln wirklich Sein Leib.
Endlich
bitte ich demütig: Betet für mich, damit der Herr mich trotz all meiner Sünden
und Unzulänglichkeiten in die ewigen Wohnungen einläßt. Allen, die mir
anvertraut sind, gilt Tag um Tag mein von Herzen kommendes Gebet.
Benedictus
PP XVI.
Audio: Damals, als wir Papst waren…
Wir
vom deutschsprachigen Programm von Radio Vatikan hatten Joseph
Ratzinger/Benedikt XVI. häufig bei uns zu Gast und haben ihn immer wieder
interviewt. Unser damaliger Redaktionsleiter, P. Eberhard v. Gemmingen SJ,
führte im August 2005 das erste Interview mit dem vier Monate zuvor gewählten
Papst.
Anlass
des historischen Interviews war der bevorstehende Weltjugendtag in Köln. Doch
heute, nach dem Tod des emeritierten Papstes, ist das Gespräch eine gute
Einführung in das Denken Benedikts XVI.‘ – das, was ihm wichtig war. Und was er
den Menschen vermitteln wollte.
Auszüge
aus dem Interview
Gemmingen:
„Was ist die Hauptsache, die Sie überbringen wollen?“
Benedikt:
„Ja, ich möchte zeigen, dass es schön ist, ein Christ zu sein. Es besteht ja
weithin die Idee, Christentum sei eine Menge von Geboten, Verboten, Lehrsätzen,
die man einhalten muss und dergleichen, und insofern etwas Mühseliges und
Belastendes – und man sei freier, wenn man diese Last nicht hat. Ich möchte
demgegenüber deutlich machen: Von einer großen Liebe und auch von einer
Erkenntnis getragen zu sein, ist nicht ein Gepäck, sondern es sind Flügel. Und
es ist schön, ein Christ zu sein! Diese Erfahrung (will ich vermitteln): dass
uns das Weite gibt. Dass uns das vor allem auch große Gemeinschaft gibt. Dass
wir als Christen eben nie allein sind - in dem Sinn, dass erstens Gott immer
mit uns ist und dass wir auch immer miteinander in einer großen Gemeinschaft
stehen, Gemeinschaft sind, ein Projekt der Zukunft haben und damit eben
wirklich ein Dasein haben, das sich lohnt. Die Freude am Christsein. Das es schön
und auch richtig ist, zu glauben.“
„Ich
möchte zeigen, dass es schön ist, Christ zu sein“
Aus
dem Radio-Vatikan-Tonarchiv: Unser Interview mit Papst Benedikt XVI. im August
2005
Gemmingen:
„Heiliger Vater, Papst sein heißt Brückenbauer sein – Pontifex. Nun hat die
Kirche eine alte Weisheit, und Sie begegnen einer Jugend, die Schwung hat, aber
vielleicht die Weisheit noch nicht so wahnsinnig viel mit Löffeln gegessen hat.
Wie kann eine Brücke gebaut werden zwischen dieser alten Weisheit eines
betagten Papstes und der Jugend? Wie geht das?“
Benedikt:
„Weisheit in sich ist nicht etwas Abgestandenes, wie wir im Deutschen das Wort
ein bisschen mit diesem Geschmack verbinden, sondern es ist ja Verstehen
dessen, worum es geht, ist der Blick aufs Wesentliche. Die jungen Menschen
wollen natürlich das Leben lernen, es selber neu entdecken, nicht einfach von
anderen vorgekaut bekommen. Das ist vielleicht der Gegensatz, den man da sehen
könnte. Aber zugleich ist Weisheit dann doch gerade das, was die Welt
interpretiert, was auch immer wieder neu ist, weil es in den neuen Kontexten
dann wieder hinführt auf das, worauf es ankommt und wie man dann das, worauf es
ankommt, verwirklichen kann.
Insofern
ist, denke ich, das Sprechen, Glauben, Leben von etwas heraus, das der
Menschheit geschenkt worden ist und ihr Lichter aufgesteckt hat, nicht Vorkauen
von etwas Abgestandenem, sondern ist gerade sozusagen der Dynamik der Jugend
angemessen, die ja auch nach dem Großen, nach dem Ganzen fragt. Darum geht es
in der Weisheit des Glaubens, dass wir nicht eine Menge von Details erkennen –
die sind für jeden Beruf wichtig –, aber dass wir über allen Details wissen,
worum es im Leben geht und wie Menschsein, wie Zukunft zu gestalten ist.“
„Glaube
ist das frische Wasser, mit dem wir leben können“
Gemmingen:
„Heiliger Vater, Sie haben (bei Ihrer Amtseinführung) gesagt: Die Kirche ist
jung, sie ist nichts Altes. Können Sie das noch ein bisschen genauer sagen, was
Sie damit meinen?“
Benedikt:
„Ja, sie ist zunächst jung, sagen wir im biologischen Sinn, dadurch dass ihr
sehr viele junge Menschen angehören. Sie ist aber auch in dem Sinne jung, dass
ihr Glaube sozusagen aus dem frischen Quell Gottes selber kommt… Es ist nicht
eine abgestandene Kost, die wir seit 2000 Jahren haben und die immer wieder
aufgekocht wird, sondern Gott selber ist der Quell aller Jugend und allen
Lebens. Und wenn der Glaube eine Gabe ist, die von ihm herkommt, sozusagen das
frische Wasser, das uns immer wieder gegeben wird, mit dem wir dann leben
können und das wir sozusagen als Kraft in die Wege der Welt einspeisen dürfen –
dann ist eben Kirche eine verjüngende Kraft.
Es
gibt einen Kirchenvater, der einmal über die Kirche nachgedacht hat und dabei
das Sonderbare sah, dass sie im Laufe der Jahre nicht älter, sondern immer
jünger wird, weil sie immer mehr dem Herrn, das heißt immer mehr der Quelle
entgegengeht, von der Jungsein, von der Neuheit, Erfrischung und, sagen wir,
die frische Kraft des Lebens kommt.“
Gemmingen:
„Heiliger Vater, es gibt – leider gerade auch in unseren nördlichen und reichen
Ländern – Abwendung nicht nur vieler Menschen von Kirche und Glauben, sondern
gerade auch der Jungen. Kann man dem etwas entgegensetzen, oder vor allem – wie
kann man vielleicht die Sinnfrage junger Leute so beantworten, dass die Jugend
sagt: Mensch, Kirche ist unsere Sache…“
Benedikt:
„Es ist klar, dass es in unserer modernen westlichen Gesellschaft viele
Bleigewichte gibt, die uns vom Christentum wegdrängen… Man will das Leben
zunächst selbst ergreifen, so viel leben, wie es nur geht. Ich denke an den
verlorenen Sohn, der sich sagt…: Ich muss das Leben so richtig ausschöpfen und
an mich reißen und genießen – bis er dann merkt, dass es richtig ist und dass
er frei war und groß war, als er im eigenen Vaterhaus war.
Nun
also, jedenfalls denke ich, unter den jungen Menschen breitet sich doch aber
auch die Empfindung aus, dass all diese Vergnügungen, die uns angeboten werden,
der ganze Freizeitbetrieb, all das, was man macht und machen kann und kaufen
und verkaufen kann, nicht das Ganze sein kann, dass es um mehr geht. Und
insofern ist, denke ich, doch auch eine große Frage danach da, was ist denn
dann das Eigentliche: Das alles, was wir da so haben und kaufen können, kann es
nicht sein. Deswegen gibt es ja auch sozusagen den Markt der Religionen… Aber
er ist ein Zeichen dafür, dass eine Frage da ist…
Das
Christentum ist voll unentdeckter Dimensionen und zeigt sich eben frisch und
neu. Wenn man so eine Frage wirklich wieder von Grund auf stellt, sozusagen das
Aufeinandertreffen der Frage, die da ist, und der Antwort, die wir leben und
die wir immer sozusagen selbst durch die Frage hindurch empfangen – das sollte
das Ereignis in der Begegnung zwischen Verkündigung und jungen Menschen sein…“ (vn
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